Un’alternativa al male che c’è: far crescere persone buone

Frammento di vita scolastica. Ragazzi di terza media. Tragitto dalla classe verso l’aula di informatica. Hooligans? Selvaggi?
Forse esagero, ma sono tante le volte in cui ho invitato i miei alunni a essere meno rumorosi, più rispettosi del luogo in cui si trovano e del lavoro dei loro compagni e degli insegnanti.
Perché Hellerup (vi ricordate la scuola senza aule?) deve essere un sogno impossibile da realizzare?
A volte mi domando che cosa sbagliamo (scuola e famiglia) nell’approccio educativo. Perché questi ragazzi, per il fatto di essere in gruppo, si sentono in potere e in diritto di fare quello che vogliono?
Forse esagero. Sarà l’età che avanza.
Eppure non dobbiamo stancarci di proporre un modo di vivere “alto” e “altro”. Intendo dire che dobbiamo insegnare ai nostri figli/alunni che bisogna crescere come persone, non come individui. Perché «una persona cresce, matura, è aperta al cambiamento. L’individuo, al contrario, rimane fermo nelle sue pretese, vuole sempre tutto per sé e per sé soltanto» (Susanna Tamaro).
E’ necessario, insomma, chiedere ai nostri ragazzi di desiderare non di essere i migliori, i più bravi, i più popolari, ma di essere persone buone,
Il mondo ha veramente bisogno di persone buone, che sappiano proporre un’alternativa a tutto il male che c’è.
Mi è piaciuta la testimonianza di Ernesto Olivero che, nella sua rubrica “E’ possibile” pubblicata dal quotidiano Avvenire, il 27 maggio ricordava Giorgio La Pira. Vi riporto l’articolo:

«Il suo esempio  mi aveva colpito da subito. Nell’incertezza anche politica degli anni 70, l’ex sindaco di Firenze Giorgio La Pira mi dava l’idea di essere un uomo buono, un uomo di Dio. Volli conoscerlo e così avvenne. Senza che me ne accorgessi, quell’incontro diventò uno dei più importanti della mia vita. Fu proprio Giorgio La Pira, infatti, a farmi innamorare di Isaia e della sua profezia: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci. Ci sarà un tempo in cui le armi saranno trasformate in strumenti di lavoro». Giorgio La Pira mi aprì gli occhi anche su un altro sogno, che ebrei, cristiani e musulmani, figli di Abramo, potessero finalmente dialogare come fratelli. «L’autentica famiglia umana – diceva, citando Seneca – è simile ad una volta fatta di pietre che vicendevolmente si sostengono le une con le altre».
Quanto sono vere queste parole, nel bene e nel male! Saggezza è capire che abbiamo solo il presente da vivere e che ci giochiamo la nostra vita, la nostra eternità, il nostro destino ora, adesso. Al di là del dolore, della follia, della violenza, più che mai è questa l’epoca in cui devono emergere i buoni ebrei, i buoni cristiani, i buoni musulmani, i buoni di qualunque cultura, tradizione religiosa o laica. Il sogno di La Pira non è utopia. Io ci credo!».
Voglio credere anch’io nelle persone buone. Voglio credere che sia possibile aiutare i nostri ragazzi a giocarsi la loro vita adesso. Non dietro all’egoismo del “tutto e subito”, o al “tirare a campare”, ma con la consapevolezza di essere”pietre” di un arco che sostiene e si sostiene.
Credo che dobbiamo e possiamo educare i nostri giovani a desideri di bellezza e di bontà. Solo così potranno veramente impegnarsi a costruire un mondo migliore. E questi ragazzi lo faranno non perché gli è stato imposto o comandato, ma perché li avremo aiutati a crescere come  persone buone.
Questo vale più di qualunque altra cosa!

Convertirsi all’amore

da Se Dio esiste veramente …. di Ernesto Olivero in Avvenire del 23 maggio 2015

Giacomo è un ragazzo di diciassette anni. Vita normale e tante domande. Una volta mi ha sentito parlare di Dio, si è avvicinato e con timidezza, come se non volesse disturbare, ha cercato una conferma. «Ernesto, ma allora Dio esiste veramente?».
Sì, Giacomo, esiste. Il cuore me lo conferma con una logica.
Dio esiste perché vedo che quando provo rancore contro una persona e prego, riesco a trasformare quel sentimento in pazienza. Il giudizio scompare, mi acquieto, ritrovo la pace.
Dio esiste perché quando ho dei soldi, che potrei usare per me, donandoli mi sento più felice.
Ecco, in quella felicità, Dio esiste.
E se Dio esiste, allora mi dono. Se Dio esiste veramente, ho pazienza.
Se Dio esiste veramente, allora ricomincio da capo.
Se Dio esiste veramente, il male non mi ferma.
Dio esiste e non ha bisogno né di me né di nessuno per dimostrare se stesso, ma ha bisogno di me, di noi per dimostrare il suo amore.
Se accettiamo questo metodo, la nostra fede sarà contagiosa, sarà un segno di speranza per chi ci incontra, un esempio che non avrà bisogno di parole. Non siamo chiamati a fare altro che sentirci amati senza riserve da Dio e poi, senza retorica, vivere il nostro cristianesimo da convertiti all’amore.

Dove si impara il dialogo? In famiglia. Parola di papa Francesco

La famiglia è la prima scuola di comunicazione. E, quanto più la qualità delle comunicazioni tra la coppia, e poi tra genitori e figli, è segnata dalla trasmissione di ciò che conta davvero, tanto più sarà facile adottare una comunicazione efficace anche fuori dalla porta di casa, sul piano sociale.
Ecco il senso del messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebra domenica.
Il primo valore è quello dell’accoglienza e si radica addirittura ben prima della nascita, in quel dialogo silenzioso ma eloquente tra la mamma e il nascituro. «Il grembo che ci ospita – scrive il Papa – è la prima scuola di comunicazione, fatta di ascolto e di contatto corporeo». Una ‘scuola’ naturale, dove la comunicazione è modulata sulla verità e sulla tenerezza.
Il secondo valore, scorrendo il testo di Bergoglio, è quello della differenza. In famiglia impariamo a convivere con diversità di generi e di generazioni, nella reciprocità e nella complementarietà. Le parole della mamma sono diverse, per toni e contenuti, da quelle del papà. Ma il bambino, ancora prima di coglierne il senso, impara a distinguere le sfumature, le modalità di approccio, la varietà. Poi, arriva il momento di capire anche con l’intelletto oltre che con il cuore, e qui lo strumento indispensabile – e siamo al terzo valore – è la lingua materna, quella dei nostri antenati. È proprio grazie alla parola che possiamo scoprire la ricchezza che abbiamo ricevuto e cominciare a trasmettere ciò che abbiamo dentro. Questa capacità di socializzare – ecco il quarto valore – innesca «un circolo virtuoso, il cuore della capacità della famiglia di comunicare e comunicarsi». Ricordare chi ci ha preceduto permette di scoprire un altro valore della comunicazione, e siamo al quinto momento, cioè la necessità di educare alla preghiera, cioè quella dimensione religiosa della comunicazione che, nella luce della fede, diventa dono e offerta. Dalla preghiera nasce un altro momento essenziale, la capacità di abbracciarsi, sostenersi, accompagnarsi che potremmo definire educazione alla solidarietà (il sesto valore), che è «scoperta e costruzione di prossimità». Proprio dall’abitudine di ridurre le distanze, di venirsi vicendevolmente incontro, nasce la capacità di comunicare gratitudine( settimo valore) e fraternità (ottavo valore). E chi sa mostrarsi grato per la propria condizione e vede nell’altro un fratello, saprà anche aprire le porte di casa e andare verso l’altro con generosità ( siamo al punto nove). La scoperta di ciò che ci circonda, contribuisce anche a scoprire i limiti propri e altrui.
«Non esiste la famiglia perfetta, ma non bisogna aver paura dell’imperfezione – sottolinea ancora Francesco – e neppure dei conflitti». Ecco perché altri spunti educativi irrinunciabili della comunicazione in famiglia sono quelli del perdono e dell’ascolto degli altri – e siamo al decimo e undicesimo valore – . E infine, in un «mondo dove così spesso si maledice, si parla male, si semina zizzania», e in cui l’incomprensione sfocia sempre più spesso nella disgregazione familiare, i genitori devono ricordarsi di spiegare che la comunicazione dev’essere anche benedizione, l’unica strategia «per spezzare la spirale del male, per testimoniare che il bene è sempre possibile».

Tratto da “E Francesco offre un «dodecalogo» di Luciano Moia in Avvenire del 12 maggio 2015

In questa infografica riassumo i punti salienti del documento.

In Italia resiste il razzismo

Il razzismo è ancora vivo e vitale, anche nel nostro Paese. Non c’è da andare fieri dei dati raccolti da Istat, l’istituto di ricerca, per conto del Dipartimento per le pari opportunità: raccontano che per gli stranieri è ancora difficile trovare un lavoro o una casa, ma anche sentirsi bene accetti nei locali pubblici e persino su autobus e tram. La ricerca è stata condotta sulla base delle denunce presentate all’Ufficio nazionale anti discriminazioni razziali da cittadini stranieri che risiedono in Italia da almeno 15 anni: uno su dieci ha subito discriminazioni nella ricerca di un impiego, chi il lavoro ce l’ha ritiene – è il 16,9% – di aver avuto un trattamento peggiore rispetto ai colleghi italiani, il 12,6% è stato discriminato a scuola, il 10,5% ha faticato a trovare un alloggio a causa delle proprie origini.

Da Popotus del 05 maggio 2015

Cittadine della stessa terra

La nascita di un bimbo è un evento che ancora ci emoziona. Pensate se a nascere è una principessa d’Inghilterra! Ma cosa dire di un bimbo che nasce in mezzo al mare, su una nave? E’ un evento altrettanto miracoloso. Eppure la storia distingue, dà valore diverso, soprattutto scrive un destino diverso.
Vi lascio il commento di Marina Corradi in Avvenire del 5 maggio 2015:
Francesca Marina è nata su una nave della Marina Militare italiana, da una madre nigeriana raccolta insieme ad altre centinaia di migranti nel Canale di Sicilia, da un barcone alla deriva. Venute al mondo nelle stesse ore, passate per porte opposte: per una un messo reale ha gridato ‘Lunga vita alla Principessa! Dio salvi la Regina!’, per l’altra nessun corredo di pizzi, ma le mani gentili di qualcuno dell’equipaggio della nave ‘Bettica’, che ha acconciato attorno alla neonata un lenzuolo nella foggia di un grande fiocco.
Quelle due bambine ci passano davanti agli occhi sullo schermo, come suggerendo qualcosa. Nate contemporaneamente, e simili come lo sono fra loro i neonati, ma poste dentro a così diversi destini. Una crescerà fra referenziatissime tate, giocherà in giardini regali, frequenterà le scuole più esclusive. L’altra, chissà: così precario sembra il futuro di una bambina venuta al mondo su una nave andata in soccorso a dei naufraghi. E figlia, poi, di un padre o di una sopraffazione, come accade a molte donne, nel tremendo esodo verso la Libia e il Mediterraneo?
Il destino della principessa e della migrante paiono così radicalmente diversi fra loro. Una è passata per un maestoso portone, l’altra è già una superstite: al deserto, ai ghetti libici, ai trafficanti, al mare che l’ha lasciata passare, nel ventre di sua madre, senza farle del male. Quasi inchinandosi di fronte alla voglia di vivere di una bambina africana.
Charlotte di Windsor e Francesca Marina sui siti web sono così vicine che non puoi non riconoscere come si somigliano: nel viso paffuto addormentato, nel sonno profondo, come entrambe stanche da un lunghissimo viaggio.
Ma certo, una è una principessa e l’altra una migrante, di quelli che molti vorrebbero rimandare al di là del mare – qualunque guerra o persecuzione o miseria ci siano, dall’altra parte. Eppure, come paiono, nelle loro prime ore, sorelle. Quasi che, una accanto all’altra, queste due volessero suggerire qualcosa a un’Europa chiusa nella sua impossibile ‘fortezza’.
Quasi che due bambine volessero ricordarci che veniamo al mondo figli dello stesso Dio, e con la stessa domanda. Figli di principi o di poveri cristi, come nasciamo uguali: nudi, affamati, bisognosi di tutto. Veniamo al mondo fratelli e sorelle, cittadini e cittadine della stessa Terra, sembrano dirci due bimbe venute al mondo per porte diametralmente opposte.

Le nostre classi

Vi ricordate quando all’inizio dell’anno vi chiesi di rappresentare la vostra classe con un logo?
E’ passato un anno e vi propongo alcuni dei disegni che avevate realizzato.
Che ne dite? Vi riconoscete in quello che avevate disegnato?

Oltre al video dei vostri lavori, vi lascio una frase di Nelson Mandela: io, la “mia” classe, la vedo così:

«Una buona testa e un buon cuore sono una combinazione formidabile. Ma quando ci aggiungi una lingua o una penna colta, allora hai davvero qualcosa di speciale».

Il tablet a scuola

Tablet si o tablet no?
Non sono contraria all’utilizzo delle nuove tecnologie nella scuola. Sono anche convinta però che da sole, senza un cambiamento di mentalità, non portano a chissà quali progressi.
Sono quindi per un uso moderato e consapevole, anche per gli stessi alunni, che devono vedere nei nuovi strumenti un aiuto al loro apprendimento.
Con i ragazzi si fa un patto: l’utilizzo del telefono o del tablet serve per raggiungere l’obiettivo inizialmente proposto dall’insegnante e successivamente concordato.
Ovviamente sono coinvolti anche i genitori, ai quali spetterà il compito di prendere i provvedimenti che riterranno opportuni, se dovessi informarli del cattivo utilizzo del device da parte del proprio figlio.
Vi lascio un breve video che racconta la recente esperienza con il tablet o il telefono a scuola per svolgere il nostro “lavoro”.

workingingroup from profrel on Vimeo.