Gaudete et exultate: l’invito di papa Francesco alla santità

Siamo chiamati alla santità.
E’ questo il messaggio che papa Francesco ha voluto rivolgerci in questa terza esortazione apostolica dal titolo Gaudete et exultate (gioite ed esultate). Un invito alla gioia
di una vita santa, perché i santi non sono solo quelli già beatificati e canonizzati, ma il “popolo” di Dio, cioè ognuno di noi, chiamato a vivere la santità come un itinerario fatto di “piccoli gesti” quotidiani.

Vi lascio un video che ci aiuta a cogliere il senso della santità a cui siamo chiamati.

 

Dare la propria vita per gli altri

Non c’è amore più grande di questo – dice Gesù – che dare la vita per i propri amici.
Ma cosa vuol dire?
Nel film “Sette anime” il protagonista decide di togliersi la vita per offrire una possibilità di vita alla donna che ama. E’ questo il senso dell’amore, così come lo intende Gesù?
No, assolutamente no!
Il concetto stesso di martirio cristiano è lontano dall’idea del sacrificio in se stesso.
I cristiani dei primi secoli presero le distanze da alcuni che pensavano di procurarsi volontariamente la morte, provocando di proposito i pagani.
Umani fino in fondo, i martiri non amano la morte violenta. Man mano che il loro momento si avvicina sono sempre più consapevoli della barbarie a cui vanno incontro: questo li sgomenta ma, al tempo stesso, non li fa recedere. Sono come Gesù nell’orto degli Ulivi: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». Come Gesù, quando si accorgono che la propria morte è inevitabile, perché Dio così ha predisposto e tanti segnali dicono che la loro missione sulla terra non potrà non concludersi che in modo violento, non tornano sui loro passi, preparandosi a morire.
Certo, i martiri non si avviano danzando incontro al martirio. Di quelli a noi più vicini abbiamo testimonianze che ci danno un’idea dei giorni che precedono il martirio: le persone che sono state accanto a loro li raccontano come pensosi, inquieti, riflessivi ma anche bruschi. 

L’arcivescovo salvadoregno Oscar Romero, ferito a morte mentre celebrava la Messa nel 1980, per aver preso le difese dei diseredati del suo popolo, diceva: «È normale che ci tremino le ginocchia, ma almeno che ci tremino nel posto in cui dobbiamo stare»
Ha scritto Bruno Maggioni: «Il martire non sceglie la morte, ma un modo di vivere, quello di Gesù». Ecco ciò che contraddistingue il martire cristiano, la sua radicale specificità.
La vita che va odiata è quella dove a vincere  sono i più furbi, i più ricchi, i meno onesti. La vita che Gesù ci chiede di perdere è quella incatenata dai tanti fardelli che la condizionano: la paura di rinunciare al proprio tornaconto, ad una libertà vuota di valori, all’egoismo. Quando siamo liberi dai calcoli e ci apriamo all’altro con generosità siamo più felici. È questa la vita verso la quale tendere: una vita che ha come unico obiettivo amare Dio e il prossimo e di lasciaci amare da Lui e dalle persone che ci sono attorno.
In questo modo la vita non la si perde. Anzi, diventa amore, accoglienza, condivisione, voglia di annunciare e testimoniare che si può abitare questo mondo nella gioia.

Christian de Chergé, uno dei monaci uccisi a Thibirine, nel 1986, dal terrorismo algerino, ci ha lasciato una chiara testimonianza di quello che può significare perdere la propria vita per amore di Cristo e del prossimo.
In quello che è considerato il suo testamento spirituale, scritto quando ancora non sapeva in che modo e quando gli sarebbe toccato di dover donare la sua vita per Cristo, annotava:
«La mia vita non ha valore più di un’altra. Non ne ha neanche di meno. – In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito. Non potrei augurarmi una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse indistintamente accusato del mio assassinio. […] La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”. Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione, giocando con le differenze. Di questa vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per questa gioia, attraverso e nonostante tutto […] E anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo “grazie”, e questo “a-Dio” nel cui volto ti contemplo. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Inch’Allah».
In queste parole non c’è rabbia e rinuncia nei confronti della vita. Tutt’altro! E’ un messaggio dove la vita viene esaltata.
Una vita con l’unico obiettivo di amare Dio e il prossimo e di lasciarsi amare da Lui e dalle persone che ci vivono attorno è una vita che realizza le Beatitudini. Allora, pur nella sofferenza, si sperimenterà la gioia, la bellezza e la ricchezza di essere a servizio dell’uomo nel seguire Gesù.
Diceva san Paolo che senza la Carità (Amore) qualunque cosa io dovessi fare, anche il sacrificare la mia stessa vita, non avrebbe alcun valore, non servirebbe a nulla.

Quando lo sport vince il razzismo

Su Avvenire del 18 aprile ho letto la storia molto bella, che non conoscevo, di un giocatore di baseball.
Vi riporto l’articolo di Mauro Berruto, che ce la racconta.

«Non sono interessato alla vostra simpatia o antipatia, tutto quello che chiedo è che mi rispettiate come essere umano».
Queste parole sono di Jackie Robinson, uno dei tanti giocatori di baseball passati per la Major League, ma uno dei pochissimi a lasciare un segno indelebile del suo passaggio.

Robinson è il detentore di un record imbattibile: fu il primo giocatore afroamericano ad arrivare nella Lega professionistica Usa. Jackie era stato introdotto allo sport dal suo fratello maggiore, Mack. Uno che, per capirci, aveva vinto la medaglia d’argento ai Giochi Olimpici di Berlino nei 200 metri, dietro a un certo Jesse Owens. Jackie aveva un talento sportivo davvero eclettico e, dopo aver vagabondato fra le discipline principali della cultura nordamericana (basket, football americano, atletica leggera addirittura tennis), scelse il baseball.
Non era neppure lo sport che gli veniva meglio, il suo sogno era giocare a football americano, ma i tempi erano duri e per Jackie l’unica strada che si aprì fu quella di un club di Kansas City che partecipava a quella che si chiamava, senza possibilità di interpretazione, la Negro League, lega riservata ai giocatori afroamericani. Tuttavia il talento, quando è cristallino, attrae interesse, l’interesse (quando si parla di sport professionistico) diventa presto interesse economico e così, pur in mezzo a mille tensioni e minacce, a Jackie venne proposto un contratto per la Major League. Il suo nuovo club, tuttavia, stava superando una specie di confine che fino a quel giorno era stato invalicabile e volle, in qualche modo, tutelarsi. Nel contratto di Jackie c’erano infatti alcune clausole che avevano un comune denominatore: non avrebbe dovuto lamentarsi o reagire mai di fronte a nessuna provocazione dei suoi avversari, dei suoi compagni o dei tifosi specificando con una certa dose di cinica chiarezza che quella richiesta sarebbe stata valida anche se qualcuno gli avesse «sputato in faccia».
Jackie mise la sua firma sotto quelle parole, in cambio di 600 dollari al mese, ma probabilmente consapevole che quanto stava facendo avrebbe, per sempre, cambiato il suo sport.

Fu in quel clima che il 15 aprile 1947, davanti a 23.000 spettatori, esordì all’Ebbets Field di Brooklyn, indossando la maglia n. 42 dei Dodgers.
Insulti, minacce, sputi non mancarono quel giorno, né mai, in ogni stadio e in centinaia di occasioni. Alcuni suoi compagni firmavano petizioni per allontanarlo dalla squadra, svariati avversari si rifiutavano di scendere in campo quando c’era lui. Tuttavia a Jackie bastarono un paio di anni per diventare il trascinatore dei Dodgers verso il titolo e, per forza o per amore, ottenere rispetto a suon di fuoricampo. Nel 1950 diventò addirittura attore, per raccontare in un film la storia della sua vita.

La sua parabola non si fermò: continuò a rompere barriere da atleta, da manager (fu il primo uomo di colore a raggiungere la vicepresidenza di una grande azienda americana nel settore della ristorazione), da imprenditore (fondò una compagnia di costruzione per la realizzazione di case per famiglie a basso reddito). Repubblicano convinto si spese nel mondo della politica e, nel 1962, fu il primo atleta di colore a entrare nella Hall of Fame del baseball americano. Consumato dal diabete morì giovane, appena cinquantatreenne, nel 1972. Il 15 aprile 1997, in occasione del 50esimo da quell’esordio che aveva cambiato per sempre la storia del baseball e degli Stati Uniti, la

Major League chiese a tutti i suoi club di ritirare la maglia numero 42.

Proprio per questo motivo, ogni 15 aprile, il baseball americano festeggia il Jackie Robinson Day in un modo delicato, semplice, simbolico: i giocatori di tutte le squadre della Major League, così come allenatori e arbitri, scendono in campo con il numero 42.
È l’unico giorno in cui è possibile farlo, per commemorare un atleta e un uomo che riceveva minacce di morte ogni volta che varcava l’ingresso di uno stadio e che oggi, proprio all’ingresso dello stadio dove esordì quel famoso 15 aprile, ha, tutto per sé, un monumento alla cui base c’è scritto:

Sandra, la fidanzata santa

Una ragazza di 23 anni che si spendeva per gli altri con gli amici della Comunità Papa Giovanni XXIII. E che proprio don Oreste Benzi – dopo il tragico incidente stradale che la portò via nel 1984 propose per la causa di beatificazione dicendo: abbiamo sposi santi, genitori santi; non sarebbe bello avere un giorno anche una fidanzata santa? È il profilo di Sandra Sabattini, laica romagnola per la quale papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto sulle virtù eroiche.

Era nata a Riccione nel 1961 Sandra e aveva conosciuto molto giovane don Oreste e la Comunità Giovanni XXIII. Già a quattordici anni – di ritorno da un campo con un gruppo di disabili annotava sul suo diario: «Ci siamo spezzati le ossa, ma quella è gente che io non abbandonerò mai». Così è stato: per anni le sue giornate sono state scandite tra la scuola, il servizio a chi aveva bisogno e la vita spirituale, nello stile della papa Giovanni XXIII.

All’università aveva scelto medicina, sognando di partire per l’Africa; intanto era arrivato il fidanzamento con Guido. Tutte esperienze vissute lasciandosi guidare dalla radicalità del Vangelo: «Oggi c’è un’inflazione di buoni cristiani, mentre il mondo ha bisogno di santi», annotava sempre sul suo diario. Il 29 aprile 1984 a Igea Marina fu travolta da un’auto; morì tre giorni dopo a Bologna. (tratto da Avvenire dell’8 marzo 2018)
Le virtù eroiche di Sandra Sabattini sono state ufficialmente riconosciute da Papa Francesco lo scorso 6 marzo.

Cristo, speranza che non delude

«Noi cristiani crediamo e sappiamo che la Risurrezione di Cristo è la vera speranza del mondo, quella che non delude. È la forza del chicco di grano, quella dell’amore che si abbassa e si dona fino alla fine, e che davvero rinnova il mondo. Questa forza porta frutto anche oggi nei solchi della nostra storia, segnata da tante ingiustizie e violenze. Porta frutti di speranza e di dignità dove ci sono miseria ed esclusione, dove c’è fame e manca il lavoro, in mezzo ai profughi e ai rifugiati – tante volte respinti dall’attuale cultura dello scarto –, alle vittime del narcotraffico, della tratta di persone e delle schiavitù dei nostri tempi».
(papa Francesco Messaggio Urbi et Orbi, Pasqua 2018)

La via delle Beatitudini

Il giovane Hugo Cabret dice – ricordate? – che tutto deve avere uno scopo e che se questo scopo non lo troviamo è come essere rotti.

Trovare lo scopo della vita non è certo cosa facile e, chi più chi meno (lo abbiamo visto a scuola), a volte ci viene da interrogarci e da guardarci intorno per cercare le risposte di cui abbiamo bisogno.
Le parabole lette a scuola ci hanno fatto capire che bisogna essere un po’ come dei bravi ingegneri che cercano il terreno più adatto per costruire la casa, oppure che non dobbiamo illuderci che sia il possesso delle cose a garantirci un avvenire sicuro.
La proposta che Gesù fa nelle Beatitudini è ancora più sconvolgente e rivoluzionaria, perché ribalta il nostro modo di pensare proponendo un progetto di vita che sembra lontanissimo e difficile da realizzare.

Gandhi diceva che queste delle Beatitudini sono «le parole più alte del pensiero umano».
A leggerle bene esse disegnano un altro modo di essere, di vivere da uomini.
Certo che indicano la strada per essere dei veri cristiani, ma non si può essere cristiani se non si è veramente umani! Ecco perché le Beatitudini possono e devono interessarci.
Le Beatitudini tracciano la strada per vivere in pienezza la nostra umanità e questo – udite, udite – si chiama santità.
Eh sì, la natura umana si perfeziona, come diceva san Tommaso, con la grazia di Dio.
Diventare santi significa quindi avvicinarsi sempre più alla perfezione per la quale la natura umana è fatta. Se non siamo santi, non siamo pienamente uomini né pienamente cristiani, perché i santi non sono solo quelli canonizzati né supereroi o figure da immaginetta fuori dalle faccende ordinarie. San Paolo chiamava i cristiani delle diverse comunità “santi”; santi sono quindi tutti i battezzati, coloro che hanno ricevuto e accolto lo spirito di Dio e che si sentono perciò attratti verso il bene al servizio degli uomini.
Quindi, lo scopo verso cui tendere è la santità? Direi proprio di sì, perché la santità è un dono che Dio offre a tutti. Perché tutti siamo chiamati alla realizzazione piena della nostra vita.
Questo delle Beatitudini, ha detto papa Francesco, «è il programma di vita che ci propone Gesù… ci dà anche altre indicazioni, un protocollo sul quale noi saremo giudicati: “Sono stato affamato e mi hai dato da mangiare, ero assetato e mi hai dato da bere, ero ammalato e mi hai visitato, ero in carcere e sei venuto a trovarmi”». Così «si può vivere la vita cristiana a livello di santità. Poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti, perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per farla».

Se si accolgono le Beatitudini, la loro logica cambia il cuore, lo guariscono perché sia possibile così prendersi cura del prossimo e del mondo, risucchiato dalla melma dell’individualismo e della barbarie. La storia, la storia di ognuno (lo scopo?) si gioca su questa disponibilità all’apertura verso Dio e i fratelli.
 «Nella storia della Chiesa, i veri rinnovatori – ha osservato il Papa – sono i santi. Sono loro i veri riformatori, quelli che cambiano, quelli che trasformano, che sviluppano e risuscitano il cammino». La santità è perciò una necessità primaria, è necessaria come l’aria, il respiro.
Da chiedere per noi stessi oggi.
È questa la riforma, la vera rivoluzione.
P.S. per questo post ho tratto ispirazione dall’articolo (in parte ripreso) di Stefania Falasca, in Avvenire del 9 aprile 2018

Le lingue dei nomadi

Vi siete mai chiesti che lingua parlano i nomadi?
Ho trovato un’interessante articolo su Popotus dell’8 marzo 2018 che ci aiuta a capire quanto sia complesso e affascinante il mondo di coloro che chiamiamo, in tono sbrigativo e spesso sprezzante, zingari.
«Difficile dare una risposta, perché si tratta di popolazioni che da secoli non risiedono in un luogo fisso, ma sono sparse in varie parti d’Europa e d’Italia e perfino negli Stati Uniti.
Intanto cerchiamo di conoscere e interpretare in modo corretto i nomi degli appartenenti ai vari gruppi di nomadi (chiamati genericamente zingari, parola di origine greca): si distinguono in rom (che nella loro lingua significa “uomo, essere umano”), sinti (parola che deriva da Sindh, regione del Pakistan dalla quale provengono), o camminanti (e in questo caso è facile capire perché si chiamano così).
In Italia le popolazioni nomadi arrivarono nel Quattrocento: oggi i nomadi sono circa 140.000, ma molti di loro hanno preso da tempo la cittadinanza italiana. La loro lingua si chiama romanì o romanés, e comprende tante varietà diverse, a seconda delle lingue con le quali questi gruppi sono venuti in contatto durante i loro viaggi.
La lingua romanì o romanés discende dai dialetti parlati anticamente nell’India settentrionale, da dove quelle popolazioni partirono. Molte parole di questa lingua derivano dal persiano, dal curdo, dall’armeno, dal greco, e stanno a testimoniare il lungo percorso fatto tra l’VIII e il XII secolo d.C. dalle popolazioni nomadi dall’India fino all’Europa. In Italia le comunità rom e sinti si stanziarono anticamente in Piemonte, Lombardia ed Emilia, poi nella prima metà del Novecento arrivarono i rom provenienti dalla Slovenia, dalla Croazia, dall’Istria, dalla Bosnia.
I nazisti perseguitarono i rom e i sinti, che furono deportati nei campi di concentramento: circa 500.000 di loro furono uccisi nei campi di sterminio.

Oggi le minoranze rom in Italia parlano una lingua mescolata con l’italiano, o influenzata dal rumeno e dalle lingue parlate nei Balcani. Se volete avere un’idea di questa lingua, basta ascoltare la canzone Khorakhané dedicata dal grande cantautore Fabrizio De André al popolo khorakhané (che significa “lettori del Corano”), rom musulmani originari del Kosovo che durante la guerra nella ex Jugoslavia si rifugiarono nella zona di Brescia.
I nomadi chiamati “camminanti” (o “siciliani erranti”), invece, sono diffusi in Sicilia, ma anche a Napoli, Roma, Milano, città nelle quali si spostano su roulotte e camper. Non si conosce la loro origine, e qualche studioso pensa che siano i discendenti dei sopravvissuti al terremoto del 1693 che colpì la Val di Noto in Sicilia. I camminanti parlano una lingua diversa, il baccagghiu, molto simile al dialetto siciliano.
Vi lascio il video della canzone di De André: la parte finale della canzone è cantata nella lingua dei
khorakhané.