Non ho sogni

Ci sono ragazzi che non hanno sogni perché hanno tutto. Altri che fanno fatica a sognare, perché i sogni sono stati loro rubati da un mondo che non ha cuore, che permette che ogni giorno sia giorno di guerra, di fame, di soprusi.
Che questi giorni ci aiutino a pensare e che i buoni propositi si traducano in comportamenti buoni e virtuosi. Se non possiamo salvare il mondo intero, cominciamo almeno a guardare con occhi diversi chi sbarca sulle nostre coste, chi ci chiede ospitalità, chi ha bisogno del nostro aiuto.
Non c’è bisogno di andare lontano, perché può essere il nostro vicino di casa, o il compagno di banco, come la vecchietta nella via accanto, o il ragazzo davanti al supermercato, a non avere più sogni.

Profughi senza famiglia

Tra i profughi che sbarcano nelle nostre coste tanti sono i bambini e i ragazzi. Che ne è di loro?
Le loro storie raccontate da Viviana Daloiso in Avvenire del 24 dicembre 2017.

«Bella, l’Italia. Io posso camminare libero per la strada, senza la paura di morire». Ihsan lo dice sorridendo e poi scappa via, per continuare la partita. Sono una quindicina, assiepati attorno al calciobalilla: afghani, eritrei, algerini, egiziani. Pantaloni larghi, cappellini girati, cuffie all’orecchio. Eccoli qui, i minori stranieri non accompagnati. La sigla sui report statistici e nei lavori parlamentari è “msna”: numeri d’un fenomeno dirompente, negli ultimi anni. Di cui l’Italia – fuori da queste quattro mura a due passi dalla Stazione Centrale, nel cuore di Milano – sa poco o nulla.
Cosa vuol dire, arrivare da soli su un barcone a 15 anni? Cosa significa crescere senza genitori, lontani da casa, in una terra che non conosci? Perché, si parte?
Basta una mattina per scoprirlo al Civico Zero di Save the children.
Il luogo che non c’è da cui ricominciano tante storie. Alle nove il piccolo atrio – una vetrina anonima affacciata sulla strada – pullula di ragazzi. Sembra d’essere in una scuola italiana: ci sono le figurine, i diari zeppi di scritte, le chiacchiere, la musica. E la scuola inizia davvero, nel giro di qualche minuto, perché qui i minori tutti i giorni vengono – liberamente, dalle comunità e dai centri di accoglienza della metropoli e dell’hinterland– a imparare l’italiano.
 «Bella l’Italia e bello l’italiano» dice ancora Ihsan, col suo sorriso infinito: a 14 anni è arrivato delegittimato via mare, da solo, ed è così contento quando gli mettono in mano la scheda di lavoro. Figure a cui abbinare parole: c’è la penna, la sedia, il temperino. Bello tutto, per Ihsan. «Guarda, ho imparato a scriverlo da solo “temperino”».

Oggi l’insegnante è ammalata e allora a far lezione pensa Mahdi, che di mestiere al Civico Zero fa il mediatore culturale. È tunisino, ha poco più di 30 anni e anche lui una storia di speranze tradite, nel suo Paese, da cui è partito per venire in Italia a studiare. I ragazzi lo considerano una specie di autorità, «come in generale tutti gli adulti con cui entrano in contatto – racconta Valentina Polizzi, anima della struttura che coordina per Save the children dalla sua nascita, nel 2014 –. Il fatto che sono soli, che hanno intrapreso il loro viaggio senza i genitori, trasforma ogni figura adulta in un punto di riferimento, da rispettare e ascoltare». In effetti non vola una mosca, in questa lezione d’italiano con 25 adolescenti dagli 11 ai 17 anni di tutto il mondo. È una famiglia strampalata e straordinaria: il grande che aiuta il piccolo, il forte che aiuta il debole, Fabio che non alza mai lo sguardo dal foglio, Miji che scrive tutto impettito alla lavagna.
«L’italiano è tutto, per loro, è la garanzia di potersi costruire un futuro e di andare a lavorare – continua Valentina –, ecco perché la loro risposta in termini di risultato a volte è impressionante: abbiamo ragazzi che in un mese parlano la nostra lingua, in tre sanno scriverla».

Questo anche perché molti di questi minori hanno studiato, nei loro Paesi: «Le famiglie li hanno fatti partire proprio perché tenevano a loro particolarmente, perché volevano garantirgli un futuro». Figli prediletti, mandati a vivere – o morire, non importa – altrove.

È il caso dei ragazzi eritrei, in particolare. Come Sekou, 15 anni: «A casa mia avrei dovuto fare il soldato, avrei portato il fucile. E forse mi avrebbero costretto a uccidere qualche mio amico, persino mio fratello potevo uccidere, lo capisci?». Certo che no. Sekou ci ha messo 4 anni ad arrivare in Italia, è partito che ne aveva 11: l’hanno rapito tre volte, lungo la strada, venduto e comprato, poi l’abisso della Libia, di cui non racconta niente, nemmeno a Mahdi. Al Civico Zero lo prendono in giro perché sta sempre al telefono con la sua mamma: «Tutti i giorni, a tutte le ore, parla con lei – racconta Valentina –. E lei una volta a settimana chiede di parlare con qualcuno di noi, lui ce la passa».

La mamma, da un altro Continente, chiede se beve abbastanza latte, Sekou, «perché deve crescere», e vuol sentirsi dire che studia, che si comporta bene. «Un giorno io la porterò qui» sussurra lui, e giù a studiare di nuovo, a scrivere “matita” e “temperino” perché appena dopo l’Italia la salvezza è l’italiano, per questi ragazzi.
 A fine lezione c’è qualche colloquio individuale: i mediatori (uno parla il tigrino, due l’arabo) accolgono i ragazzi, le loro richieste, i loro dubbi. Gli altri ricominciano il biliardino o ascoltano il rap di Master Sina, il minore non accompagnato che racconta la sua storia su Youtube e registra decine di milioni di visualizzazioni tra l’Italia e la Tunisia. Il giovedì c’è il laboratorio d’arte e di video, il venerdì li portano al parco a giocare, o in gita nei musei. A Natale la tombola, non importa se cristiani o musulmani. «Non ci sono queste cose da dove vengo io – continua Faraji coi suoi 11 anni, e i baffetti sul viso da bimbo – perché c’è regime». Non sa spiegare cos’è, ma la tombola e il calciobalilla «sono meglio. Questo lo so».

Una croce tra i martiri del Colosseo

Ci fu martirio di cristiani nel Colosseo?
La questione si trascina da tempo. Secondo alcuni storici moderni i cristiani a Roma venivano uccisi in altri contesti come nelle carceri, nel Circo di Nerone (o nelle vicinanze) o addirittura nel Circo Massimo, per non dire lungo le strade o in contesti periferici. Eppure per tradizione noi immaginiamo il Colosseo come luogo di martirio di tanti cristiani. Non è un caso, infatti,  che la Via Crucis del Venerdì Santo, alla presenza del Papa, avvenga in questo luogo, inteso come simbolo delle uccisioni di fedeli in Cristo avvenute a Roma come in tutto il mondo. Studi recenti sembrano avvalorare la fondatezza di questa tradizione.
Durante la recente restaurazione dell’Anfiteatro Flavio (questo è l’altro nome del Colosseo) è stato ritrovato il disegno di una croce  su un tratto di intonaco risalente al terzo secolo. In un primo momento la presenza della croce è stata trascurata, anche perché inserita in un contesto di parole, numeri e segni sovrapposti e risalenti a varie epoche. Quando però Pier Luigi Guiducci, docente di Storia della Chiesa alla Lateranense, si è imbattuto per caso in una fotografia di questo ‘lacerto’ di muro, è scattata una molla. «Ho visto subito la croce in basso a sinistra. Ho notato che era di un colore rosso diverso dal resto delle scritte e ho deciso di approfondire», afferma lo storico. Il tratto di intonaco con la croce si trova nel corridoio di servizio poco illuminato che immette al terzo livello dell’anfiteatro, che storicamente era riservato al popolino. Questa è la prima cosa che ha incuriosito Guiducci, perché mai erano state individuate croci ai piani superiori. Gli unici altri graffiti col simbolo cristiano sono posti al primo livello, negli ambienti prossimi all’arena e gli storici li hanno sempre attribuiti all’epoca medievale, incisi dagli operai addetti all’estrazione di materiali da costruzione oppure da persone che nei secoli hanno sfruttato le strutture del Colosseo come riparo o come abitazione. Teoria che convince Guiducci solo in parte, avendo notato che una di queste semplici croci è analoga a un graffito presente nelle catacombe di Domitilla (II secolo).

Ma cosa ha di diverso la croce trovata al terzo livello?
Intanto il colore. Il rosso che è stato usato per segnarla sul muro è tipico del III secolo e molti ritrovamenti testimoniano che lo stesso pigmento è stato utilizzato proprio nel Colosseo per la decorazione degli intonaci interni. Inoltre la croce è disegnata, in piccolo, fra due grandi lettere ‘T’ e ‘S’, ed è posta, in posizione lievemente sopraelevata, sulla linea grafica che le congiunge alla base. Il suo significato è quindi strettamente collegato a quello delle due lettere che la inscrivono.  Ma qual è la relazione tra questa croce e le lettere? Prima si è pensato all’ipotesi che si trattasse della prima e dell’ultima lettera di un nome romano, come Tarcisius o Theseus. Ma da varie risultanze di graffiti di epoca latina si sa per certo che i romani non avevano l’abitudine di segnare i nomi propri sui muri con la prima e l’ultima lettera, ma li scrivevano per esteso. Vagliate altre ipotesi, Guiducci ha pensato di contestualizzare le due lettere nell’ambiente degli spettacoli che si tenevano nell’arena e nel contesto sociale relativo al suo terzo livello.

Così è giunto alla conclusione che con ‘T’ ed ‘S’ si sia voluta indicare la parola Taurus.

Fra la seconda metà del secondo secolo e tutto il terzo secolo i tori erano fra gli animali più usati nelle arene per i combattimenti con gladiatori, per i combattimenti fra animali, ma anche per uccidere i condannati a morte ( damnatio ad bestias). Da numerose attestazioni sappiamo che anche tanti cristiani, condannati a morte perché non abiuravano, venivano condotti nelle arene per subire la stessa sorte di tanti criminali. Ignazio di Antiochia, per esempio, subì questa sorte nel 107 e proprio nell’anfiteatro Flavio.
In alcune particolare occasioni, come per la celebrazione di importanti vittorie militari, al Colosseo si indicevano ‘giochi’ di festeggiamento che duravano mesi e gli ‘spettacoli’ erano anche tre al giorno, con l’impiego di migliaia di animali e di uomini: per la vittoria sui Daci, l’imperatore Traiano organizzò 123 giorni di combattimenti. Come nel caso di Ignazio, i condannati venivano ‘importati’ per l’occorrenza da varie parti dell’impero. E per condannare dei cristiani a morte ci voleva davvero poco. Tertulliano alla fine del secondo secolo scrive che qualunque cosa accadesse nell’impero, «che tracimasse il Tevere o vennise a piovere», subito si alzava il grido « Christianos ad leonem ».

Ecco allora che la croce inscritta nella parola ‘taurus’ disegnata col rosso nel buio corridoio che conduceva al terzo anello del Colosseo, destinato al popolo urlante, acquista il tono di una chiara invocazione alla misericordia, una affidamento al Cristo che salva, per il cristiano che ha appena trovato, o sta trovando la morte lacerato da un toro, nella sottostante arena. Insomma, quella croce posta a congiunzione fra le lettere ‘T’ e ‘S’ è in qualche modo una sorta di attestazione storica che nel Colosseo, fra secondo e terzo secolo, c’è stato chi ha avuto piena coscienza che un cristiano era morto ad bestias e ne ha avuto pietà.
Tratto e adattato da Avvenire del 14/12/2017 a firma di Roberto I. Zanini

Il pastore Benino

Tra le statuine del presepe ce n’è una che dorme. E’ il pastore Benino.

La leggenda popolare presenta questo personaggio mentre sta dormendo nello stesso presepe che sta sognando e, poiché quel presepe è il frutto del suo sogno, svegliare Benino vorrebbe dire l’istantanea estinzione del presepe. Ispirato dal passo evangelico che descrive l’annuncio degli Angeli ai pastori dormienti, il sogno di Benino non deriva però da un semplice sonno ozioso di un giovincello stanco, ma rappresenta invece il momento in cui l’uomo accoglie nella sua totale pienezza l’evento straordinario del mistero dell’Incarnazione. Tanto che nel suo sognare egli stesso diventa protagonista delle trasformazioni del creato e della natura che gli appaiono attorno.
Ed è per questo che nei presepi il pastorello Benino viene collocato nel punto più alto della scena: perché la sua visione, tra mille viottoli, discese, e dirupi, sfocia attraverso un viaggio denso di simboli e interpretazioni nella grotta sottostante, dove sono collocati Giuseppe, Maria e Gesù Bambino.
Il valore simbolico di questo personaggio ha dato vita a numerose narrazioni fra cui quelle legate alla Cantata dei Pastori di Andrea Perrucci (1698) che fa aprire la scena del primo atto della sacra rappresentazione con il dialogo con Benino e il padre Armenzio che lo ha svegliato da un sogno straordinario in cui ha visto la terra trasformarsi in Paradiso. Attorno a questa scena sono nati anche alcuni componimenti musicali conosciuti come Il sogno di Benino, che vengono ancora eseguiti come prologo alle rappresentazioni di Presepi viventi, come quello qui riportato diffuso nell’area del Lazio meridionale:
«…Mentre sognavo d’un tratto si apre il cielo piove argento e oro il mondo era tutto un tesoro I fiori erano pietre preziose dai fiumi scorre l’argento dalle viti pendevano grappoli di brillanti topazi e rubini E mentre guardavo estasiato vedo apparire una luce sorge dalla grotta di Betlemme grande come cento soli…».
Tratto da Avvenire del 14/12/2017 (Il sogno di Benino che dorme nel presepe di Ambrogio Sparagna)

Il valore del dialogo

Papa Francesco offre un ulteriore contributo alla riflessione che con i ragazzi delle seconde medie stiamo facendo sull’essere comunità.
«La diversità della famiglia umana – ha detto il Papa ricevendo i nuovi ambasciatori di alcuni Paesi – non è di per sé una causa di queste sfide alla coesistenza pacifica. Davvero le forze centrifughe che vorrebbero dividere i popoli non sono da ricercarsi nelle loro differenze, ma nel fallimento nello stabilire un percorso di dialogo e di comprensione come il più efficace mezzo di risposta a tali sfide». Il dialogo gioca un ruolo chiave «nel permettere alla diversità di essere vissuta in modo autentico e nel reciproco vantaggio per la nostra società sempre più globalizzata. Una comunicazione rispettosa conduce alla cooperazione, specialmente nel favorire la riconciliazione dove essa è più necessaria. Questa cooperazione a sua volta è d’aiuto a quella solidarietà che è la condizione per la crescita della giustizia e per il dovuto rispetto della dignità, dei diritti e delle aspirazioni di tutti. L’impegno per il dialogo e la cooperazione dev’essere il segno distintivo di ogni istituzione della comunità internazionale, come di ogni istituzione nazionale e locale, dal momento che tutte sono incaricate della ricerca del bene comune».
Il Papa ha continuato dicendo che «La promozione del dialogo, della riconciliazione e della cooperazione non possono essere date per scontate. La delicata arte della diplomazia e l’arduo lavoro della costruzione di una nazione devono essere sempre nuovamente imparate da ogni nuova generazione. Noi condividiamo la responsabilità collettiva di educare i giovani all’importanza di questi principi che sorreggono l’ordine sociale. Trasmettere questa preziosa eredità ai nostri figli e nipoti, non solo assicurerà un pacifico e prospero futuro, ma soddisferà anche le esigenze della giustizia intergenerazionale e di quello sviluppo umano integrale a cui ha diritto ogni uomo, donna e bambino».

La nuova proposta per la classe terza: Il mondo può ancora aver bisogno del Vangelo?

Il Vangelo ha anche un contenuto sociale, perché la relazione personale con Dio si deve tradurre in comportamenti di fraternità, di pace e di giustizia. Per questo la Chiesa ha avuto anche un’attenzione particolare ai problemi dell’uomo che abita questo nostro tempo: da qui la dottrina sociale della Chiesa e alcuni documenti che avremo modo di leggere e capire. Questa necessaria coerenza tra la fede e la vita è testimoniata anche da persone che hanno fatto scelte politiche e sociali ispirate al Vangelo. Il vostro compito sarà quello di raccontare in un’immagine e poche frasi quanto avete colto in questo percorso di apprendimento.
Cliccare sull’immagine per vedere la proposta didattica.

Proposta per la classe seconda: Un nuovo popolo

Come si fa a costruire gruppi accoglienti, capaci di apprezzare le diversità di ognuno? La Bibbia ha da dire e suggerire qualcosa?
I testi biblici che ci parlano della prima Chiesa, ci presentano una comunità che, con l’aiuto dello Spirito Santo, sperimentava e metteva in pratica (con tutte le difficoltà che possiamo immaginare) il comandamento dell’amore. Non può esistere comunità, neanche quella scolastica, se non c’è accettazione dell’altro (che va amato come un fratello) e condivisione di regole. La regola più importante di tutte è però quella di rinunciare al proprio egoismo per il bene comune.
Cliccare sull’immagine per vedere la proposta didattica.