La guerra ci rende tutti più poveri

Da Popotus del 26/06/2014:

Non basta che non ci sia la guerra. La pace è un bene più grande, più complicato da ottenere e conservare. Lo sostengono gli esperti dell’Istituto di Economia e della Pace di Sydney, in Australia, che da alcuni anni elaborano un “indice globale” per misurare il grado di tranquillità o turbolenza dei Paesi del mondo. E per stilare una classifica, un po’ come nel calcio. L’indice calcola anche quanto costa vivere su un Pianeta dove la violenza continua a minacciare molte persone.
Che non ci siano guerre non basta: occorre che l’economia marci bene, che la libertà sia garantita, che nessuno sia emarginato o perseguitato. In questi giorni l’Istituto di Sydney ha diffuso i dati relativi all’anno in corso e le notizie, purtroppo, non sono buone. Di poco, ma il famoso “indice globale” è peggiorato rispetto al 2013. Succede così da sette anni, ormai.
C’è di mezzo la crisi finanziaria, che rende più instabili i rapporti tra le nazioni e all’interno delle nazioni stesse, ma anche il moltiplicarsi di situazioni “a rischio” in Paesi come la Siria, il Sud Sudan, l’Ucraina e la Repubblica Centrafricana. Il continente sul podio continua a essere l’Europa, dove si trovano 14 dei 20 Stati più pacifici. A guidare la lista sono Islanda, Danimarca e Austria. L’Italia se la cava abbastanza bene, piazzandosi al 34mo posto, ma gli studiosi invitano a non trascurare le tensioni presenti all’interno della nostra società.
Il dato più allarmante rimane quello relativo ai costi della violenza. La mancanza di pace ha un costo complessivo di oltre 7mila miliardi di euro all’anno. Significa che ognuno di noi terrestri sborsa quasi mille euro a causa della crescita dei conflitti. Ma non sarebbe meglio evitarsi questa spesa?

Ma lo sapete che l’Onu non ha mai riconosciuto la pace come “diritto universale” degli esseri umani? Una dimenticanza abbastanza clamorosa, alla quale vuole porre rimedio un coordinamento nato proprio in Italia e che nei giorni scorsi ha presentato una richiesta ufficiale al Palazzo delle Nazioni Unite a Ginevra, in Svizzera.
L’iniziativa cade a cento anni esatti dallo scoppio della Prima guerra mondiale.

Il dolore è un dono che va accolto

E’ proprio vero che Dio scrive diritto anche nelle righe storte.

L’intervista che segue, tratta da Avvenire del 23 giugno del 2014, è ad una donna che dal male fattole ha saputo trarre una grande forza, tanto da essere di esempio per tutti.

Le mani curate, la voce ferma, il sorriso d’una gioia contagiosa. Lucia Annibali, il simbolo del­le donne che lottano contro la violenza (e la sconfiggono) non è più la persona che la notte del 16 aprile 2013 ha fatto capolino sul pianerottolo di casa, ha infilato le chiavi nella porta e lì – nel posto più sicu­ro al mondo – s’è scontrata con il male.

L’acido che le ha stravolto il viso e la vita, ha anche cambiato profon­damente il suo cuore. E l’ha riempito di fede.

La filosofa tedesca Hannah Arendt parlava di “ba­nalità del male” riferendosi al tentativo di an­nientare il popolo ebraico. Chi ti ha sfregiato vo­leva annientarti…
Il male l’ho potuto toccare e l’ho visto molto chiara­mente. Davvero posso dire che esiste. Ma ho speri­mentato che il bene è più potente, anche se necessita d’essere coltivato perché si propaghi. Il male è banale perché non ha risposte, non può trasformarsi in nul­la, non può creare e non ha nulla da cui attingere co­me esperienza umana.
La pensavi così anche prima dell’aggressione?
Quando ti incontri con la morte devi decidere se vuoi la vita oppure non la vuoi più. È lì che cambia com­pletamente la tua dimensione. Perlomeno, questo è quello che è successo a me.
Oggi cosa sono per te la fede e la preghiera?
Penso che la fede significhi accogliere ciò che ti viene dato. Può essere una cosa bella o brutta. Nel mio caso mi è capitato una grande dolore fisico a cui veramen­te non ero preparata. Un dolore lungo, che lascia de­bilitati e con tante incognite. Se tu lo sai accogliere, lo accetti e lo ascolti, vedi anche le possibilità e le occa­sioni che ci sono dentro. Per me la spiritualità e il rap­porto con Dio sono questo: essere in contatto davve­ro con quello che ti viene mandato e vedere una gra­zia in questa esperienza. Oggi penso che questo even­to sia davvero il senso della mia vita.
Nel tuo libro racconti d’essere rimasta toccata da un gruppo di suore che pregava per te quando rischiavi di rimanere cieca. Che cosa ha significato per te?
Non un gruppo, ma tanti gruppi di suore! Queste pre­ghiere non mi hanno fatto sentire abbandonata. Nel let­to di ospedale, alla fine, sei comunque sola. Nel mio ca­so poi non vedevo. Ecco, io non mi sono sentita sola a lottare per cercare di riconquistare quello che rischia­vo di perdere, che avevo perso e che stavo perdendo. Quelle preghiere mi hanno dato solidarietà. Ho senti­to che molte persone mi volevano bene, mi hanno da­to un senso di vicinanza che mi ha aiutato moltissimo.
Spesso racconti che prima dell’acido non volevi co­struirti una famiglia perché prima volevi realizzarti. Oggi come la pensi?
Non ho mai avuto un forte istinto materno. Ma oggi sen­to forte il desiderio di fare qualcosa di buono, è quasi una necessità per me. Per esempio l’idea di adottare un bambino potrebbe essere l’occasione per mettere in pratica questa intenzione. Anche questo è un modo nuovo che ho di vedere la vita.

(Intervista di Roberto Mazzoli)

Invocando la pace

Era l’8 giugno quando i Giardini Vaticani hanno ospitato i rappresentanti delle tre religioni monoteiste per pregare per la pace.

 

Non si è trattato di un incontro di preghiera interreligioso, come è stato precisato, ma di «un incontro di invocazione della pace dei popoli palestinese e israeliano che sono composti da ebrei, cristia­ni, musulmani».
Ogni comunità religiosa ha articolato la sua preghiera in tre momenti:

– il primo momento è stato di lode a Dio per il dono della creazione «di una sola fa­miglia umana»;

– nel secondo momento si è chiesto perdono a Dio per tutte le volte in cui i membri delle tre reli­gioni hanno mancato di comportar­si «come fratelli e sorelle»;

– nella ter­za parte è stata presentata un’invoca­zione a Dio affinché «conceda il do­no della pace in Terra Santa».

Le tre orazioni della comunità ebraica (let­te in ebraico) sono state tratte dai Salmi e da altri testi tradizionali.
Quelle cri­stiane comprendevano un passo del Libro di Isaia let­to in inglese, un brano di San Gio­vanni Paolo II letto in italiano («I cri­stiani siano capaci di pentirsi delle parole e degli atteggiamenti causati dall’orgoglio, dall’odio, dal desiderio di dominare gli altri, dall’inimicizia verso i membri di altre religioni»), e una preghiera di San Francesco d’As­sisi pronunciata in arabo.
Apposita­mente composte per l’occasione so­no state le tre preghiere della co­munità musulmana re­citate in arabo.

Cliccando qui potete leggere i testi delle tre preghiere.

Ricordando un anno di scuola

Ho raccolto in un video le immagini e i lavori (cartelloni, filmati e altro) realizzati durante questo anno scolastisco dagli alunni.

Il filmato che carico in questo post è un estratto di un video più lungo in cui i ragazzi si sono anche rivisti mentre lavoravano.

Mi piace che rimanga una testimonianza di quello che abbiamo vissuto a scuola nell’anno che si è concluso.

Un grazie a tutti gli alunni (anche a quelli più passivi e a volte “ribelli”) per aver contribuito alla realizzazione dell’anno scolastico appena concluso.

Non diamo i numeri.

Ci siamo. L’anno scolastico è terminato e siamo al tempo degli scrutini finali.
«Prof, ma con tre cinque si viene bocciati?»
Il decreto Gelmini dice che basta un cinque per essere bocciati. La realtà invece è un po’ diversa, nel senso che spesso quegli eventuali cinque  diventano sei e così si evita di ripetere l’anno.
Li vedo i miei alunni con la calcolatrice in mano a verificare la media e, a seconda dell’esito, rabbuiarsi o illuminarsi.
Io non sono tra quegli insegnanti che hanno accolto in modo positivo la reintroduzione del voto decimale nelle scuole del primo ciclo. Certo, dirà qualcuno, insegni religione e ti rode il fatto di non poter mettere il voto numerico anche tu. Può darsi, ma quello che mi lascia perplessa (e lo dice un’insegnante che i numeri li ha sempre usati per misurare gli esiti delle prove) è che all’espressione numerica del voto si è dato un senso che non esiste. Intendo dire che il numero è solo un simbolo linguistico che potrebbe essere sostituito da una parola, da una lettera o da qualsiasi altro segno grafico. «I numeri – come leggo nell’intervento del dirigente scolastico Sergio Cicatelli in Insegnare Religione n.5/2004 sono un linguaggio molto più comodo, ma con essi si possono fare operazioni poco appropriate alla valutazione scolastica». Il mio pensiero ritorna allora agli alunni con la calcolatrice in mano e se posso giustificare il loro modo di fare, mi viene da dire, con tutto il rispetto dovuto, che la media dei voti è un’operazione che invece poco si addice al mestiere dell’insegnante. La normativa (vedi il DPR 122 del 2009) non parla mai di media se non in sede di esame conclusivo del primo ciclo e per l’attribuzione del credito scolastico nell’esame finale del secondo ciclo. La media quindi è una prassi scorretta (prendo ancora in prestito le espressioni usate dal dr. Cicatelli). D’altra parte un alunno che ha collezionato in successione 4-5-6-7-8 non può essere valutato nello stesso modo di chi ha la stessa successione di numeri in senso inverso (8-7-6-5-4): la media aritmetica è la stessa, ma credo e spero che la valutazione sarà differente. Una valutazione corretta deve tener conto dei progressi rispetto alla situazione di partenza, cosa che la semplice media aritmetica non permette.
Concludo con le parole del citato dirigente scolastico:
«Dovrebbe allora essere chiaro che il voto numerico produce più danni che vantaggi a una corretta prassi didattica, in cui la valutazione non sia vista come una sentenza che decide meccanicamente il destino dello studente ma sia un’occasione di accompagnamento e di sostegno alla sua crescita culturale e personale».
Ogni numero, insomma, dovrebbe corrispondere ad un giudizio. E allora mi viene da dire che, pur essendo noi insegnanti di religione confinati «in un’incerta e più debole condizione di inferiorità» espressa anche dall’averci negata la possibilità di valutare con i numeri, con i nostri giudizi esprimiamo la valutazione meglio «di equivoche scale decimali».
Aiutiamo quindi i ragazzi ad andare oltre il numero, per porsi invece in un atteggiamento di presa di coscienza dei propri punti di forza e di debolezza. Aiutiamo anche le famiglie a sentirsi coinvolte, nel rispetto reciproco dei ruoli e delle competenze, nel percorso scolastico dei propri figli che non può esaurirsi in un numero.

Meriam

Meriam è una giovane donna sudanese, di religione cristiana ortodossa, condannata all’impiccagione da un tribunale del suo Paese il 15 maggio perché sposata a un cristiano. Meriam ha 27 anni, un figlio di 20 mesi, che si trova con lei in carcere dallo scorso febbraio, e un’altra, la piccola Maya, nata in prigione il 27 maggio.

Figlia di un padre islamico che abbandonò la famiglia quando lei aveva sei anni, Meriam è stata cresciuta dalla madre come cristiano ortodossa.
La condanna è stata pronunciata, secondo un sistema giudiziario basato sulla legge coranica, perché Meriam non ha accettato di abiurare la sua fede.
La storia di Meriam e di altri, come della tuttora prigioniera Asia Bibi, ci riporta indietro di secoli, anzi di millenni.
Questo non mi piace e spero siano moltissimi quelli che sentono profondamente ingiusto colpire le persone per il proprio credo, come in questo caso, o per il colore della pelle, il sesso, la nazionalità.
Meriam deve vivere, deve ritornare ad essere libera, come Asia Bibi e i tanti perseguitati per la propria fede. Se così non fosse il mondo sarebbe ancora più ingiusto. Vorrei tanto  che non accadesse anche per la nostra indifferenza.