La moschea

Immagine tratta dal libro: Religione Perchè?, EDB

La moschea è il luogo di preghiera per i fedeli dell’Islam.
La parola italiana deriva direttamente dallo spagnolo “mezquita”, a sua volta originata dalla parola araba “masjid” arabo: مسجد che indica il luogo in cui si compiono le sujūd, le prosternazioni che fanno parte dei movimenti obbligatori che deve compiere il fedele orante.

Un tipo di masjid particolare è la masjid jāmi‘, la moschea “congregazionale”, dove si auspica per l’Islam che si radunino collettivamente i fedeli al fine di adempiere all’obbligo della preghiera obbligatoria (ṣalāt) del mezzogiorno (zuhr) del venerdì.In quanto luogo di preghiera la moschea non ha elementi indispensabili ma solo utili allo scopo. È infatti possibile pregare anche all’aperto, o dentro una casa qualsiasi, purché il terreno riservato alla ṣalāt sia delimitato da qualche oggetto (tappeto, stuoia, mantello, sassi) e sia il più possibile esente da sozzure. Questo perché – come d’altronde per tutti gli atti previsti dalla Legge islamica (sharīʿa) – è richiesto lo stato di purità legale (ṭahāra), ottenibile con lavacri parziali o totali del corpo, mentre il luogo della preghiera deve essere esente da evidenti sporcizie che potrebbero contaminare chi col terreno debba entrare in contatto, come appunto accade nella ṣalāt.

La moschea ha un miḥrāb (sorta di abside o nicchia che, nelle moschee più umili, può essere semplicemente disegnata su una parete o indicata da qualche oggetto nella preghiera all’aperto) che indica la direzione della Mecca (qibla) e della Kaʿba, considerata il primo santuario musulmano dedicato al culto dell’unico vero Dio (Allāh).
Pur non essenziale, una moschea può spesso avere anche un pulpito (minbar) dall’alto del quale un particolare Imām che si chiama khaṭīb, pronuncia la khuṭba, un’allocuzione cioè che non necessariamente propone l’esegesi di brani del Corano.
Perché la preghiera sia valida essa deve essere compiuta all’interno di precisi momenti (awqāt) della giornata, scanditi dall’andamento apparente del sole. Per questo uno speciale incaricato (muezzin, dall’arabo mu’ādhdhin) ricorda dall’alto di una costruzione a torre (minareto – dall’arabo manār, “faro”) – mediante un suo richiamo rituale salmodiato (adhān) che da quel momento in poi è obbligatorio pregare (in casa, all’aperto, in moschea).
Per le necessità della purificazione, sia all’interno sia nelle immediate adiacenze della moschea è spesso presente una fontana. Importante è infine l’area della preghiera (musalla), tendenzialmente rettangolare per consentire agli oranti di ordinarsi in file e ranghi, al cui interno può essere presente un orologio che in molte occasioni è di antica fattura, utile a segnalare il tempo rimanente perché sia valida la preghiera.
Caratteristica di ogni moschea è la mancanza di raffigurazioni umane o animali, in quanto osteggiate dall’Islam. Le decorazioni sono perciò tutt’al più di tipo fitoforme (legate cioè al mondo vegetale) ma, quasi sempre, sono presenti mosaici o scritte che riportano versetti del Corano tracciati con calligrafie considerate particolarmente “artistiche” che hanno dato modo all’Occidente di parlare di arabeschi.
FONTE: Wikipedia

Vi propongo una visita virtuale alla Moschea Blu di Istanbul. Cliccate sull’immagine.

Liliana Segre racconta la sua deportazione

Il 30 gennaio 1944 dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano partirono, ammassati sui vagoni, cittadini italiani di religione ebraica, per una destinazione che ormai ci è nota: i campi di sterminio da cui soltanto pochi sarebbero ritornati. Liliana Segre, che allora era una ragazzina della vostra età, racconta la sua esperienza.
Vi propongo il video “Binario 21 – Memoriale della Shoa di Milano”.

La storia della signora Segre è stata raccolta in questo libro:

I volti della memoria

Il Centro di documentazione ebraica contemporanea , ha messo in rete, proprio per la Giornata della Memoria, i volti  di 364 ebrei italiani finiti nei lager.
Ciò che colpisce nelle immagini custodite nel sito, è la foto di uomini, donne, bambini, giovani, ritratti nella loro “normalità”. Non vediamo i volti, tristementi noti, dei lager, con le stelle gialle al petto, sulla divisa da prigionieri, ma foto scattate per ricordare un piacevole evento (la gita al mare, la nascita di un fratellino), o foto da mandare ai parenti, o da conservare nell’album di famiglia. Foto scattate nella normalità di quello che era prima che si scatenasse la barbarie.
Vi riporto quanto ha scritto Marina Corradi su Avvenire del 27 gennaio:
Proprio la normalità delle immagini ren­de ancora più lacerante la me­moria di ciò che è accaduto. 
E poi, ci sono i bambini. Molti bambini. A nidiate, tre fratelli o quattro divisi da pochi anni. Come Fiorella, Anna, At­tilio, nati tra il ’37 e il ’41 a Roma, portati via dal Ghet­to. (Fiorella sembra una bambola, i nastri bianchi tra i capelli ricci). E la famiglia Sadun coi due ragazzini, ritratti al mare, in costume, in una giornata che si in­dovina di piena, felice estate. E Olimpia, infagottata e ridente nel freddo della sua Bolzano. E Carlo e Mas­simo, fratelli milanesi, il maggiore che abbraccia il più piccolo, neonato, con tenero orgoglio.
Questi non sono i ragazzini atterriti delle foto con la stella gialla sul petto e le mani in alto davanti ai sol­dati nazisti. Sono gli stessi, ma ‘prima’. Bambini e ba­sta. Solo da Roma, ne deportarono 288 (ne tornò u­no solo). E non puoi non pensare come fu che li strap­parono ai parenti, li incolonnarono, e con quali rau­che grida straniere li fecero salire sui camion. Non puoi non pensare cosa fu, nel brutale tramestio del rastrellamento, staccarsi dal padre, e avvinghiarsi al­la mano di una sorella di poco più grande, che sus­surrava materna: non aver paura. Partire stringendo in mano un orsacchiotto, disperatamente, come un ultimo brandello di casa. Poi, su quei treni, non sap­piamo. Il film si ferma, l’immaginazione si oscura – forse perché non tolleriamo di sapere.


 Che le vedano i nostri figli, le facce di quei vecchi i­nermi, e di quei bambini. Che facciano questo dolo­roso sbalordito tuffo in una memoria che, se a noi pa­re lontana, è in realtà così breve: quei ragazzi anda­vano a scuola con i nostri genitori. 66 anni, nei mil­lenni della storia, sono un soffio. L’Olocausto – il cuo­re del male, il genocidio sistematico, scientifico, pia­nificato, taylorizzato in una maggiore efficienza – è sta­to appena ieri. Che sappiano, i figli. Che non siano troppo, ottusa­mente tranquilli. Girano voci su Internet e non solo che dicono che l’Olocausto è bugia e propaganda. Che non è vero. Che non è accaduto. In un vertice di menzogna, che vorrebbe annientare anche la me­moria. Che li guardino, i nostri ragazzi, quei bambi­ni. Che sussultino, riconoscendoli familiari. Che sia­no, dal loro destino, almeno per un momento feriti. Ci sono ferite necessarie, che occorre lasciare aperte. Occorre lasciarsi ferire e ricordare per stare svegli, per restare uomini“.
Per fare questo salto nella memoria dovete cliccare nell’indirizzo che riporto sotto.

www.cdec.it/voltidellamemoria/

Giornata della Memoria 2010

PREGHIERA DI GIOVANNI PAOLO II
AL MURO OCCIDENTALE DI GERUSALEMME
Dio dei nostri padri,
tu hai scelto Abramo e la sua discendenza
perché il tuo Nome fosse portato alle genti:
noi siamo profondamente addolorati
per il comportamento di quanti
nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli,
e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci
in un’autentica fraternità
con il popolo dell’alleanza.

R. Amen.
Domenica, 26 marzo 2000

Il tempo del silenzio

Sono convinto che in questo momento, soprattutto in questa stagione, in cui ci sentiamo travolti dalla barbarie, da una spasmodica ricerca di apparenza e di esposizione, c’è assoluto bisogno di un tempo di silenzio per noi cristiani e per tutti gli uomini. Gli uomini dovrebbero imparare a fermarsi, ad avere un momento di interiorizzazione, meditazione, confronto, distacco. E noi cristiani siamo chiamati ad arrivare ad un ordinario discernimento. Se manca questa dimensione, tutta la nostra azione rischia di essere semplicemente una reazione alle diverse situazioni che ci feriscono o suggestionano. E’ una necessità instaurare nella vita un tempo di distanza dalle cose che facciamo per rimetterci a pensare. Altrimenti dimentichiamo chi siamo e dove andiamo“.

                                                                          Enzo Bianchi

(priore di Bose, a Segno, mensile dell’Azione Cattolica Italiana, n. 1 gennaio 2010)

Ebrei e cristiani: le radici comuni

Della visita del Papa alla sinagoga di Roma ho avuto modo di parlare. Sono passati ormai diversi giorni, ma vorrei condividere con voi la riflessione che lessi su Avvenire qualche giorno dopo.
Si tratta dell’editoriale di Carlo Cardia, che vi riporto quasi per intero, per un approfondimento dei rapporti che ci legano e di quelli che , purtroppo, nel corso della storia ci hanno allontanato. Sappiamo che il popolo ebreo ha molto sofferto per l’atteggiamento dei cristiani, che nei loro confronti hanno oscillato tra il rispetto e, (quanto mi pesa scrivere questa parola!), il disprezzo. Giovanni Paolo II (ricordate?) chiese perdono per il comportamento di chi tanto male fece a questo popolo.
Ma veniamo all’editoriale di cui vi parlavo:

“(…)  Benedetto XVI ha più volte richiamato le radici bibliche comuni, aprendosi alla dimensione religiosa, spirituale, del dialogo fino ad oggi un po’ sacrificata. Il rabbino Di Segni ha parlato del bisogno che cristiani ed ebrei hanno di conoscersi, e di «vivere la propria religione con onestà e umiltà, come potente strumento di crescita e promozione umana». La riflessione sui rapporti storici tra ebraismo e cristianesimo proseguirà, ed è giusto che sia così, per superare incomprensioni e diffidenze, per riparare a torti ed errori di altre epoche, ma per generazioni di giovani che non hanno vissuto i contrasti del passato, è giusto parlare anche di ciò che ha unito e unisce ebrei e cristiani presenti in tutto il mondo. Il cristianesimo ha universalizzato il Testamento ebraico, lo ha riconosciuto sin dall’inizio come proprio tesoro inestimabile, ha resistito ad ogni tentativo di scindere il cordone ombelicale che lo unisce in modo irreversibile all’ebraismo. La lettura e l’interpretazione delle Scritture conoscono una dialettica ebraico-cristiana che ha portato frutti per quanti approfondiscono la fede nello stesso Dio con la propria spiritualità. Benedetto XVI ha colto una difficoltà reale nel fatto che cristiani ed ebrei «hanno una gran parte di patrimonio spirituale in comune, pregano lo stesso Signore, hanno le stesse radici, ma rimangono spesso sconosciuti l’uno all’altro». Probabilmente queste parole meritano un approfondimento specifico, perché il dialogo tra cristiani ed ebrei non si esaurisce nei giudizi storici, ma deve avvicinare le comunità, far crescere i semi della fraternità nella coscienza di ciascuno. La comune ascendenza dal Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, non è un dato formale o di pura memoria storica, è ricca di contenuti ed è sostenuta nella fede in una rivelazione che è stata progressiva, per gli ebrei e per i cristiani.

I cristiani leggono lo stesso Testamento che hanno in comune con gli ebrei, pregano Dio con i salmi di gloria e di ringraziamento, si formano sugli stessi libri sapienziali, assaporano la paternità divina che gli ebrei sentono usando le stesse parole dei cristiani da sempre. Il nucleo della legge divina, fatta conoscere con il Decalogo consegnato a Mosè, è fondamento per ogni vita che voglia costruirsi nella giustizia e nell’amore per il prossimo, ma anche di ogni struttura sociale che violando la legge del Sinai sarebbe destinata al disfacimento. Nei libri dei profeti si manifesta il Dio della storia e del futuro, che trasmette all’uomo una saggezza destinata a penetrare nelle profondità dell’animo, delinea il destino di salvezza e di perdizione che ciascuno può realizzare con le proprie scelte e azioni. Nei libri sapienziali, l’uomo avverte e sviluppa quel senso della paternità divina che è forza e dolcezza insieme, avvolge la coscienza e forma la psiche, allarga l’orizzonte della sapienza ed eleva la creatura ai livelli più prossimi del Creatore. Il mistero del cammino del popolo ebraico è il mistero stesso dei cristiani, perché Dio si è mostrato poco per volta agli uomini, ha parlato in relazione alla loro capacità di apprendere, ha svelato il disegno di amore e di vicinanza che ciascuno di noi può sentire e avvertire dentro di sé come il dono più prezioso che abbia ricevuto.
Il dialogo tra Joseph Ratzinger e il rabbino statunitense Jacob Neusner, di cui si è parlato in questi giorni, dimostra come la figura di Gesù non divide ebrei e cristiani perché il suo insegnamento completa e arricchisce l’affresco biblico e il rapporto con il Dio di Abramo, e la sua figura può essere approfondita dai fedeli delle due religioni per meglio conoscersi e comprendersi. La storia e le colpe degli uomini hanno diviso ebrei e cristiani, la fede biblica può riavvicinarli, renderli protagonisti di un progresso spirituale di cui oggi la terra ha più bisogno di ieri.   Insieme, essi possono diffondere e difendere il messaggio etico comune, tutelare ciò che Dio ha donato all’uomo con l’opera della creazione, difendere la vita come valore sommo del disegno divino, possono trasfigurarsi nella preghiera allo stesso Dio nel quale si riconoscono per la comune ascendenza. Proseguire su questa strada non vuol dire cancellare le differenze tra le due religioni, ma avvicinare le comunità di fedeli, realizzare insieme esperienze spirituali e di carità, far sì che ebrei e cristiani non siano più «sconosciuti» gli uni agli altri, si incontrino e apprezzino sempre più i doni di cui sono stati gratificati dalla propria fede”.

Anna Frank, il filmino in cui la vediamo e i libri per conoscerne la storia

Quando saremo all’altro mondo e incontreremo i milioni di ebrei sterminati nei campi nazisti ed essi ci chiederanno che cosa abbiamo fatto noi che siamo sopravvissuti, io risponderò: “Io non ho dimenticato”.
(S. Wiensenthal)

Io non ho più dimenticato i pensieri che mi si accavallavano mentre, ragazzina della prima media, leggevo il Diario di Anna Frank. Come era stato possibile tutto ciò? Perchè la barbarie umana si era accanita contro gente innocente, contro ragazzi e ragazze che si stavano affacciando alla vita? Perchè distruggere così i loro sogni, i progetti per il futuro?
Sei milioni di ebrei sono stati sterminati nell’arco di due anni, e tra questi c’era Anna, una ragazza come tante.
Non possiamo dimenticare gli uomini, le donne, i bambini che, prima ancora di essere fisicamente uccisi, venivano cancellati come persone, ridotti a una serie di numeri tatuati sul braccio.
Oltre al Diario, di Anna Frank abbiamo altre testimonianze, che ci raccontano  cosa le accadde dopo la scoperta del rifugio segreto, in cui la sua famiglia era riuscita a nascondersi per due anni. Vi immaginate, 8 persone (la famiglia Frank, i signori Van Daan e il figlio Peter, il dottor Dussel)  costrette a convivere in pochi metri quadrati, per così tanto tempo?!
Se volete sapere di più di Anna vi suggerisco questi libri: 

Mi ricordo Anna Frank, Gold Alison L. ; Fabbri 
Gli ultimi 7 mesi di Anna Frank Lindwer Willy ; Newton & Compton 
Anne Frank, Poole Josephine; Barret Angela ; Emme Edizioni 
Anne Frank. Una biografia, Müller Melissa ; Einaudi

Infine, vi propongo  un breve video (l’unico) in cui Anna compare per pochi secondi. Erano ancora giorni felici, e Anna, ragazzina curiosa, si affaccia dalla finestra dell’appartamento in cui la famiglia Frank viveva, prima di doversi nascondere, per vedere la ragazza che sta andando a sposarsi.