Mai più la pena di morte

La Comunità di Sant’Egidio ha organizzato il VII Congresso internazionale dei Ministri della Giustizia “Per un mondo senza pena di morte”.

Vi riporto l’articolo pubblicato su Avvenire del 28 novembre, a firma di Giovanni Ruggiero.
Basterebbero storie come quella di Marat Rakhmanov per opporsi alla pena di mor­te. A 28 anni, questo giovane russo finì nel braccio della morte accusa­to di un duplice omicidio che non a­veva commesso. Un abile avvocato lo strappò dalle mani del boia. A­desso porta la sua testimonianza al VII Congresso internazionale dei mi­nistri della Giustizia, «Per un mon­do senza pena di morte», voluto dal­la Comunità di Sant’Egidio che da anni si batte per l’abolizione nel mondo della pena capitale. A Roma sono presenti i ministri di venti Pae­si. Alcuni di questi prevedono la pe­na di morte ma hanno applicato u­na moratoria, come lo Zimbabwe, a­bolizionista de facto. Significativa la testimonianza del ministro di que­sto Stato, Theresa Makone, che cita le parole dell’attuale primo ministro, Morgan Tsvangirai, oppositore di Mugabe e condannato per questo a morte dopo essere stato accusato di ingiusti crimini. Lo Zimbabwe da 32 anni non fa ese­guire condanne capitali. Il primo mi­nistro ripete spesso: «Se continuia­mo a praticare la logica dell’occhio per occhio, il nostro Passe diventerà un Paese di ciechi». Il boia ha sem­pre meno spazio. Meno della metà dei Paesi che conservano la pena di morte hanno eseguito condanne. L’hanno abolita del tutto, di recente, l’Uzbekistan e l’Argentina (2008), il Burundi e il Togo (2009). È un buon segno, poi, la recente risoluzione del­l’Onu (19 novembre scorso) che chiede una moratoria universale del­la pena capitale. L’hanno votata 119 Paesi, contrari 39, mentre gli altri si sono astenuti o erano assenti. Nel 2012 lo Stato del Connecticut ha a­bolita la pena di morte e altre undi­ci nazioni, pur emettendo sentenze capitali, non le hanno eseguite. Ca­lo anche delle vittime: nel 2011 le e­secuzioni sono state circa 5.000 con­tro le 5.946 dell’anno precedente. Questo perché le esecuzioni stima­te in Cina sono passate da 5.000 nel 2010 alle 4.000 presunte del 2011. In controtendenza soltanto quattro Paesi che hanno ripreso le esecu­zioni: l’Afghanistan, gli Emirati Ara­bi, il Botswana e il Giappone. Il Congresso romano dei ministri della Giustizia va nella direzione di spingere sempre più Paesi a rifiutare la pe­na capitale. «Al fon­do della nostra bat­taglia – dice Mario Marazziti che nella Comunità è l’alfiere di questo impegno – c’è la consapevolez­za che non si può mai essere come chi uccide, qualunque siano le cir­costanze. Nessun essere umano smette mai di essere umano, anche il più violento, anche chi sembra un animale. E non si restituisce mai la vita a una vittima togliendone un’al­tra. Non si toglie mai il dolore profondo alle famiglie eliminando un’altra vita umana e creando nuo­ve vittime».

A portare il saluto del governo ita­liano ai ministri, il Guardasigilli, Pao­la Severino, che ha assicurato l’im­pegno dell’Italia. «Giustizia e vita – dice Severino – sono parole fonda­mentali della tradizione filosofica. Declinarle è un esercizio complesso e ancor più complesso è collocarle u­na accanto all’altro, stabilirne i con­fini, i rapporti reciproci. Queste due parole – aggiunge – stanno o cado­no insieme, non c’è una senza l’al­tra, se togli una, cade l’altra, se togli la vita, cade la giustizia, è un punto saldo, fermo, per la riflessione, ma anche un programma d’azione e un impegno politico». Dal ministro l’op­posizione ferma a questa pratica. «A coloro che sostengono la pena di morte come mezzo per prevenire i delitti più efferati, continueremo a rispondere che la crudeltà della san­zione non assicura affatto contro il crimine. La crudeltà assicura sol­tanto se stessa, assicura che il mon­do è crudele e questo mi pare assai poco utile come argomento contro il crimine». A Marco Impagliazzo, presidente della Comunità, il com­pito di concludere una giornata di dibattiti e testimonianze. «La pena di morte – dice – è il luogo dove si esprimono tutti i veleni del­l’ingiustizia. La pena di morte non rispetta la vita, segna l’ineguaglian­za tra persone ricche e povere. Dob­biamo lavorare tutti perché nella giu­stizia vinca la vita e non la morte». L’impegno contro la pena capitale sarà ribadito domani, con la Gior­nata internazionale «Cities for life». Vi aderiscono 1.350 città, tra le qua­li 67 capitali. Illumineranno il loro monumento principale. Per un no simbolico, la città di Roma accen­derà il Colosseo.

Restiamo amici. Parliamone!

L’articolo di Daniele Novara, pubblicato su Popotus del 27 novembre 2012, ci offre alcuni spunti per riflettere su come possa far bene litigare bene.
«Meglio darle che prenderle!» e allora ti getti e cerchi di mettercela tutta per buttarlo giù, ma quello è più arrabbiato di te e ti stende davanti a tutti. E allora pensi «La prossima volta gliele suono che poi la smette di rompermi». E allora lo aspetti e gli dici: «Hai paura perché sei una gallina senza penne e voglio dartele». Lui ti guarda e hai l’impressione che ti voglia prendere in giro. Lo sguardo è di superiorità e non lascia molti dubbi sulle sue intenzioni. Allora non ci vedi più dalla rabbia e ti avventi su di lui, lo getti per terra e lo riempi di pugni. Alla fine lui ti guarda sbigottito come se non avesse immaginato che eri proprio tu quella furia. Se ne va con la coda fra le gambe, ma sai già che la prossima volta tocca a te e che non ci sarà neanche il tempo per gustarsi questa soddisfazione. Allora pensi: «Anche litigare stanca!» Chiedi a un amico di dirgli che lo vuoi incontrare per parlare e smetterla di darsi botte. Ma quello non capisce e pensa che è uno scherzo e quando vi incontrate ti salta addosso e finisci con il prenderle, perché neanche eri pronto a dargliele indietro. E allora gli amici ti dicono: «È proprio un vigliacco… Tu volevi fare la pace e lui ti ha aggredito. Dobbiamo vendicarci». Ma tu sei proprio stanco di vendette e non hai voglia di ascoltarli. Vuoi capire se anche da un litigio può nascere un’amicizia. E aspetti, aspetti, aspetti finché un giorno giocando a calcio nel cortile della scuola segni un gol decisivo e lui ti viene incontro per abbracciarti perché fa proprio parte della tua squadra. Capisci che ce l’hai fatta e che stavolta hai vinto la sfida più difficile: aspettare finché il litigio diventa un gioco e poi un incontro e poi un’amicizia.

Il Credo: semplice commento al Simbolo apostolico

Nell’Anno della Fede stiamo approfondendo la riflessione su cosa significhi essere cristiani e quali sono i fondamenti del loro credo.
Fin dai primi tempi della Chiesa la fede cristiana è stata sintetizzata in brevi formule che vanno sotto il nome di «professione di fede›› o «Credo››. La più antica e anche la più semplice formulazione della fede cristiana è il Credo o Simbolo degli apostoli; ma altre sintesi sono state fatte nei primi concili, come il Credo niceno-costantinopolitano (381 d.C.), uno dei testi più importanti del cristianesimo.
La fede in un Dio unico ma in tre persone – Padre, Figlio, Spirito Santo(Trinità)- è al centro della fede di tutte le Chiese cristiane (cattolica, protestante, ortodossa): chi non crede che Gesù è pienamente uomo e Dio e nel mistero della Trinità non può essere considerato cristiano.
Vi riporto un breve commento agli articoli del Credo (tratto dal libro di testo Religione 2.0) che segue il  Simbolo degli Apostoli, che trovate cliccando qui.
1. Come gli ebrei e i musulmani, anche i cristiani sono monoteisti, credono cioè in un solo Dio, che è Padre onnipotente (può tutto) ed è anche il Creatore del mondo. Il primo libro della Bibbia (Genesi) ci racconta in modo simbolico e secondo le espres- sioni del tempo com’è avvenuta la creazione.
2. Per i cristiani, Gesù è la seconda persona della Trinità, il Figlio di Dio fatto uomo, vero uomo e vero Dio insieme.
3. Sulla base del Vangelo di Luca (1,26-38),i cristiani venerano Maria come la madre di Gesù che ha concepito il figlio in modo miracoloso.
4. La citazione di Ponzio Pilato, procuratore di Roma, dà valore storico alla crocifissione e morte di Gesù. Ancora oggi la tomba vuota, nella Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, è meta di numerosi pellegrinaggi.
5. Dopo la sua morte, Gesù discese agli inferi, per annunciare la liberazione dei giusti defunti e dare loro la vita eterna in cielo.
6. La fede in Gesù, risorto dai morti e vivo per l’eternita, è il centro del cri- stianesimo.
7. L’erede dell’imperatore romano sedeva alla sua destra e il Credo usa la stessa immagine per indicare che Gesù condivide l’autorità di Dio. Dalla sua gloria tornerà sulla terra per giudicare i vivi e i morti. Secondo il Catechismo della Chiesa cattolica, al momento della morte ci sarà per ogni persona un giudizio particolare e un altro universale alla fine dei tempi.
8. Lo Spirito Santo è la terza persona della Trinità, presente fin dalla creazione del mondo. Inviato a noi dal Padre insieme al Figlio, egli continua la sua opera nel mondo e nella Chiesa attraverso sette doni (sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timor di Dio).
9. La Chiesa è «cattolica» (termine di origine greca che significa «universale››), nel senso che è aperta a tutti. I credenti in Cristo formano una sola comunità in lui. Infatti, come afferma san Paolo, in lui «non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Quindi la parola «cattolica››, nel Credo, non sta a indicare la Chiesa cattolica romana, ma la natura della Chiesa; per questo le varie Chiese s’incontrano e pregano per ritrovare l’unità.
10. «Comunione dei santi» indica la comune partecipazione di tutti i membri della Chiesa alle cose sante (la fede,i sacramenti, i doni spirituali) e anche un legame particolare che unisce tutti i fedeli, sia vivi che defunti, alla Chiesa univer- sale, formando cosi in Cristo una sola famiglia (corpo mistico). «Santi» in questo senso sono tutti quelli che credono in Cristo e partecipano alla Chiesa, da non confondere con le persone eccellenti che vengono proclamate «sante» dalla Chiesa per essere di esempio agli altri cristiani.
11. Anche se con interpretazioni differenti tra le varie Chiese sul modo della «remissione››, tutti i cristiani credono che Gesù abbia salvato l’umanità dal peccato, assumendo su di sé ogni colpa. Spetta all’uomo accettare o meno questa grazia (o favore gratuito) che Dio ha fatto agli uomini attraverso Gesù; nella sua libertà l’uomo può anche rifiutare questo dono. Ma Dio perdona sempre coloro che si pentono e cambiano vita.

12. L’ultimo articolo del Credo afferma la fede nella vita che continua dopo la morte, anche dopo che il nostro corpo sarà ridotto in polvere. La vita eterna, stare con Dio per sempre, è il fine e la speranza a cui tende il cristiano. Come l’amen finale, termine ebraico che significa «sia cosi››, il credente sottoscrive – pur senza sapere come tutto ciò si realizzerà concretamente – quello che ha proclamato nel Credo, scommettendo su Dio e affidandosi completamente a lui.

I cavernicoli erano più intelligenti di noi?!!!

Leggo su Popotus del 15 novembre 2012:
«In barba all’evoluzione della specie, stiamo diventando sempre più stupidi. Almeno secondo gli scienziati dell’Università Stanford, convinti che la nostra intelligenza sia in costante diminuzione poiché non ne abbiamo più bisogno per sopravvivere. I ricercatori sostengono che stiamo perdendo le nostre capacità intellettuali – assieme a quelle emotive – perché, mentre millenni fa essere intelligenti poteva fare la differenza tra vivere e morire, oggi si sopravvive tranquillamente anche senza tutte le cellule grigie all’erta. All’origine della storia dell’uomo l’intelligenza era fondamentale per la sopravvivenza, ma, con il mutare delle condizioni ambientali, abbiamo cominciato a perdere lentamente terreno, dicono i ricercatori».
Devo confessarvi che, da qualche anno a questa parte, anche io ho cominciato a dubitare dell’intelligenza delle giovani generazioni. Non me ne vogliate, ma ci sono momenti in cui, mentre guardo il modo di comportarsi di alcuni alunni, qualche sospetto mi viene.
I nostri giovani sono sicuramente svegli, brillanti, ma quasi del tutto incapaci di adeguarsi alle situazioni. L’intelligenza, in fondo, è proprio la capacità di adeguare o modificare, se necessario, le strategie individuali alle caratteristiche dei problemi, agli obiettivi perseguiti e ai risultati ottenuti. E questo mi sembra che a volte manchi nei ragazzi.
E’ interessante notare come l’articolo sottolinei il legame tra le capacità intellettuali e quelle emotive, e anche su questo punto mi ritrovo con le conclusioni dei ricercatori dell’Università di Stanford.
Forse non è proprio così vero che la specie sta diventando stupida, ma per porre un argine alla stupidità noi adulti dobbiamo ritornare a mettere l’educazione delle giovani generazioni al centro del nostro impegno. Non possiamo educare rinunciando a trasmettere valori forti come l’impegno, la fatica, il sacrificio, l’attenzione agli altri. L’educazione li deve accompagnare a comprendere la realtà per inserirsi in essa in modo sempre più responsabile e libero.
Per questo si deve anche avere il coraggio di abbandonare quell’atteggiamento relativista che, non riconoscendo nulla come definitivo, lascia come ultima misura solo il proprio io con le sue voglie.

La Bibbia: il grande Codice della cultura occidentale

Nel campus di Toronto, fra i praticelli dove scoiattoli bruni o castani passeggiano arrampicandosi sugli alberelli, un distinto signore siede sulla panchina, con gli occhiali un po’ abbassati sul naso, tenendo aperto un libro tra le mani, tolto da una pila che tiene accanto. È Northrop Frye, o meglio la statua di bronzo del grande critico scomparso nel 1991, autore del saggio che ha reso familiare a un largo pubblico la promozione della Bibbia a ‘grande codice’ della cultura occidentale. Non si può resistere alla tentazione di sedersi accanto a lui, sulla panchina, per una foto ricordo, ma anche per spiare se il libro bronzeo sia aperto su un salmo o su una parabola, sulla storia di Giobbe o sull’Apocalisse, o sulle loro riscritture nelle letterature moderne. Non stupisce che l’università di Toronto, in cui ha esercitato il suo magistero, abbia dedicato un convegno al rapporto tra letteratura italiana e religione. Toronto non è solo la maggior metropoli del Canada: con i suoi 600 mila italocanadesi è una delle più grandi comunità di nostri conterranei oltre confine, e il Dipartimento di Italian Studies della sua università è da anni uno di più attivi. Nelle tre fitte e vivaci giornate del consesso si sono alterrnati al microfono studiosi americani e italiani, oltre ai promotori: Salvatore Bancheri, Franco Pierno, Francesco Guardiani, Anthony Cristiano. Invece di dare un resoconto dei numerosi e ricchi interventi, impresa qui impossibile, mi limito a segnalare le impressioni complessive che ne ho ricavato.
Primo: i tempi sono maturi per riconoscere che ignorare la religione nello studio della nostra letteratura significa amputarla e anche deformarla. Geniale ma fazioso, De Sanctis la faceva partire dal contrasto di Cielo d’Alcamo, un irriverente testo laicista e maschilista, mentre oggi nessuno nega che è incominciata con il Cantico di Francesco e la Lauda di Jacopone, un salmo in volgare e un dramma-preghiera.
Secondo: la religione irrora la letteratura non solo nel genere dei trattati teologici e delle preghiere, dei quaresimali e dei libri di devozione – la «Letteratura religiosa» oggetto del recente volume di Rita Librandi, edito dal Mulino –, ma la letteratura senza aggettivi, quella dei massimi autori, trattata nell’opera collettiva sulla Bibbia nella letteratura italiana, pubblicata dalla Morcelliana, su cui verteva la relazione inaugurale del convegno. Senza religione non si perdono solo Savonarola o Alfonso de’ Liguori, che già sarebbe una mutilazione grave, ma non si intenderebbero appieno Dante e Petrarca, gli umanisti e Tasso, Metastasio e Manzoni, e neppure i cosiddetti ‘lontani’, da Leopardi a Pirandello.
Quanto ai contemporanei, echi del sacro sono stati colti dai relatori, nei poeti, da Rebora a Luzi, ma anche in un cantautore, De André, e nei registri, da Rossellini a Moretti: due generi che oltre Oceano sono spesso studiati nel loro intreccio con la letteratura. Com’era da aspettarsi, l’autore più trattato a Toronto è stato Dante, che ai critici americani interessa soprattutto per le implicazioni teologiche, in polemica contro quelli, per pregiudizi crociani o avversione ideologica, vorrebbero separare la poesia dalla profezia. Come disconoscere che la pronta recezione del Purgatorio, ignorato dai coevi poemi sull’aldilà, è un grande acquisto umanistico oltre che teologico? Una costante emersa negli scrittori considerati è il confronto con la Parola sacra, reinterpretata e fatta propria, per dare un senso alla loro parola, per giustificarla, ‘renderla giusta’, e cogliervi significati nuovi e fermenti lievitanti.
FONTE: PIETRO GIBELLINI in Avvenire del 09/11/2012

Chi ha rubato il Natale e il resto?

di MIMMO MUOLO su Avvenire del 09/11/2012

Qualche tempo fa mio figlio Giuseppe mi ha chiesto: «Papà, ma Natale non è la fe­sta di Gesù Bambino?». «Certo», gli ho risposto. E lui prontamente: «Ma allora perché quasi tutti parlano di Babbo Natale e così poco di Gesù Bambino?». Confesso che la do­manda mi ha spiazzato, anche per­ché i bambini, si sa, hanno una ca­pacità di guardare le cose che noi a­dulti, per rispetto delle cosiddette convenzioni sociali, per superficia­lità o semplicemente perché in quel momento stiamo facendo altro, spesso e volentieri perdiamo. Così, in quel periodo prenatalizio di qual­che anno fa, ho co­minciato a guardar­mi intorno, a osser­vare meglio la realtà (televisione, giorna­li, pubblicità, discor­si della gente e quant’altro) e mi so­no accorto che l’o­biezione di mio figlio aveva un qualche fondamento. Emer­ge un fenomeno so­cio- culturale di vaste proporzioni che toc­ca, purtroppo, non solo il Natale, ma an­che le altre principa­li feste cristiane. Accade infatti che proprio il Natale sia ormai diventata – specie nell’Occiden­te industrializzato – una festa senza fe­steggiato. O meglio, con un surrogato di festeggiato: il Babbo Natale di tante pubblicità dalla ma­trice scopertamente consumistica. Pasqua, invece, passa per una gene­rica «festa della primavera», l’As­sunta risulta quasi completamente assorbita nel solleone del Ferragosto e Ognissanti, soprattutto presso il mondo giovanile, rischia di soc­combere all’invadenza di Hal­loween. La prima immagine che mi è venu­ta in mente è quella di una sorta di scippo. O meglio, per effetto delle correnti culturali dominanti, viene operata sul dna delle feste cristiane una sorta di mutazione genetica, che pur mantenendone inalterato il no­me e la struttura formale, ne cambia profondamente l’identità e in so­stanza le svuota del loro vero signi­ficato. Le motivazioni di questa mu­tazione, o se si vuole dello scippo, possono essere apparentemente di­verse. Ma la radice è unica e investe la sfera profonda dell’essere cristia­ni oggi, la corretta antropologia e in definitiva la stessa organizzazione sociale. Vediamo alcuni esempi.  
Il Natale e Buzzati

Dino Buzzati, in un suo racconto, afferma che «di Natale ce n’è trop­po ». Troppo Natale in senso con­sumistico. E troppo poco nel suo vero significato. Ricordo, infatti, che dopo l’osservazione di mio fi­glio, mi capitò di guardare in tivù un cartone animato americano che sembra essere la quintessenza di questo atteggiamento. Vi si nar­rava la storia di una muta di cani randagi che dovevano salvare il mondo da una sciagura incom­bente: il furto del Natale ad opera di una ‘banda’ di altri cani molto cattivi, non a caso disegnati come i feroci doberman. Ma il furto del Natale consisteva u­nicamente nella volontà dei ‘catti­vi’ di cancellare per sempre dalla faccia della Terra l’usanza di scam­biarsi i regali. Del resto, non è così anche nelle migliaia di spot e mes­saggi pubblicitari che ogni anno, i­nondano letteral­mente tivù, giorna­li, internet e cartel­loni stradali? Gli auguri di Natale non hanno più al­cun riferimento e­splicito alla nascita di Gesù. Punta a­vanzata di questa tendenza è l’on­nipotente Google, una sorta di ora­colo del nostro tempo. Di solito quando c’è l’anniversario di nasci­ta o di morte di un grande perso­naggio, l’home page del sito viene ridisegnata con caratteri particola­ri, ispirati proprio alla figura del commemorato. Se poi si porta il puntatore del mouse sul grande logo che campeggia nella pagina, una didascalia spiega: «Anniversa­rio della nascita (o della morte) di» e segue il nome del personaggio in questione. Il 25 dicembre 2011, invece, insie­me a un logo ridisegnato con il consueto cappellino rosso e la ne­ve, c’era scritto solo «Buone feste». Gesù censurato da Microsoft? Non solo. Nel 2010 la Commissione Eu­ropea ha prodotto più di tre milio­ni di copie di un diario dell’Ue per le scuole secondarie che non con­tiene nessun riferimento al Natale, ma include festività ebraiche, mu­sulmane e persino indù e sikh.  
La quaresima rimossa
Per la Quaresima, invece, più che di uno scippo si è trattato di una ri­mozione che ha fatto levaQsu a­spetti psicologici, per diventare comportamento diffuso. Si è insi­stito, insomma, sulle privazioni che l’ascesi comporta, presentan­dole come aspetti negativi che li­mitano la libertà dell’uomo. E si è agito soprattutto sulla semantica, trasformando a poco a poco il si­gnificato della parola Quaresima. Così il tempo di preparazione spi­rituale alla Pasqua, pian piano è diventato un periodo in cui biso­gna sacrificarsi a tal punto da ri­nunciare ad ogni tipo di umane soddisfazioni. Ma è proprio così? I Padri della Chiesa avevano in pro­posito un’idea completamente di­versa. Per san Giovanni Crisosto­mo, ad esempio, questo periodo assomigliava a «una palestra con i suoi esercizi e il suo addestramen­to ». In un clima culturale come quello odierno che esalta la cura del corpo, che vede il pullulare di palestre e circoli sportivi, perché non proviamo anche a noi a risco­prire la Quaresima come una pale­stra dello spirito, che ci consente di tenere allenata la nostra vita di fede? In tal modo anche gli aspetti di privazione, insiti nella spiritua­lità quaresimale, non diventano fi­ni a se stessi, ma solo dei mezzi per raggiungere un risultato. In fondo non è così anche nello sport? Chiunque abbia praticato, a qual­siasi livello, una disciplina agoni­stica sa bene che non tutti gli stili di vita sono compatibili con la pra­tica sportiva. E non si tratta solo di non bere e non fumare, ma anche di sapersi alimentare correttamen­te, di non eccedere nell’attività ses­suale, di rispettare un corretto e­quilibrio tra il sonno e la veglia, per non parlare della costanza negli al­lenamenti, che per definizione im­plicano sudore e fatica. I sacrifici, insomma, sono richiesti anche a chi si dedica allo sport, che di soli­to è annoverato tra le attività pia­cevoli.  
Una Pasqua di consumo
L’eclissi della Quaresima riversa le sue conseguenze anche sulla Pa­squa. La festa più importante della cristianità è oggi ridotta dalla pub­blicistica del consumo a poco più che uova e gita fuori porta. Ai bambini, fin dalle scuole dell’in­fanzia ed elementari, viene pre­sentata spesso come una generica «festa della Primavera», che cele­bra il risveglio della natura dopo il letargo invernale. E molti ritengo­no che celebrare la Pasqua in una società ormai multiculturale come la nostra rechi offesa al senso reli­gioso di quanti hanno un altro cre­do. La scuola è in prima linea in questo modo di pensare. Ma se la scuola rinuncia a trasmettere le basi della nostra cultura, come po­trà sviluppare poi il discorso sul re­sto delle necessarie cono­scenze? Quanto, infatti, del mistero di Pasqua c’è nella storia dell’arte, della lette­ratura, della musica, del pensiero? Quanto non sa­rebbe più comprensibile della storia di questi ultimi duemila anni senza fare più riferimento agli avveni­menti storici che i cristiani pongono a fondamento della loro fede? Probabil­mente un buon 80-90 per cento, se non di più. E quindi estromettere queste informazioni basilari dal­l’insegnamento equivale a far studiare la matematica saltando del tutto le tabelli­ne. Impossibile. Inoltre, proprio perché il discorso è di natura culturale, si può rispondere all’obiezione sul presunto rispetto nei con­fronti degli alunni di altre religioni. Questa obiezione è il frutto di un fondamen­tale fraintendimento tra scuola e catechismo. Vi è infatti chi pensa ancora (o a volte fa finta di non sapere) che a scuola, quan­do si parla di reli­gione cattolica, si faccia il catechi­smo. Nulla di più errato. Persino nell’ora di religione questa confusione di ruoli non esiste.
Compito della scuola è innanzitut­to trasmettere nozioni corrette e complete. Compito del catechi­smo è invece istruire nella fede, coloro che liberamente hanno scelto di aderirvi. Quindi ricordare che secondo i cristiani l’uomo Ge­sù è anche vero Dio e che è risusci­tato dai morti è profondamente di­verso dall’affermare: «Io credo nel­la Risurrezione di Gesù». Se al con­trario si affermasse definitivamen­te l’erronea convinzione secondo cui della Pasqua non si deve parla­re a scuola per rispetto a chi cri­stiano non è, il pericolo sarebbe un altro. Quello di privare gli alun­ni di tutta una serie di informazio­ni indispensabili per la loro suc­cessiva carriera scolastica. Tutto ciò riguarda anche i figli degli im­migrati di diverse fedi. I quali si troverebbero a vivere in un mondo quasi completamente indecifrabi­le senza quelle conoscenze basilari di cui essi, oltre tutto, sono più a digiuno degli altri, non potendo neanche disporre delle primarie mediazioni culturali date agli au­toctoni dalle proprie famiglie. Al­tro che rispetto, dunque. Nei loro confronti, al danno si aggiunge­rebbe la beffa. Proprio in nome di quell’integrazione e di quell’acco­glienza di cui oggi tanto si parla.

Il viaggio come metafora della vita

«È metafora dell’infinito andare ver­so: verso se stesso, verso gli altri, verso la vita. Sempre alla ricerca di un approdo, di un luogo in cui fare esperienza della bellezza di vivere. E l’incontro con ‘ogni al­tro’ comporta un viaggiare, un andare, un cambiare. E questo o­gni uomo lo sa. E come il viaggio ci porta lontano per farci essere più vicini, la relazione con l’altro ci porta lontano, ad uscire da noi stessi per farci essere più vicini».

(monsignor Mario Lusek, diretto­re dell’Ufficio Cei per la pastora­le del tempo libero, turismo e sport)

 

La capacità creativa dello sguardo

Tratto da Alessandro D’Avenia in “Noi. Genitori & Figli“, supplemento di Avvenire del 28 ottobre 2012.

 «(…)Un bambino lasciato senza parole o gesti di affetto muore o impazzisce. Un adolescente privato dello sguardo dei genitori é orfano di quegli occhi che consentono di accettarsi nella sua unicità, fatta di punti forti e punti deboli. L’uomo ha bisogno dell’uomo per diventare tale.(…) C’e una capacità creativa nello sguardo umano, come quello di Michelangelo sul blocco di marmo: lo sguardo puo determinare l’altro. lnfatti per poter amare noi stessi, secondo quanto detto sul cucciolo d’uomo, abbiamo bisogno di riceverci dagli altri. Non possiamo dire “io”, se prima non impariamo a dire ”tu”, e questo vale per il bambino come per l’aduIto. Solo chi si dona ad un altro può dall’altro ricevere se stesso e amare se stesso. Abbiamo bisogno di questo sguardo liberante che ci consente di vedere chi siamo e quale bene sia la nostra vita per la comunità umana. Lo sguardo innamorato ha un potere profetico e trasformante. Chi ci ama ci guarda in un modo che allo stesso tempo ci consente di essere noi stessi e ci spinge ad essere “più di noi stessi“, ci fa percepire la nostra vita per quello che é: dono e compito. (…)La bellezza di una persona è la grazia che una persona emana, e la emana quando la sua unicità volge verso la sua pienezza, quando occupa il suo posto nel mondo, quando realizza il suo dinamismo interiore: Ia sua vocazione. I garanti di questo compimento sono Dio e gli uomini. Agli uomini è affidata una parte, con i rischi che questo comporta. Ma anche Dio si fa garante, con il suo sguardo mai assente, anche quando gli uomini possono venire meno».