Avete mai pensato che la Bibbia ci può aiutare a comprendere meglio la nostra vita?
Attraverso le storie che vi troviamo raccontate, Dio ci vuol far capire come funziona l’esistenza.
Mi rivolgo in particolare a voi, ragazzi di prima, perché possiate, incuriosendovi, trovare, attraverso le storie dei tanti personaggi della Bibbia, suggerimenti utili per affrontare le difficoltà e per dare valore a ciò che ci circonda.
Alcune di queste storie hanno per protagonisti bambini o ragazzi, giovani che con i loro gesti e il loro modo di affrontare le situazioni in cui si sono trovati hanno scritto la storia del popolo di Dio. Isacco, Samuele, Davide, Daniele, Rebecca, Giuditta, Tobia ma anche Gesù: sono tutti “bambini di Parola”.
Su molti di loro nessuno avrebbe scommesso un centesimo, eppure essi sono riusciti a fare grandi cose.
Come quel piccoletto dai capelli del colore della criniera del leone, tra il biondo e il rossiccio, di nome Davide e vissuto tra l’undicesimo e il decimo secolo prima di Cristo. Era figlio di Iesse e aveva sette fratelli, ma lui era il più piccolo e gli spettava il compito più noioso (ma anche rischioso), cioè pascolare le pecore. E stava facendo proprio quello quando il profeta Samuele arrivò da suo padre per scegliere il futuro re di Israele. Era stato il Signore a inviare il profeta e a chiedergli di passare in rassegna i figli di Iesse. Uno alla volta Samuele, guidato da Dio, incontrò i sette fratelli più grandi ma nessuno era quello giusto. Come mai? «Non guardare all’aspetto o alla statura», sottolineò allora Dio, perché «l’uomo vede l’apparenza ma il Signore vede il cuore».
Fu quindi chiamato Davide e subito si capì che il prescelto per diventare re era proprio lui, un ragazzino.
Il cammino verso il trono era ancora lungo e, nonostante l’importanza della sua vocazione, lui continuò con umiltà a pascolare le pecore fino a quando venne il momento giusto per i gesti più eroici. Coraggio e lealtà sono i valori che poi Davide mostrò di saper coltivare, superando anche i suoi stessi errori, alcuni dei quali molto gravi. Ma la sua storia ci insegna che per diventare grandi in tutti i sensi dobbiamo imparare non solo a leggere quello che abbiamo dentro noi, ma anche quello che gli altri portano nel profondo del loro cuore.
Tratto da Popotus,GIOVANI PROTAGONISTI DELLA BIBBIA. Il piccolo Davide dal grande cuore, di Matteo Liut
L’Anno Liturgico è l’articolazione del calendario annuale della liturgia della Chiesa cattolica. Nel Rito Romano inizia con la prima domenica di Avvento, a fine novembre – inizio dicembre (nel Rito Ambrosiano è anticipato di due settimane a causa della diversa durata dell’Avvento) e termina con l’ultima settimana del Tempo ordinario (con l’ultima settimana del Tempo Dopo Pentecoste nel Rito Ambrosiano).
Esso è costituito da:
un calendario di celebrazioni articolate attorno al mistero pasquale di Cristo, con il ciclo maggiore della Pasqua e il ciclo minore del Natale;
un ciclo di letture bibliche per la celebrazione dell’Eucarestia di tutti i giorni dell’anno;
un ciclo di letture bibliche e patristiche, nonché di altri testi, per la Liturgia delle Ore. [Fonte: Cathopedia]
Per capire come funziona l’anno liturgico vi lascio una presentazione che ho trovato nel sito www.qumran2.net il cui autore è don Boguslaw Kadela.
Quante banalità sul racconto del peccato originale. Una lettura frettolosa e superficiale ci impedisce di coglierne il senso.
Vi propongo, ragazzi del secondo sportivo, che state riflettendo su questo tema, l’esegesi del cardinale Ravasi.
[…] Prima di passare alla seconda tavola (ndr vedi post per il IV Liceo), destinata a dipingere lo scardinamento di questo progetto pensato da Dio per la sua creatura più alta, è necessario esaminare il legaccio che tiene insieme le due tavole. Si tratta di un simbolo vegetale, quell’«albero della conoscenza del bene e del male» (2,9.17) del tutto ignoto ai botanici. Siamo, infatti, in presenza di un albero non fisico, ma metafisico.
Nella Bibbia il simbolismo vegetale rimanda spesso alla sapienza divina e umana e vuole rappresentare un progetto di vita. L’albero della Genesi è, poi, collegato con la conoscenza, cioè con l’adesione piena, «del bene e del male », che sono i due estremi della moralità. Siamo, dunque, di fronte alla morale manifestata all’uomo e simboleggiata nell’albero vivo che si ramifica nel cielo dell’armonia del giardino dell’Eden. L’uomo afferra il frutto di quell’albero cercando di possederlo.
Il gesto ha un netto significato, decisivo per comprendere il ‘peccato originale’, anzi, ogni peccato o, se si preferisce, la radice velenosa di ogni delitto, secondo le Scritture. L’uomo, violando il comandamento divino, vuole decidere autonomamente quale sia il bene e il male e rifiuta di riceverli codificati da Dio. L’uomo sceglie di essere lui stesso l’arbitro della morale, respingendone ogni definizione trascendente. Boccia, così, il progetto di Dio. Questa è la radice ultima del peccato, di ogni peccato, l’origine stessa del peccato, è il peccato nella sua struttura radicale di orgoglio, di hybris, di sfida, di «essere come Dio conoscitori del bene e del male» (3,5). Suo sbocco è la morte, intesa nel suo senso ‘simbolico’, ossia globale, fisico-spirituale – la terminologia usata, in ebraico ( môt tamût, «certamente morrai») è quella tipica della condanna per la violazione della legge sacra –, è la separazione dal Dio della vita fisico-spirituale. […]
Grande e drammatica qualità, la libertà dell’uomo è un ritirarsi di Dio ancor più arduo del suo ritrarsi dalla creazione per lasciarle spazio e consistenza. Egli non vuole avere davanti a sé solo stelle che obbediscono a meccaniche celesti o stagioni che rispondono a ritmi obbligati o animali che seguono istinti in loro impressi. Vuole avere un rischioso interlocutore, pronto a rispettarlo nelle sue follie, anche se non a giustificarlo o ignorarlo. […]
Dio non ha incatenato tutte le potenzialità della libertà, ha solo voluto definire i valori morali sui quali esercitare la libertà (l’albero della conoscenza del bene e del male). È ciò che sa bene la donna, e lo attesta in modo esplicito nella sua replica al serpente (3,2-3). Ma, aperto il varco, il serpente fa balenare la possibilità di rompere ogni legame, di sfidare Dio anche sull’unico, fondamentale comandamento. Il precetto divino viene maliziosamente presentato come un’assurda e ostile gelosia nei confronti dell’uomo: «Dio sa che […] si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscitori del bene e del male» (3,5). È questa una perfetta definizione del peccato in senso teologico: è un atto di ribellione in cui l’uomo si sostituisce a Dio, arrogandosi la sua sapienza, la sua divinità, la sua signoria sul bene e sul male.
La lettura dei primi tre capitoli fondamentali della Genesi rivela che la Bibbia guarda alla fragile libertà umana con un certo pessimismo. Non c’è, dunque, speranza per l’autore della Genesi? No, la catena della maledizione può essere interrotta e ciò accadrà quando Dio stesso, deluso della sua creatura, ma non disperato di riportarla nel giardino perduto, deciderà di ritornare in scena, scegliendo un uomo, Abramo, come nuovo interlocutore.
La storia di Abramo, infatti, comincia con la radice verbale ebraica della benedizione, brk, ripetuta per ben cinque volte: «Ti benedirò – dice il Signore ad Abramo – tu stesso diventerai una benedizione, benedirò coloro che ti benediranno […] e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (12,2-3). Sorge ormai l’alba della storia della salvezza.
Ho trovato questa esegesi del cardinale Ravasi che ho pensato di proporre a voi, ragazzi del Liceo Sportivo. E’ una chiave di lettura dei racconti che troviamo nei primi tre capitoli di Genesi che può aiutarci a capire i temi che stiamo affrontando.
Per voi, ragazzi del quarto, sarà l’occasione per comprendere che il racconto della creazione non ha nessuna pretesa scientifica, ma è un testo liturgico, che appartiene alla tradizione Sacerdotale. Voi, invece, ragazzi del III vi potrete trovare spunti per una chiave di lettura del rapporto uomo-donna.
Prima di addentrarci nel brano di Gen 1, vi propongo un video.
[…] la narrazione del capitolo 1 della Genesi colloca,la creazione dell’uomo al vertice, in un sesto, estremo giorno creativo, come ottava, suprema opera divina.
L’uomo entra dunque in scena come apice della creazione, dopo una solenne dichiarazione divina pronunziata nel plurale maiestatico: «Facciamo l’uomo secondo la nostra immagine, come nostra somiglianza, affinché possa dominare sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame e sulle belve della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (1,26).
È quasi la nomina di un vicario del potere di Dio, di un viceré planetario delegato dallo stesso Creatore che in lui ha posto un sigillo divino: l’uomo, infatti, è «immagine» di Dio, è la rappresentazione più ‘somigliante’ di Dio che si possa concepire.
Ma ecco che questa creatura così nobile e alta sta per svelare anche il suo volto satanico segreto.
È ciò che che viene presentato nel secondo racconto della creazione, giustapposto dal redattore finale della Genesi al primo: sono i capitoli 2-3, attribuiti alla cosiddetta ‘Tradizione Jahvista’, una corrente teologica più arcaica di quella ‘Sacerdotale’ presente nel capitolo 1 (il termine ‘Jahvista’ deriva dal nome divino specifico JHWH).
Queste due pagine sono costruite a dittico, ma con tavole dalle tonalità opposte, policroma e luminosa quella del capitolo 2, oscura e tragica quella del capitolo 3. Entrambe sono dipinte seguendo tre registri paralleli che descrivono in modo sceneggiato le tre relazioni fondamentali che legano l’uomo alla trascendenza (Dio), al cosmo (materia e animali), al suo simile (la terra).
Fermiamoci innanzitutto davanti alla prima tavola ‘paradisiaca’ (è, infatti, immersa in un giardino fiorito, popolarmente detto ‘paradiso terrestre’, anche se nell’originale biblico si usa solo il termine ‘giardino’) e scorriamo i tre registri.
In quello superiore ci pare quasi di trovare l’indimenticabile scena michelangiolesca della creazione di Adamo affrescata sulla volta della Sistina. Ma qui, tra il Creatore e l’uomo, non corre la linea dei due indici che s’incontrano, bensì un filo di respiro comune.
Nella materialità limitata e caduca dell’uomo (la «polvere del suolo») corre una nishmat-hajjim, di solito tradotta come «alito di vita» (2,7). In realtà quell’alito non è il respiro vitale o ‘spirito’ ( rûah), posseduto anche dagli animali. È, secondo la Bibbia, una realtà posseduta solo da Dio e dall’uomo, «una fiaccola divina che scruta tutti i segreti del cuore » (Proverbi 20, 27). Si tratta, quindi, della capacità di penetrare i misteri della coscienza, è la sorgente della morale e dell’autocoscienza.
Procediamo e scopriamo il secondo registro della tavola della creazione dell’uomo. Appare, dopo quella che lo lega a Dio, la seconda relazione che vincola l’Adamo-Uomo alla realtà esterna. Egli non guarda solo verso l’alto, ma anche verso il basso, verso quella materia da cui proviene. Egli sente una specie di fraternità con la terra e gli animali.
Quel «coltivare e custodire » il giardino dell’Eden (2,15), quel cibarsi di frutti (2,16), quell’imporre il nome alle bestie (2,1920) sono la rappresentazione dell’homo faber, cioè del lavoro e della conoscenza che permettono all’umanità di penetrare e di insediarsi nel creato, in una convivenza nobile e ‘signorile’. Eppure l’uomo lavoratore e scienziato, giunto al tramonto della sua giornata di lavoro e di studio si sente ancora incompleto. L’ominizzazione piena si compie nel terzo registro della tavola del capitolo 2, con l’ultima relazione. L’uomo ora guarda di fronte a sé, cercando «un aiuto degno di lui» (2,18.20): l’originale ebraico ( kenegdô) letteralmente evoca una realtà che stia ‘di fronte’, cioè un ‘partner’. È il legame col prossimo, con l’altra creatura umana in cui specchiare i propri occhi, in cui versare il proprio dolore e la gioia, con cui condividere ansie e speranze. Questo legame è tipizzato nell’unione d’amore con la donna (2,21-25), raffigurata attraverso due simboli.
Il primo è quello della ‘costola’. In sumerico l’ideogramma ti significa contemporaneamente ‘costola’ e ‘vita, vivente’. Il senso dell’immagine, al di là delle banalità dette e scritte al riguardo, è quello della solidarietà ‘carnale’ e quindi esistenziale tra i due, l’uomo e la donna. […]«Questa volta è osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne!».
Il secondo simbolo è, invece, di tipo linguistico. Si gioca, infatti, sull’assonanza tra ‘ish, ‘uomo, maschio’ e ‘isshah ‘donna’ […] creando così la suggestione della complementarità nell’unità dello stesso essere, della diversità sessuale nell’identità della realtà umana.
«La si chiamerà ’isshah perché da ’ish è stata tratta» (2,23). L’uomo e la donna sono dunque, secondo la Genesi, «una sola carne» (2,24) sia nell’atto fisico d’amore, sia nella dimensione esistenziale e umana, sia infine – come spiegava un famoso esegeta tedesco, Gerhard von Rad – nel figlio che da loro nascerà, unica carne di due persone. […]
La prima tavola del nostro ideale dittico ha disegnato nei suoi tre registri la triade fondamentale delle relazioni umane nella versione codificata soprattutto dalla letteratura sapienziale: il rapporto uomo-Dio, uomo-cosmo, uomo-uomo.
Completo l’itinerario che ci sta portando, cari alunni di terza media, alla scoperta delle religioni, con le religioni monoteiste. L’ordine procede dalla più recente alla più antica.
ISLAM
CRISTIANESIMO
EBRAISMO
Come approfondimento per le riflessioni che stanno scaturendo dal vostro lavoro, vi lascio le parole tratte dal documento Nostra Aetate, dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane.
La religione musulmana
3. La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno.
Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà.
La religione ebraica
4. Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo.
La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti. […]
Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo.
Un contributo per il lavoro dei ragazzi di terza media: alcuni video sulle religioni dell’Oriente e alcune riflessioni secondo il punto di vista cristiano-cattolico.
Buddismo
Induismo
Shintoismo
dalla Nostra Aetate 2
[…] Così, nell’induismo gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia; cercano la liberazione dalle angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza.
Nel buddismo, secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi o con l’aiuto venuto dall’alto. Ugualmente anche le altre religioni che si trovano nel mondo intero si sforzano di superare, in vari modi, l’inquietudine del cuore umano proponendo delle vie, cioè dottrine, precetti di vita e riti sacri.
La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. […]
Paolo VI ai rappresentanti dello shintoismo, Roma, 26 febbraio 1975
[…] Noi riconosciamo ed apprezziamo i valori di religiosità e di moralità che la vostra religione ha trasmesso nel corso della storia alla cultura e alla civiltà giapponese. In particolare ci piace ricordare il vostro impegno per la sincerità e la purezza del cuore e il vostro ideale di vivere in armonia con gli uomini e con la natura. Desideriamo estendere questo saluto e apprezzamento sincero a tutta la Comunità shintoista.
Questo incontro è espressione dell’impegno della Chiesa cattolica di promuovere le relazioni e il dialogo con le religioni per una migliore comprensione reciproca e una amichevole collaborazione in vista della pace e dello sviluppo dei valori spirituali e morali tra gli uomini. […]
L’universo si espande, cari ragazzi.
A scoprirlo fu Hubble, astronomo americano (1889-1953) che così dette il colpo mortale a una convinzione plurisecolare, che cioè il cosmo fosse immobile.
Se l’universo si espande, vuol dire che, se riavvolgessimo mentalmente all’indietro questa espansione, come si fa con una pellicola cinematografica rivista dalla fine all’inizio, si dovrebbe arrivare ad una contrazione. Fu più o meno questo il ragionamento che portò Georges Lemaître, prete cattolico e astrofisico belga, ad intuire che doveva esserci un punto da cui tutto era iniziato. Quel punto di inizio, che per Lemaître non poteva che essere Dio, fu chiamato da Fred Hoyle “Big Bang”. Un punto che, all’improvviso, iniziò a dilatarsi, dando vita a un’espansione che continua ancora oggi e che ci racconta che l’universo ha una storia.
La ragione che portò quel punto, che conteneva un’infinita energia, a dilatarsi, a farsi materia e a dare origine ai costituenti dell’universo, non è ancora ben chiara. La fisica suggerisce ipotesi e tante domande: cos’è, realmente, il Big Bang? cosa c’era prima di questo “punto”? che fine farà questa espansione?
Noi sappiamo l’età di questo universo (13,7 miliardi di anni) ma non riusciamo ancora a decifrarne l’inizio. Siamo arrivati ad un attimo prima del Big Bang e sappiamo anche quando comincia quest’attimo: 10-43 secondi. Vi rendete conto? E’ un tempo infinitamente piccolo (provate a dividere un secondo per miliardesime di miliardesime di miliardesime volte!).
Questo tempo che è stato calcolato da Planck (1858-1947) è come un muro che, al momento, non riusciamo ad oltrepassare. Che successe prima? Perché un prima, per quanto sia un tempo infinitamente piccolo, esiste.
Questo tempo di Planck ci interroga, stuzzica, lascia interdetti, soprattutto chi, come me, non capisce un’acca di questa fisica “strana” (per quanto anche quella più “tradizionale” sia ormai diventata per me un ricordo nebuloso!).
Ci fa certo strano pensare che un tempo così insignificante e impercettibile sia invece così ricco di significati.
In quella frazione di tempo gli eventi sono quantistici ed il tempo non è quello che conosciamo: non è ancora distinto dallo spazio, non scorre, non prosegue inesorabile come una freccia, non è lineare come lo misuriamo coi nostri orologi. In questo tempo di cui parla Planck, in questa frazione di 10-43 secondi, può essere successo di tutto!
[Liberamente adattato da http://www.ilfoglio.it/gli-inserti-del-foglio/2015/06/29/news/cosi-la-fisica-spiega-linspiegabile-origine-delluniverso-85225/]
Quando Mosè chiede il nome a Dio, la risposta non è una parola, ma una frase ebraica, «io sono colui che sono» (cfr. Es 3,13-14).
Questo nome viene anche indicato come “tetragramma” biblico o sacro, dal greco τέτρα, tétra (“quattro”) e γράμματον, grámmaton (“scrittura, lettera”), essendo composto dalle quattro lettere ebraiche yod, he, waw, he.
Per rispetto era (ed è) considerato impronunciabile dagli Ebrei e perciò nella lettura sostituito con il generico Adonày, “Signore”.
Solo il sommo sacerdote, nel Giorno del Kippur, poteva pronunciare questo nome, così come i sacerdoti, durante speciali benedizioni.
Qual è l’esatta pronuncia di questo nome?
Dato che nella lingua ebraica non si scrivono le vocali, il tetragramma biblico è costituito unicamente da consonanti; ma poiché esso non viene mai pronunciato (e non lo è da duemila anni, da quando cioè il Tempio andò distrutto nel 70 d.C.), non è certo quale sia la corretta pronuncia di questo nome sacro. La quasi totalità degli studiosi contemporanei concorda nell’ipotesi che la corretta pronuncia fosse “yahwèh” (יַהְוֶה), come attestata nell’antichità dagli scrittori greci cristiani Epifanio di Salamina e Teodoreto di Cirro (i quali riportano le grafie omofone Ἰαβε e Ἰαβαι), e in epoca moderna ricostruita da Wilhelm Gesenius nel 1840. L’opzione “yehowah”, donde l’italiano “Geova”, deriva dai Masoreti che aggiunsero alle quattro consonanti le vocali del termine Adonài, per evitare che potesse essere pronunciato in altro modo.
Qual è il Dio in cui crediamo? Una proiezione delle nostre idee? Oppure un’entità non meglio definita che può essere anche molto distante da quel Dio che ci hanno “raccontato” fin da quando eravamo piccoli?
La classe si divide: chi propende per una versione chi per l’altra.
“Però prof – fa uno – lei mi deve spiegare ‘sta storia dell’uomo immagine di Dio. Non ce l’ho ben chiara”. Aggiunge un altro: “Io, prof, sull’origine del mondo, credo alla scienza. Non penso proprio che la religione abbia ragione”.
Si è accesa una curiosità, la voglia di vedere dove si va a parare.
Ecco ragazzi la mia proposta, aperta comunque ai vostri suggerimenti e ad altre domande. PS: Grazie della partecipazione e dell’attenzione che mi avete regalato. Continuate così!