Per i fratelli perseguitati

“Quanti di voi pregate per i cristiani che sono perseguitati? Quanti? Ognuno si risponda nel cuore: ‘Io prego per quel fratello, per quella sorella, che è in difficoltà, per confessare e difendere la sua fede?’. E’ importante guardare fuori dal proprio recinto, sentirsi Chiesa, unica famiglia di Dio!”. (papa Francesco, domenica 22 settembre 2013)
Cosa risponderemmo alla domanda che ci è rivolta?

Vi lascio alcuni passaggi dell’editoriale di Marina Corradi, pubblicato su Avvenire del 26 settembre 2013:

E chi ascoltava si è risposto, nel suo cuore. 100 morti e 130 feriti in Pakistan, domenica, in una chiesa anglicana. Abbiamo letto tut­ti, abbiamo pensato tutti: che cosa atroce. Ma finché un massacro accade nella regio­ne del Khyber Pakhtunkhwa, nome che non sappiamo nemmeno pronunciare e che sul­l’atlante faticheremmo a trovare, non ci toc­ca davvero nel profondo. È nella natura del­l’uomo del resto, che ciò che gli è lontano da­gli occhi non lo riguardi davvero. Ma qui è la differenza con lo sguardo dei cristiani, che sono, in Cristo, una cosa sola. E allora per­ché in realtà molte sciagure ci scorrono ad­dosso come i titoli delle agenzie che scivo­lano veloci sullo schermo del pc, in reda­zione? Forse, dice Francesco, perché siamo chiusi in noi stessi, o nel nostro piccolo grup­po, perché siamo di quelli per cui il cristia­nesimo è una faccenda privata, che riguar­da gli amici o, al massimo, il proprio Paese. È «triste», ha detto il Papa, questo «cristia­nesimo privatizzato».
Già, è triste. E magari nemmeno ci accor­giamo di essere così anche noi, praticanti, gente che va in chiesa. C’è chi domanda so­prattutto per sé; c’è chi comprende nelle sue preghiere, come è naturale e giusto, i suoi cari.[…] La nostra natura di uomini ci spinge, anche quando ci rivolgiamo a Dio, ad attendarci in ben mar­cati confini. Del tutto altra, e incommensu­rabilmente più grande, la preghiera dei cri­stiani, cui è stato detto: «Io sono la vite, e voi i tralci». Rami, dunque, foglie e frutti di una unica cosa viva.
Ma ancora una volta Francesco nell’indi­care la strada non si richiama a un doveri­smo, a un nostro dover affannarci a essere più buoni, ma a un domandare. L’unità dei cristiani, ha detto, «non è primariamente frutto del nostro consenso», o del nostro sforzo. Il motore dell’unità è lo Spirito, que­sto gran respiro della Chiesa, invisibile al mondo e però operante. È lo Spirito dun­que che occorre pregare, perché sia lui a ampliare i nostri orizzonti, e a spingerci fuo­ri da angusti recinti. A renderci sensibile a ciò che è lontano e invisibile agli occhi, al dolore e alla paura che in questo medesi­mo istante straziano, sotto a cieli remoti, donne e uomini e bambini. Pakistan, Nige­ria, Siria: se sapessimo tutto, se vedessimo tutto, non potremmo sopportare. Ma già quelle punte di ferocia che emergono nei te­legiornali dovrebbero dirci che attorno al­la nostra piccola quiete occidentale c’è u­na lunga, buia notte.
Le parole di Francesco ci hanno fatto ve­nire in mente Etty Hillesum, una figlia del popolo ebraico trascinata e morta nel vor­tice dell’Olocausto. Una giovane donna che da Amsterdam vedeva partire per sempre i suoi amici, su gremiti treni notturni. E nel suo Diario una sera, dopo aver salutato an­cora un amico, scriveva: «In una notte co­me questa, bisognerebbe soltanto ingi­nocchiarsi e pregare».
Per ciascuno e per tutti, per tutti i volti ignoti, per i bambini e per i vecchi, per ogni sco­nosciuto dolore. Nell’anno 1942, nel fondo dell’abisso, una ragazza ebrea sedotta dalla lettera sulla carità di Paolo ai Corinzi sape­va che bisognava soltanto «inginocchiarsi e pregare». Potessero le parole del Papa risve­gliare in noi, gente di terre in pace, almeno la domanda interiore di de-privatizzare il nostro cristianesimo; di ritrovare il suo ori­ginario respiro, e di allargarci il cuore.

Vado a scuola

Che la scuola possa essere un sogno? Sembra strano dirlo, ma per molti la scuola è proprio un sogno. Il sogno della vita.
Milioni di bambini nel mondo sognano di sfuggire alla trappola della povertà grazie all’istruzione, e per raggiungere le loro scuole quotidianamente si ritrovano a dover superare ostacoli, insidie e pericoli.
Un film racconta la storia di alcuni di loro.

SAMUEL, 11 ANNI, INDIA
Samuel, un bambino di undici anni che vive in India ed è il maggiore di tre fratelli, è nato prematuro ed essendo disabile non può camminare. La madre Esther ha deciso di trasferirsi a Kuruthamaankadu, un villaggio di pescatori del sud dell’India, per permettergli di frequentare regolarmente la scuola. Nella capanna in cui Samuel vive non vi è né acqua né elettricità ma tutta la scuola di Periyapattinam si prodiga affinché egli riesca a seguire le lezioni. Samuel, che sogna di diventare medico per aiutare chi come lui soffre, è l’unico componente della sua famiglia che sa leggere e, nonostante la sua dizione non sia buona, si sforza per farsi capire. Poiché da solo non riesce a far nulla, tutti i giorni a spingerlo sulla sedia a rotelle per i circa otto chilometri di sentieri di sabbia, fiumi e palme, che separano la sua capanna dalla scuola sono i due fratelli minori.
ZAHIRA, 12 ANNI, MAROCCO
Zahira è una giovane berbera di dodici anni e vive in un remoto villaggio della valle di Imlil, nel cuore delle montagne dell’Atlante in Marocco, un posto dove d’inverno le temperature raggiungono i 20 gradi sotto lo zero e in cui l’istruzione non è di certo una priorità assoluta dal momento che i padri non vogliono che le figlie lascino le case per andare a scuola. Zahira e la sua famiglia vivono in quindici sotto lo stesso tetto e, ogni lunedì, la bambina si alza all’alba per percorrere la strada che la separa da Asni, la cittadina a 30 chilometri in cui frequenta la prima media. Dopo aver affrontato da sola un percorso estremo fatto di passi di montagna e valli, Zahira incontra Zineb e Noura e con loro durante il tragitto ripassa le lezioni e parla della vita familiare e di quella scolastica, temendo di non trovare nessun mezzo di trasporto per arrivare a destinazione. Sempre tra i migliori alunni della sua classe, Zahira ha anche ottenuto una borsa di studio con i suoi ottimi risultati e spera un giorno di diventare medico per aiutare e curare i poveri.
JACKSON, 11 ANNI, KENYA
Jackson ha undici anni ed appartiene alla tribù kenyota Sumburu e vive in un territorio in cui nella stagione secca si soffre la fame. Per raggiungere la scuola che si trovaa 15 km da casa sua, rischia la vita tutti i giorni insieme alla sorellina minore Salome a causa delle bande armate di saccheggiatori di villaggi e degli elefanti, molto aggressivi. Jackson, che ad undici anni gestisce il povero reddito di famiglia e i difficili rapporti con i vicini, lungo la strada cammina a passo sostenuto e ogni volta che Salome ha paura o è stanca non esita a prenderla per mano, a rassicurarla o a raccontarle storie, fungendo da tutore e protettore. Jackson, del resto, ama l’idea che un domani, grazie allo studio, Salome possa difendersi e scegliere il proprio futuro. Con pochi mezzi a disposizione ma con tanta forza di volontà e impegno, Jackson ha anche ottenuto una borsa di studio e considera il suo bene più prezioso il grembiule che indossa e di cui si prende cura personalmente. Anche se non ha mai visto un aereo, Jackson sogna di diventare pilota e di viaggiare per il mondo.
CARLITO, 11 ANNI, ARGENTINA
Carlito ha undici anni ed è argentino. Da quando aveva sei anni, ogni mattina percorre più di 25 chilometri tra le montagne e le grandi pianure della Patagonia per arrivare a scuola. Figlio di un pastore, vive immerso nella natura isolata delle Ande in una casa di soli 20 metri quadrati che condivide con il padre Gilberto, la madre Nelida e la sorellina Micaela. Mentre i genitori dormono sul pavimento, ai due bambini è lasciato a disposizione il letto e, seppur la loro sia un’esistenza molto frugale, tutti in famiglia sono felici. Con il desiderio di rimanere a vivere in zona e diventare veterinario, Carlito affronta per il primo anno la strada verso scuola insieme a Micaela sul dorso di Chiverito, un cavallo per loro molto speciale.

Vi lascio il trailer del film di Pascal Plisson, Vado a scuola (Sur le chemin de l’écol).

La bicicletta verde

Wadjda è una bambina di 10 anni che vive alla periferia di Riyadh, la capitale Saudita. Nonostante viva in un mondo tradizionalista, Wadjda è una bambina affettuosa, simpatica, intraprendente e decisa a superare i limiti imposti dalla sua cultura. Dopo una lite con l’amico Abdullah, un ragazzino del quartiere con cui non avrebbe il permesso di giocare, Wadjda mette gli occhi su una bellissima bicicletta verde, in vendita nel negozio vicino casa. Wadjda vuole disperatamente la bicicletta per poter battere l’amico Abdullah in una gara. Tuttavia la mamma di Wadjda, per paura delle possibili ripercussioni da parte di una società che considera le biciclette un pericolo per la virtù delle ragazzine, non permette che la figlia abbia una simile diavoleria. Wadjda decide quindi di provare a guadagnare i soldi da sola, consapevole che sua madre è troppo distratta per accorgersi di ciò che accade, occupata com’è a convincere il marito a non prendere una seconda moglie. Ben presto però i piani di Wadjda vengono ostacolati, quando viene scoperta a fare da “corriere” tra due innamorati. Giusto nel momento in cui sta per perdere la fede nei suoi progetti di guadagno, viene a sapere del premio in denaro per la gara di recitazione del Corano. Così si dedica completamente alla memorizzazione e recitazione dei versi coranici, e le sue insegnanti cominciano a vederla come una ragazza pia. La gara non sarà facile, specialmente per una “combinaguai” come Wadjda, ma la bambina non demorde. É determinata a combattere per i suoi sogni…
FONTE: Agis Scuola

Il trailer del film

Per approfondire il tema vi suggerisco di dare un’occhiata qui.

All’origine delle parole mamma e papà

Mamma in italiano, mummy in inglese, ma­man in francese, mutti in tedesco, mama in spagnolo, mamo in polacco, mama in rus­so… Ma anche màma in cinese, mama in arabo, màm in india­no… In tutte le lingue del mondo, insomma, la parola mamma si dice allo stesso modo, così come il termine papà (bàba in cinese, baba in arabo, papa in russo…).
Idiomi lontanissimi tra loro, con origini totalmente diverse, han­no dunque un unico punto in co­mune proprio nel nominare i due genitori, fenomeno che affonda le sue radici nella notte dei tempi, quando gli idiomi che parliamo oggi si sta­vano formando. Apparentemente un affa­scinante mistero, in realtà un processo che i linguisti hanno studiato a fondo. Il fatto è che il suono ‘mam­ma’ (e le sue varianti dif­fuse tra tutte le popola­zioni del pianeta) ha un’o­rigine legata indissolubil­mente all’inizio della vita e na­sce da un rapporto altrettanto in­dissolubile tra il neonato e sua madre.
Ogni bambino del mon­do (fin dalla preistoria, fin da quando l’essere umano ha pro­vato a esprimersi e a inventare un linguaggio) poco dopo la na­scita inizia a pronunciare le sil­labe più attese da ogni genitore, quel balbettio ‘ma ma ma’ e ‘pa pa pa’ (o ‘ba’) con il quale non fa altro che esplorare il mondo dei suoni. È un’attività che non avviene durante il pianto, ma nei momenti di benessere: come di­mostrano tutti gli studi, il neo­nato prova suoni e vocalizzi, li af­fina, ripete con evidente soddi­sfazione le sillabe che ha scoper­to per caso. È quella che gli e­sperti chiamano lallazione, un pre-linguaggio che il bimbo sco­pre nei primi tre mesi. Ma come mai insiste proprio su ‘ma’ e ‘pa’? I suoni M e P (o B) sono le prime conso­nanti pronunciate in tutte le comunità lin­guistiche da tutti i bambini del mondo, a prescindere dalla lingua che poi parle­ranno, perché sono facili: per emetterle, infatti, si usano le lab­bra (ben più compli­cata ad esempio è la erre, l’ultima che si impara). La vocale A poi si pronuncia aprendo solo la bocca e lasciando uscire il fiato… Così ‘ma’ e ‘pa’ sono le prime prove di conversazione, le silla­be che per istinto – e non per in­duzione da parte degli adulti – o­gni bambino scopre e apprezza. Verso i sei mesi, poi, impara a ri­peterle più volte, balbettando le fatidiche parole che assomiglia­no a mamma e papà. Si tratta di un processo univer­sale, sul quale solo poi si innesta un gioco di interazione con i ge­nitori, che gratificano il bambino imitandolo, ripetendo i suoi stes­si suoni per coccolarlo, con un’a­zione (involontaria) di rinforzo di quanto il bim­bo si era inventa­to: se prima pro­nunciava per i­stinto quelle sil­labe esplorando i suoni con cre­scente soddisfa­zione, gradata­mente tali suoni si fissano rinfor­zati dall’interlo­cutore, quella mamma e quel papà che il neonato finisce per i­dentificare con quei nomi. So­prattutto la madre, che vede in viso durante l’allattamento e con la quale instaura un legame in­tensissimo (evidente tra l’altro il rapporto tra il suono mamma e l’onomatopea del succhiare il lat­te). Insomma, non è l’adulto che in­segna al neonato i vocaboli mamma e papà, ma i neonati di tutto il mondo e di ogni epoca che li hanno insegnati ai loro ge­nitori, i quali non hanno fatto che ripeterli contribuendo al fissag­gio del termine, ma nulla più. Si può dire a questo punto che en­trambe le parole sono istintuali, sono proprie di ogni essere u­mano, sono nel Dna di ogni pic­colo cinese, tedesco, russo, ara­bo, australiano. Lo erano dei figli che nascevano in epoca pre­istorica. Lo sono sempre state. Mamma è la prima parola che ha detto ognuno di noi, ma è anche la prima parola che ha detto l’u­manità.

Tratto da LUCIA BELLASPIGA in Avvenire del 19 settembre 2013

La campanella non suona per tutti

Abbiamo cominciato da poco. Piano piano ci stiamo adattando ai ritmi che la scuola richiede.
Il suono della campanella scandisce la mattinata. Lo squillo delle 13 è come una boccata di ossigeno per chi vive la scuola come una prigione.
Ma siamo proprio sicuri che la scuola fa male?
Chiedetelo ai 260 mila ragazzi italiani che a scuola non ci vanno. Oppure ai 250 milioni di bambini e ragazzi costretti a lavorare.
Cliccate qui per leggere l’articolo pubblicato sulla rivista Famiglia cristiana, che parla della situazione in Europa.
Ricordate che senza istruzione non si può cambiare il mondo.

Essere persona umana si­gnifica essere custodi gli uni degli altri!

Continuo a proporvi riflessioni sul tema della pace.
Dall’intervento  di  papa Francesco alla veglia per la pace di sabato 7 settembre 2013

[…] Il creato conserva la sua bel­lezza che ci riempie di stupore, rimane un’opera buona. Ma ci sono anche «la violenza, la divisione, lo scontro, la guerra». Questo avviene quando l’uo­mo, vertice della creazione, lascia di guardare l’orizzonte della bellezza e della bontà, e si chiude nel proprio egoismo. Quando l’uomo pensa solo a sé stesso, ai propri interessi e si pone al centro, quando si lascia affascinare dagli idoli del dominio e del potere, quando si mette al posto di Dio, allora guasta tut­te le relazioni, rovina tutto; e apre la porta alla violenza, all’indifferenza, al conflitto. Esattamente questo è ciò che vuole farci capire il brano della Genesi in cui si narra il peccato dell’essere u­mano: l’uomo entra in conflitto con se stesso, si accorge di essere nudo e si na­sconde perché ha paura ( Gen 3,10), ha paura dello sguardo di Dio; accusa la donna, colei che è carne della sua car­ne (v. 12); rompe l’armonia con il crea­to, arriva ad alzare la mano contro il fratello per ucciderlo.
Possiamo dire che dall’armonia si passa alla «disar­monia »? Possiamo dire questo? No, non esiste la «disarmonia»: o c’è ar­monia o si cade nel caos, dove c’è vio­lenza, contesa, scontro, paura… Proprio in questo caos è quando Dio chiede alla coscienza dell’uomo: «Dov’è Abele tuo fratello?». E Caino risponde: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?» ( Gen 4,9). Anche a noi è rivolta questa domanda e anche a noi farà bene chiederci: Sono forse io il cu­stode di mio fratello? Sì, tu sei custode di tuo fratello!

Essere persona umana si­gnifica essere custodi gli uni degli altri! E invece, quando si rompe l’armonia, succede una metamorfosi: il fratello da custodire e da amare diventa l’avver­sario da combattere, da sopprimere. Quanta violenza viene da quel mo­mento, quanti conflitti, quante guerre hanno segnato la nostra storia! Basta vedere la sofferenza di tanti fratelli e so­relle. Non si tratta di qualcosa di con­giunturale, ma questa è la verità: in o­gni violenza e in ogni guerra noi fac­ciamo rinascere Caino. Noi tutti! E an­che oggi continuiamo questa storia di scontro tra fratelli, anche oggi alziamo la mano contro chi è nostro fratello. An­che oggi ci lasciamo guidare dagli ido­li, dall’egoismo, dai nostri interessi; e questo atteggiamento va avanti: ab­biamo perfezionato le nostre armi, la nostra coscienza si è addormentata, ab­biamo reso più sottili le nostre ragioni per giustificarci. Come se fosse una co­sa normale, continuiamo a seminare distruzione, dolore, morte! La violen­za, la guerra portano solo morte, par­lano di morte! La violenza e la guerra hanno il linguaggio della morte! […] E a questo punto mi domando: è possibile percorrere un’altra stra­da? Possiamo uscire da questa spi­rale di dolore e di morte? Possiamo im­parare di nuovo a camminare e percor­rere le vie della pace? Invocando l’aiuto di Dio, sotto lo sguardo materno della Salus populi romani, Regi­na della pace, voglio rispondere: Sì, è pos­sibile per tutti! Que­sta sera vorrei che da ogni parte della terra noi gridassimo: Sì, è possibile per tutti! Anzi vorrei che ognuno di noi, dal più piccolo al più grande, fino a coloro che sono chiamati a governare le Nazioni, rispondesse: Sì, lo vogliamo! La mia fe­de cristiana mi spinge a guardare alla Croce. Come vorrei che per un mo­mento tutti gli uomini e le donne di buo­na volontà guardassero alla Croce! Lì si può leggere la risposta di Dio: lì, alla vio­lenza non si è risposto con violenza, al­la morte non si è risposto con il lin­guaggio della morte. Nel silenzio della Croce tace il fragore delle armi e parla il linguaggio della riconciliazione, del per­dono, del dialogo, della pace.
Vorrei chie­dere al Signore, questa sera, che noi cri­stiani, i fratelli delle altre Religioni, ogni uomo e donna di buona volontà gri­dasse con forza: la violenza e la guerra non è mai la via della pace! Ognuno si animi a guardare nel profondo della pro­pria coscienza e ascolti quella parola che dice: esci dai tuoi interessi che atrofiz­zano il cuore, supera l’indifferenza ver­so l’altro che rende insensibile il cuore, vinci le tue ragioni di morte e apriti al dialogo, alla riconciliazione: guarda al dolore del tuo fratello. Ma pensa ai bam­bini, soltanto a quelli, e non aggiunge­re altro dolore, ferma la tua mano, rico­struisci l’armonia che si è spezzata; e questo non con lo scontro, ma con l’in­contro! Finisca il rumore delle armi! La guerra segna sempre il fallimento della pace, è sempre una sconfitta per l’uma­nità. Risuonino ancora una volta le pa­role di Paolo VI: «Non più gli uni contro gli altri, non più, mai!… non più la guer­ra, non più la guerra!» ( Discorso alle Na­zioni Unite, 4 ottobre 1965: Aas 57 [1965], 881). «La pace si afferma solo con la pa­ce, quella non disgiunta dai doveri del­la giustizia, ma alimentata dal sacrificio proprio, dalla clemenza, dalla miseri­cordia, dalla carità» ( Messaggio per Gior­nata mondiale della pace 1976 : Aas 67 [1975], 671).
 
Fratelli e sorelle, perdono, dialogo, riconcilia­zione sono le parole della pace: nell’ama­ta Nazione siriana, nel Medio Oriente, in tutto il mondo! Preghiamo per la ri­conciliazione e per la pace, lavoriamo per la riconciliazio­ne e per la pace, e di­ventiamo tutti, in o­gni ambiente, uomi­ni e donne di ricon­ciliazione e di pace.
Così sia.

Inizia un nuovo anno scolastico

Inizia un nuovo anno scolastico.
Che dirvi, ragazzi?
Immagino che tutto sommato non vi dispiaccia di ritornare a scuola.
Più per ritrovare i compagni, o conoscerne di nuovi, che per gli impegni che la scuola comporta?!!!
Sono convinta che per alcuni di voi la scuola è vissuta come occasione di crescita, perché permette di imparare cose nuove, sviluppare capacità, acquisire competenze. Per altri so che non è così.
Vorrei tanto che ognuno di voi riflettesse sull’importanza dell’istruzione per la propria vita e ringraziasse per l’opportunità che gli viene offerta. Tanti bambini e ragazzi nel mondo non possono andare a scuola, e questo non li rende più fortunati di voi.
Vi lascio le parole che una ragazza ha rivolto al mondo. Si tratta di Malala, di cui ho avuto occasione di parlare più volte nel blog.
Grande e affascinante responsabilità quella che riguarda ognuno di voi che varca la soglia della scuola.
Potete cambiare il mondo in meglio!!!
Non ditemi che la cosa non vi riguarda. Il mondo ha bisogno di voi.
Ognuno di voi contribuisce a costruire il mondo.
Nel bene o nel male. Sta a voi decidere da quale parte stare.
Buon anno scolastico a tutti!!!