Fare Pasqua. Tutti i giorni

La Pasqua non è solo una festa celebrata una volta all’anno, per ricordare la morte e la risurrezione del Signore, ma anche la possibilità di vivere tutti i giorni come i due discepoli che la sera di Pasqua lasciavano Gerusalemme, la grande città, per tornarsene a Emmaus, il loro piccolo villaggio.
I due uomini, entusiasmati dal suo messaggio di pace, di giustizia e di amore fraterno, avevano seguito Gesù, convinti che la loro vita sarebbe diventata bella ed entusiasmante come l’avevano sempre desiderata. Con la morte del Maestro, svaniti i loro sogni, si erano rassegnati a tornare alla vita di sempre.Tutti noi siamo quei due discepoli. Come loro nutriamo desideri e sogni di cose belle e buone, straordinarie. Invece c’è sempre qualcosa che si mette di traverso, e che ci spinge a rinunciare.
Vivere la Pasqua significa reagire, come i due di Emmaus, alle difficoltà, alle delusioni, agli insuccessi.
A loro si accostò un pellegrino. Parlò con loro e fece ardere il loro cuore di nuovo entusiasmo, tanto che, arrivati al villaggio, lo pregarono di restare con loro. Era troppo bello ascoltarlo!
Durante la cena, il misterioso compagno di viaggio spezzò il pane, come fanno il papà e la mamma in famiglia, come fanno gli amici quando cenano insieme. Quel gesto aprì i loro occhi.
L’avevano tante volte vissuto con il Maestro e i suoi amici.
Allora: «È Gesù! È risorto!», esclamarono.
E, partiti stanchi e delusi, ritornarono di corsa a Gerusalemme.
Avevano capito che per superare le difficoltà che si oppongono ai nostri desideri è necessario non lasciarsi spaventare dagli ostacoli, ma camminare in compagnia di Colui che, avendo vinto la morte, può aiutarci a superare qualsiasi difficoltà.
Questo è vivere la Pasqua ogni giorno, che la festa di Pasqua ci ricorda una volta all’anno.

Tonino Lasconi in Popotus del 28 marzo 2013

Pontifex

Termine antichissimo e – come vedremo – assai dibattuto, è tornato d’attua­lità di recente per essere stato scel­to dalla Santa Sede come deno­minazione ufficiale dell’account del Papa su Twitter.
La storia del «pontefice», però, è molto più complessa di quanto lasci inten­dere l’attuale utilizzo all’interno dei social network. Nella Roma repubblicana, infatti, il Pontifex Maximus era il più impor­tante fra i sacerdoti appartenenti al collegio dei pontifices .
L’etimologia tradizionale, con­cordemente indicata da Dionigi di Alicarnas­so e da Varrone, rimanda all’immagine del pon­tem facere e si fonda sul carattere sacrale che la costruzione dei ponti assumeva nell’antichità. A Roma, in particolare, dove il Tevere era ve­nerato come un dio e l’azione di unire tra di loro le due sponde separate dal fiume richie­deva, per l’appunto, la mediazione di un sa­cerdote. È l’interpretazione prevalente, ma non l’unica.
Per Plutarco, ad esempio, all’origine del termine ci sarebbe l’ancestrale potis , “sa­crificio”. Pontifex , in questo caso, indichereb­be il fatto che il sacerdote è abilitato a eserci­tare il culto divino. Dibattito filologico a par­te, rimane lo straordinario prestigio assegnato al Pontifex Maximus , che rivestiva in sostanza la funzione di sommo sacerdote dell’Urbe. Si tratta di una delle cariche che Cesare Ottavia­no Augusto assommerà su di sé, imprimendo così un carattere sacrale alla figura dell’impe­rator , termine che all’inizio rivestiva il signifi­cato prettamente militare di “comandante”. Già tra II e III secolo dopo Cristo, negli scritti di Tertulliano, la qualifica viene riferita per e­stensione al vescovo di Roma.
Tratto da Avvenire del 23 marzo 2013

La croce e la gioia

«Guardiamoci intorno: quante ferite il male infligge all’umanità! Guerre, violenze, conflitti economici che colpiscono chi è più debole, sete di denaro, che poi nessuno può portare con sé, deve lasciarlo. Mia nonna diceva a noi bambini: il sudario non ha tasche. Amore al denaro, potere, corruzione, divisioni, crimini contro la vita umana e contro il creato! E anche ­ciascuno di noi lo sa e lo conosce ­i nostri peccati personali: le mancanze di amore e di rispetto verso Dio, verso il prossimo e verso l’intera creazione. E Gesù sulla croce sente tutto il peso del male e con la forza dell’amore di Dio lo vince, lo sconfigge nella sua risurrezione. Questo è il bene che Gesù fa a tutti noi sul trono della Croce. La croce di Cristo abbracciata con amore mai porta alla tristezza, ma alla gioia, alla gioia di essere salvati e di fare un pochettino quello che ha fatto Lui quel giorno della sua morte».
(dall’o­melia pronunciata da papa Francesco durante la Messa della Domenica delle Palme in piazza San Pietro)

Un incontro storico

Questo tempo di Quaresima ha offerto a noi cristiani, ma penso anche a chi ha la fortuna di non vivere gli avvenimenti della storia con superficialità, molte occasioni di riflessione e di meraviglia. Un Papa si è dimesso, con un grande gesto di umile servizio alla Chiesa, e un altro Papa, venuto dalla “fine del mondo”, ci ha stupito per le sue parole ed i suoi gesti.

Mai avrei immaginato quanto si sta compiendo in questi giorni nella Chiesa.
Mi affido alle parole di Mauro Cozzoli, pubblicate su Avvenire di ieri.
«Umiltà e semplicità: due piccole-grandi virtù. Piccole perché nascoste, inappariscenti, momenti e brani della kenosi evangelica. Grandi perché indici di magnanimità e generosità, espressioni della «libertà che abbiamo in Cristo Gesù» (Paolo ai Galati 2,4). È questa la grande risorsa del cristiano e della Chiesa: non conquista dell’uomo ma frutto dello Spirito di Dio nel cuore dei credenti e, per essi, nella comunità ecclesiale.
Nella testimonianza di umiltà di papa Benedetto e di semplicità di papa Francesco è all’opera lo Spirito Santo nella Chiesa oggi. E la Chiesa continua a risplendere, agli occhi degli uomini, come «sacramento universale di salvezza», «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium). Continua a risplendere, malgrado le insufficienze e i fallimenti, le colpe e gli scandali di suoi figli e le diffidenze e i disfattismi di tutti i profeti di sventure.
La libertà di umiltà e di semplicità con cui Benedetto e Francesco hanno contraddetto e sorpreso il mondo in questo tratto impervio e sofferto del cammino della Chiesa, dice della provvidenza di Dio che non abbandona il suo popolo Ma rinnova e guida la Chiesa attraverso la sapienza della croce. Sapienza kenotica del rinunciare, del farsi piccolo e servo; logica dell’ultimo posto, del perdere, marcire e morire, come il seme nel terreno, per germogliare, fiorire e portar frutto, per ritrovare e risorgere. Tanto più quanto più la grande crisi economica e morale insieme, che deprime persone e società oggi, le rende assai più sensibili a una Chiesa umile e semplice, sobria ed essenziale, perché a esse più vicina e solidale. Chiesa-faro di salvezza e di speranza nel buio e tra i frangenti del presente. Di qui lo sguardo ammirato della gente di ogni latitudine e continente, conquistata dalla libertà evangelica di Benedetto e di Francesco.
Tutto questo fermento in tempo di Quaresima. Tempo di conversione e rinnovamento: esodo di povertà e rinuncia, di distacco e dedizione, di provvisorietà e speranza, scandito dalle beatitudini evangeliche. Tutt’altro che motivi di distrazione dal cammino quaresimale, i due grandi eventi lo segnano efficacemente: due grandi kairos della grazia, per un ritorno penitenziale al Vangelo, nella sequela di povertà e diakonia del Divin Maestro. Eventi dono e appello dello Spirito alla Chiesa – e per essa al mondo intero – a uno stile di vita improntato all’essenzialità e alla convivialità evangelica».
Vi lascio il video dello storico incontro tra Benedetto e Francesco.

Basiliche, chiese e cattedrali

In questo periodo la basilica di San Pietro è stata e continua a essere al centro dell’attenzione di tutto il mondo. Da dove viene la parola basilica?
Basilica è una parola latina che deriva dalla parola greca basilikè, che significava reggia. Nell’antica Roma si chiamava basilica l’edificio pubblico di forma rettangolare con grandi sale e corridoi: serviva per riunioni politiche, comizi, letture. Poi il nome è passato a indicare l’edificio dell’antica architettura cristiana derivato dalla basilica romana, diviso all’interno da colonne o pilastri e destinato alle cerimonie religiose. Mentre la parola basilica indica una chiesa di grandi dimensioni e importanza, di forma allungata, che termina con un’abside e alla quale sono riconosciuti particolari privilegi liturgici, la parola chiesa indica un edificio che può anche essere di dimensioni e forma varie: la parola viene dal latino ecclesiam, che derivava dalla parola greca ekklesia, che significava assemblea, riunione, e che è stata usata prima per indicare la riunione, la comunità dei cristiani, e poi anche l’edificio consacrato destinato alla preghiera e alle cerimonie religiose. Dunque possiamo usare la parola chiesa per indicare l’edificio sacro (andare in chiesa; una chiesa barocca) ma anche, in senso più generale, l’insieme dei fedeli o dei sacerdoti o la comunità spirituale formata da tutti i cristiani (Gesù Cristo fondò la Chiesa). Ancora diversa è la storia di cattedrale, che si chiama così perché al suo interno c’è la cattedra, cioè il seggio del vescovo; infatti la cattedrale è la chiesa principale di una diocesi: al suo interno c’è la cattedra vescovile e il vescovo vi presiede le celebrazioni religiose.

Da Popotus del 19 marzo 2013

Norma come Antigone

Dal libro «L’eredità di Antigone. Storie di donne martiri per la libertà» di Riccardo Michelucci (edizioni Odoya). Articolo pubblicato su Avvenire del 16 marzo 2013.

Massa Marittima, 9 maggio 1944. In lontananza non si sente più il rumore delle e­splosioni. Sembra una giornata nor­male, almeno fino a quando quella cal­ma apparente non viene rotta dalle gri­da scomposte di un branco di soldati tedeschi e militi repubblichini. Stanno trascinando il cadavere straziato di un giovane partigiano per le vie del cen­tro cittadino. Lo abbandonano con di­sprezzo sul selciato della piazza del Duomo e nessuno osa avvicinarsi, neanche quando la banda di carnefi­ci si è ormai allontanata. L’unica che non fugge è una giovane donna di­ventata madre da pochi mesi. La sua coscienza le impedisce di assistere im­passibile, di fingere di non aver visto. Si avvicina per recuperare i poveri re­sti di quel partigiano, ne compone le spoglie, poi cerca qualcuno che l’aiu­ti a portarle via con un carro di fortu­na per provvedere alla tumulazione della salma nel cimitero comunale, sfi­dando apertamente il diniego delle au­torità. Poi avvisa i familiari del ragaz­zo, che abitano a una cinquantina di chilometri di distanza, facendo ritar­dare il seppellimento fino al loro arri­vo. Come Antigone, che andò incon­tro alla morte preferendo obbedire al­le leggi degli dei piuttosto che a quel­le degli uomini, anche Norma Parenti non ebbe alcun dubbio quando si trovò di fronte quel cadavere marto­riato. Sfidando il divieto di Creonte, re di Tebe, l’eroina di Sofocle si era reca­ta al campo di battaglia per dare degna sepoltura a suo fratello. Arrestata e por­tata al cospetto del re, Antigone si era detta fiera di aver obbedito alle leggi dettate dalla natura e dalla propria co­scienza, e per questo era stata con­dannata a morte. Con la stessa fierez­za priva di esitazioni, con lo stesso i­stintivo coraggio, Norma rifiutò le re­gole imposte da un potere violento, raccogliendo le spoglie del giovane partigiano, e facendo di tutto per con­segnarle alla terra, senza curarsi delle conseguenze del suo gesto.

Norma con il marito Mario
immagine tratta da Avvenire

Nata 23 anni prima nel cuore della Ma­remma Toscana, fin da piccola Norma Parenti aveva respirato in famiglia i valori della fede cattolica, dell’amore per la patria e per la libertà. Nella sua breve vita riuscirà a essere allo stesso tempo una moglie, una madre e una partigiana diventando una martire dei nostri tempi dopo essere stata fucila­ta dai nazisti. Quando, a partire dal­l’autunno 1943, la sequenza degli e­venti prende un’accelerazione deci­siva, Norma è agli ultimi mesi di gra­vidanza ma sente di dover contribui­re alla lotta di Liberazione. Inizia a oc­cuparsi dei rifornimenti ai partigiani e della diffusione dei volantini anti­fascisti e dei documenti clandestini del Comitato di Liberazione Nazio­nale. Nei primi mesi del 1944 diventa una staffetta al servizio del raggrup­pamento ‘Amiata’ della III Brigata Garibaldi. Trasporta viveri, armi e mu­nizioni, reca ordini al comando parti­giano, muovendosi sempre a piedi, al­la luce del giorno, nascondendo spes­so i suoi carichi proibiti sotto la car­rozzina del bambino. Dà rifugio ai par­tigiani braccati e ai perseguitati dal re­gime e riesce a salvare decine di ricer­cati politici, di ebrei e di disertori na­scondendoli nel fienile del magazzino di famiglia. La sua attività di propa­ganda partigiana la espone a rischi sempre maggiori, e sorprende la sua caparbia volontà di agire alla luce del sole, di affrontare il nemico a viso a­perto, di non nascondersi. La vendetta contro di lei si consuma la sera prima dell’arrivo degli Alleati, il 23 giugno, quando i nazifascisti vanno a prenderla a casa sua e la portano via a suon di spinte e percosse, verso le vi­cine mura cittadine. Da questo mo­mento in poi, possiamo soltanto far convergere realtà storica e immagina­zione, provando a dare forma ai suoi ultimi pensieri e a quella parte della sua vita che solo lei avrebbe potuto raccontare. Con la forza della dispera­zione cerca di allontanare la paura, mentre i suoi aguzzini la spingono ver­so una ripida strada sterrata che scen­de verso la valle. Con le sue preghiere prova a coprire i volgari schiamazzi di quegli uomini. Chiede alla Madonna di portarla lontano da quel luogo, di far­le rivedere suo figlio, di poterlo culla­re ancora una volta tra le sue braccia. Poi, mentre una luna piena dalla luce rossastra il­lumina il cielo, il gruppo scen­de la strada per poche centi­naia di metri e si ferma a ri­dosso di un podere circonda­to dagli ulivi. È un luogo che Norma conosce bene, anche se adesso le appare assai di­verso dal solito. Le grida degli scalmanati intorno a lei sono diventate improvvisamente mute, e non riesce più a sentirle. L’u­nica cosa che risuona nella sua men­te, dandole conforto, è un brano del Vangelo di Matteo. «Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Get­sèmani, e disse ai discepoli: sedetevi qui, mentre io vado là a pregare». In quel preciso istante Norma capisce che il Signore le darà la forza di af­frontare la Passione che si prospetta davanti a lei. Il suo cadavere viene ritrovato la mat­tina seguente, giorno della Liberazio­ne, e una processione spontanea, che diventa presto interminabile, si met­te in moto verso casa sua per render­le omaggio. L’Italia uscita dalla guerra onorerà la sua memoria conferendo­le la medaglia d’oro al valor militare.

Su Antigone vi invito a rileggere un post del passato. Cliccate qui.

Lo stemma di Papa Francesco

Un anello, uno stemma e un motto.Tra i primi impegni di papa Francesco c’è stata anche la scelta di questi tre elementi. Per il motto, cioè la frase in latino che farà da guida, il Papa userà quello che aveva già scelto da vescovo: Miserando atque elegendo, che possiamo tradurre in “amandolo e scegliendolo”. Anche per lo stemma papa Francesco ha voluto mantenere il disegno che già si trovava in quello vescovile: sullo scudo blu nella parte alta c’è il sole raggiato e fiammeggiante con le lettere “IHS”, che è il simbolo dei gesuiti, la congregazione a cui appartine. Sopra la lettera “H” c’è una croce e sotto la scritta compaiono tre chiodi che ricordano la crocifissione di Gesù. In basso nello scudo troviamo a sinistra la stella (che ricorda la figura di Maria) e il fiore di nardo (che ricorda la figura di san Giuseppe, spesso raffigurato con un ramo di nardo in mano). Dunque papa Francesco ha voluto esprimere la sua devozione alla Madonna e allo stesso san Giuseppe. E proprio nella solennità di san Giuseppe ha voluto fissare la Messa di inizio pontificato. Ultimo elemento è l’anello. Sarà d’argento e non d’oro, su volere di Francesco, e avrà l’immagine di san Pietro che tiene in mano le chiavi. Si tratta di un anello realizzato nel 1978, ben 35 anni fa, per Paolo VI, ma mai usato.

Da Popotus del 19 marzo 2013

Martiri di oggi: Shahbaz Bhatti

«Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per lui voglio morire. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi; mi hanno minacciato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, finché avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità. Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani qualunque sia la loro religione vadano considerati innanzitutto come esseri umani. 
Penso che quelle persone siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo».

(dal testamento spirituale; fonte fondazione Oasis)

Shahbaz Bhatti, è stato ucciso da un commando di fondamentalisti musulmani il 2 marzo 2011, all’età di 33 anni. Era l’unico ministro cattolico del governo pakistano. Si batteva per la libertà religiosa e la difesa delle minoranze.