Un video suggestivo che ci aiuterà a riflettere su cosa vuol dire essere cristiani.
Un modo divertente per imparare: ecco le fantastiche pagine animate di Umberto Forlini (tratte da Ufotto Leprotto) su Lutero, Calvino e la Riforma cattolica.
Cliccate sulle immagini.
Vi invito anche a rivedere alcuni post del passato. Cliccate qui e qui.
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padre Angelo Campagnoli |
Le religioni non sono tutte uguali. E’ importante conoscerle, per poter apprezzare il cammino di ognuna di esse, ma anche per riconoscerne le differenze. Non può esserci infatti vero dialogo tra i credenti delle diverse religioni se non nel rispetto reciproco, che rende possibile un confronto aperto e sereno su ciò che le rende differenti. E’ quanto testimonia padre Angelo Campagnoli intervistato dal confratello Piero Gheddo, mentre parla della sua esperienza di amicizia con i monaci buddisti.
“In Italia – mi dice – molti pensano che più o meno tutte le religioni sono eguali, invece tra cristianesimo e buddismo ci sono profonde differenze. Ad esempio, noi ci scandalizziamo giustamente per la divisione delle Chiese cristiane, ma il buddismo è molto meno unito. Nel solo Giappone ci sono 18 scuole diverse di buddismo, ciascuna delle quali dice che le altre sono sbagliate e nessuno si meraviglia.
“Fra cristianesimo e buddismo vi sono molte cose che sembrano simili mentre sono profondamente diverse. Ad esempio, nel buddismo la distinzione tra bene e male è meccanica, fatalista, il karma; nel cristianesimo la vita dell’uomo è un rapporto con Dio. Quindi anche se i nostri comandamenti dal quinto in avanti li hanno anche i buddisti, però ti accorgi che è diverso. Il cristiano sa che il comandamento viene da Dio, padre misericordioso che mi ha creato e mi vuol bene e quella legge corrisponde al mio bene; il buddista non deve fare il male per paura, perché altrimenti paga la sua disobbedienza attraverso la legge del karma che verrà applicata nella prossima rinascita. Ecco la differenza. Il cristianesimo è un rapporto con Dio, è rispondere ad un amore che ci ha amato per primo; mentre nel buddhismo non c’è nessuno rapporto del genere: c’è una regola che è il karma, legge che non ha perdono”.
A Phrae padre Angelo è stato invitato dai monaci buddisti a fare loro corsi di cristianesimo. L’abate gli diceva: “Ci sono sempre più turisti stranieri che vengono a visitare il nostro monastero e ci chiedono di spiegare loro il buddismo. Invito te, che sei un prete cattolico bene inculturato in Thailandia, a spiegarci il cristianesimo, in modo che possiamo parlare a questi turisti in modo appropriato. Campagnoli faceva dei corsi di cristianesimo a questi monaci, diventando loro amico. E poi aggiunge: “Nello spiegare il cristianesimo, dicevano che io faccio un salto. Il mio non è un ragionamento logico, perché dico cose che non spiego. Io ribattevo che questa è la fede in Dio, che vuol dire fidarsi di Dio che mi ama. E loro dicevano: ma noi facciamo solo quello che capiamo”.
Il dialogo con i buddisti, questa l’esperienza di padre Angelo, è progressivo, non è un confronto tra le fedi religiose e le verità da credere, ma una graduale e vicendevole comprensione e il racconto delle proprie esperienze. A loro interessa la vita non la teologia. Dice: “Un atteggiamento battagliero che esprime in modo deciso e aggressivo le proprie idee è il modo più sicuro per allontanare il tuo interlocutore. Se gli chiudi la bocca con le tue ragioni vincenti, non lo vedi più, starà alla larga: ci tiene troppo alla sua serenità interiore. Mai tentare di dimostrare che la tua religione è migliore della sua: puoi dire tutto il bene che vuoi della tua, ma non fare mai il confronto”. E racconta questo aneddoto di un catechista cattolico. Un amico buddista insisteva perché gli dicesse quale era la religione migliore: il cristianesimo o il buddismo? Il catechista intelligentemente gli risponde: “E tu dimmi: è migliore la mia moglie o la tua?”. E la conversazione fini lì. Guai se gli avesse detto che è il cristianesimo, avrebbe forse rotto il rapporto di amicizia.
“Io ho scoperto queste cose frequentando i buddisti, dice padre Angelo. Il dialogo inter-religioso è un’esperienza difficile e delicata, siamo ancora ai primi passi in questo cammino”. E conclude raccontando un’immagine che usava il grande guru Buddhadasa: “La vetta a cui vogliamo e dobbiamo arrivare è unica, le vie di ascesa sono diverse e ciascuno pensa che sta salendo per quella giusta”. Ma, dico io, conclude Angelo, se Chi sta sulla vetta mi grida giù: “Guarda che questa è la via maestra, la direttissima, la garantita”, io non posso che voltarmi verso l’amico che sta salendo per un’altra via e trasmettergli quel grido dall’Alto. E se lui continua imperterrito la sua faticosa salita, non mi resta che alzare il capo e gridare verso Colui che sta sulla vetta: “Signore, dai una voce più chiara anche da quella parte!”. E con la mia voce magari un po’ strozzata, affidare al vento dello Spirito un “Arrivederci sulla vetta, amico buddista”. E questo non è relativismo, ma la speranza di incontrarci tutti al termine del nostro cammino poiché noi sappiamo che la salvezza di Cristo arriva a tutti, anche a quelli che non lo sanno”.
FONTE: La Bussola Quotidiana
Vi propongo un semplice esercizio per verificare le prime informazioni che avete raccolto su Gesù.
Se qualcosa non vi porta, vi invito a rileggere le pagine del libro. Date anche un’occhiata al sito di due colleghi di religione (IdR per passione). Cliccate qui.
Per svolgere l’esercizio cliccate sull’immagine.
Rispecchiarsi negli occhi di un altro e riconoscervi la stessa umanità.
La nostra vita non può che restarne cambiata. Come è possibile rimanere indifferenti di fronte alla sofferenza degli altri? Come si può far finta di niente?
“Scosso” è il titolo di questa canzone degli Hawk Nelson, una Christian rock band del Canada. Le parole del brano sono un invito a lasciarsi trasformare dall’incontro con il volto dell’altro: “Signore usami, portami dove vuoi. Non posso farne a meno, il mio cuore è stato sostituito da un volto“.
Vi lascio il video della canzone e il testo.
I’ve stood alone a million times
That’s not the same as being alone
I’ve felt ignored, and left behind before
But that’s not the same as being disowned
Open my eyes, and help me see that there’s a world outside of me
I’m no different, I want to make a difference tonight
The words don’t always come out right
And I don’t normally cry
But you didn’t see the look in her eyes
I’ve been shaken
From my head, on down to my toes
Lord use me, take me where you want me to go
I can’t help it, my heart has been replaced with a face
I’m ready, these hands are dedicated to change
I’ve hurt before, but held inside
I’ve seen their tears, ‘cause pain is something they can’t hide
What makes us different?
We have a chance to listen tonight
Alla vigilia dell’8 marzo è morta a 89 anni Norina Galavotti, dal 1944 “mamma per vocazione” di 74 figli a Nomadelfia, la comunità religiosa fondata da don Zeno Saltini (che oggi si trova in provincia di Grosseto) dove i residenti vivono come un’unica famiglia.
Dal 1944 con don Zeno. Norina era nata a S. Giustina Vigona, frazione di Mirandola in provincia di Modena, il 5 febbraio 1923, seconda di tredici figli. A 21 anni, nell’estate del 1944, seguendo l’esempio di altre giovani, aveva lasciato la famiglia per entrare nell’Opera Piccoli Apostoli fondata da don Zeno Saltini, per diventare “mamma per vocazione”. Poi aveva seguito don Zeno nell’ex campo di concentramento di Fossoli di Carpi (Modena), occupato e trasformato nella comunità di Nomadelfia, dove si formavano le prime famiglie di sposi disposti ad accogliere come figli i bambini e ragazzi abbandonati, accanto alle famiglie di “mamme per vocazione”. Col passare degli anni Norina veniva inviata in diverse località ad avviare e animare nuovi gruppi della comunità di Nomadelfia: dal 1963 al 1978 aveva abitato a Vezzano, una frazione di La Verna (Arezzo), poi era tornata a Nomadelfia, dove il 15 gennaio 1981 morì don Zeno.
Gioie e lacrime. In una testimonianza recente aveva detto: “Ho 88 anni, vi assicuro che è stata una vita meravigliosa. Dico sempre: ‘Signore, ti ringrazio, perché ho provato delle gioie che le nostre mamme che ci hanno messo al mondo non hanno mai provato. Ho versato tante lacrime: se la mia stanza avesse le sponde, ci vorrebbe la barca per entrare. Se tornassi indietro, non farei nulla di diverso da ciò che ho fatto’”. E con questa consapevolezza si è spenta nelle prime ore di mercoledì mattina nella sua comunità, che la ricorda con grande amore, dopo un periodo di malattia vissuta in totale abbandono alla volontà del Signore.
Consacrata ai bimbi senza famiglia. “Tutti noi ricordiamo ‘la Norina’ con grande affetto”, afferma al Sir Andrea Galli, carpigiano, cresciuto a Nomadelfia con la moglie e i tre figli fino alla fine degli anni novanta e poi trasferitosi a Carpi. “Nel 1992-1994 – racconta – facevamo parte del suo gruppo e si prendeva cura dei nostri tre figli insieme agli altri, perché a Nomadelfia essere madri di vocazione significa rispettare la verginità sviluppando il senso di maternità, rinunciare a una famiglia di sangue per consacrare la propria vita a bimbi senza famiglia”. “Norina era una persona mite – continua Galli –, non l’ho mai vista arrabbiata, ed era una donna che, nonostante l’età avanzata, faceva veramente tutto quello di cui c’era bisogno: la ricordo ancora girare con il suo ‘carriolino’ per trasportare i panni lavati in casa. Aveva quella caratteristica che hanno tutte le ‘mamme per vocazione’ di Nomadelfia, cioè una forza interiore incredibile e inaspettata, che non le permetteva di fermarsi e di abbattersi, ma la spingeva ad andare sempre incontro agli altri in uno spirito di servizio, una forza che non veniva solo da lei. Gli ospiti che venivano in visita a Nomadelfia si chiedevano come avesse fatto a crescere 74 figli”.
FONTE: www.agensir.it
Un Dio buono può costringere la storia al dolore? Può permettere che il frutto del suo seno si perda nella sofferenza?
«Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato», ancora il servo pronuncia attesa di risposta. Nel cuore dell’uomo alberga la domanda di senso ma è proprio in quella sofferta ricerca che è possibile scorgere la luce. La compagnia di Dio, dentro, è via per superare l’amarezza, il dolore resta tale e la sua avventura non risparmia il giusto. Ma Dio, il mio Dio, aspetta sull’uscio di ogni evento e mi viene incontro per stringermi al petto, per accarezzare d’amore ogni storia.
tratto da Gennaro Matino (Buongiorno Vita, Avvenire dell’11 marzo 2012)
Così intitolava ieri un giornale, riferendosi alla tragedia che ha distrutto le vite di ventidue bambini che tornavano da una vacanza sulla neve.
La vignetta , sempre di ieri, pubblicata nel mio blog non si riferiva assolutamente a questo lutto. E’ vero comunque che Dio lo tiriamo in ballo di fronte a lutti e tragedie, anche quando nel corso della vita non ce ne siamo mai curati.
Non me la sento di dare risposte (che senso ha del resto pontificare di fronte a drammi del genere). Ma la tristezza che provo pensando a quelle mamme private dei loro figli, mi spinge ad affidarmi alle parole di Davide Rondoni, pubblicate su Avvenire di ieri.
«Ora ci vuole la delicatezza. Dopo che l’abbattimento, la disastrata pietà e la ferita, acuta, di un duro sbigottimento ci sono arrivati addosso con la notizia dei bambini morti nell’incidente in Svizzera. Ci vuole la delicatezza, per noi che assistiamo da lontano e però ci sentiamo vicini. Tornavano da una settimana di vacanza, promossa da un’associazione cattolica. Un colpo duro, un aprirsi di qualcosa come un vuoto nella mente e nel cuore.
L’ingiustizia suprema di una morte innocente. Ingiustizia che morde e la cui ferita non è lenita da nessuna consolazione. Da nessuna possibile giustificazione.
Quando avvengono fatti del genere si tende a sopprimere lo sgomento. C’è chi lo fa gettandosi in una curiosità spesso morbosa e infine ingiuriosa, un po’ infame, sui dettagli della cronaca. I media si prestano con insana furia a questo pasto. Si accomodano in questa trafila abietta. Poi c’è chi si volta dall’altra parte. Chi non vuole vedere, non intende sopportare. Non intende cioè portare questa cosa addosso. Come se non esistesse, o si trattasse di un altro mondo inguardabile, il mondo dell’orrore. E dunque dedica il minimo di attenzione e poi riposa gli occhi il altre faccende. In altre notizie di cronaca. Meno dure. Meno insopportabili. E invece noi vogliamo restare con gli occhi fissati sul fatto.
Guardarlo con la delicatezza che occorre e senza ripararci da nulla. Senza riparare la nostra carne, la nostra fede, la nostra intera vita anche di padri e madri di piccoli come quelli, esattamente come quelli, dal colpo, dal disastro.
La sventura che ha rapito i piccoli nella galleria, lo sbandamento del pullman e della vita che li ha consegnati a un destino misterioso, ci chiede prepotentemente, con la prepotenza che il cielo ogni tanto usa con gli uomini che dormono: voi, tu, a cosa state pensando veramente? A cosa state dedicando le vostre energie? Come si può stare in una vita che – come dice l’umile grandiosa Lucia alla fine dei Promessi Sposi, il capolavoro più vilipeso da noi italiani – conosce dei guai che arrivano senza che ce li cerchiamo, e come i guai le tragedie come questa? Cosa significa stare umanamente in questo frangente?
Girare gli occhi non è umano. Ficcare gli occhi in questioni secondarie e in dettagli morbosi non è umano.
Dev’essere delicato lo sguardo, rispettosissimo. E però non voltarsi. Non ripararsi. Come la delicatezza di uno che piange in silenzio e ricapitola in sé le ragione del vivere e morire. Se ci sono, se le ha viste. Perché di questo si tratta, ogni volta in cui la vita e la morte unite ci colpiscono e urgono. Così unite come in un piccolo bambino tolto al suo futuro, in un bambino di cui noi abbiamo vissuto e vivremo gli anni quasi usurpandoli, come gridava Ungaretti di fronte al figlioletto perso a nove anni.
Si tratta di questo: di ricapitolare le ragioni del vivere e del morire. Quella ricapitolazione fulminea, sapiente e delicatissima che ci fa dire – stringendo i denti, con un sospiro o con una cattedrale di fede nel cuore – aprendo le braccia: sono Tuoi, Signore, tienili.
Nessun altro atteggiamento è umano. Nessun altro atteggiamento è delicato e vero. Senza questa ferita apertura al mistero consegneremmo quei piccoli vivaci viaggiatori solo a un’altra morte o alla nostra misura di emozioni, cieca e febbrile. Sono Tuoi. È l’unica cosa giusta, in questa ingiustizia».
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