Chi sono i profeti: alcune riflessioni

Riprendo alcuni passi da “E la preghiera divenne corpo” di L. Bruni su Avvenire del 25/08/2019 .
Ci possono aiutare a capire qualcosa in più sui profeti.

[…] Nonostante tutta la rivelazione biblica e poi il cristianesimo che ci ha detto che Dio è agape, anche noi continuiamo ancora a leggere le disgrazie come colpa –’se lo avessi accompagnato’, ‘se gli avessi detto di no’, ‘è la punizione per la mia vita sbagliata’… I sensi di colpa sono la prima moneta con cui paghiamo i conti dei nostri funerali. Arrivano da soli, sono iscritti nei nostri cromosomi culturali. La religione economico- retributiva è infatti molto più antica e quindi radicata nel cuore individuale e collettivo della religione dell’amore e della grazia. Ecco perché ci servono i profeti. I profeti si mettono accanto a noi. Fanno silenzio, non ci fanno prediche né discorsetti consolatori, ci donano un Dio liberato dalle colpe e dai meriti, tutto grazia e misericordia. Lo fanno con la parola, ma soprattutto col corpo: con un abbraccio lungo e tenace, condividendo un pasto di lacrime e sale, standoci vicini, silenziosi, in quei sabati santi che non finiscono mai. Mi ci è voluta una vita intera – mi confidava un amico sacerdote – per capire che le persone che vivono grandi dolori da noi non cercano parole, cercano un corpo che sa vivere lo stabat.
[…] Nelle grandi crisi e nei dolori insostenibili il profeta si mette accanto a noi e chiede a Dio di mostrarsi buono almeno quanto una madre. Mentre ci insegna le parole di Dio, guarda il meglio degli uomini e lo indica, lo insegna, a Dio. Se la Bibbia, alla fine, ci ha potuto donare l’immagine di Dio che si commuove per il figlio tornato, che si china sulla vittima nella strada per Gerico, è perché i profeti avevano osato chiedere a Dio di scendere dai cieli e di diventare buono almeno quanto le madri.
I falsi profeti per difendere Dio condannano gli uomini. I profeti veri sanno invece che l’unico modo per salvare e proteggere veramente Dio è proteggere e salvare veramente gli uomini – soprattutto i figli.I profeti sono gli amici di Dio, hanno una intimità unica con l’assoluto. Sta qui il loro mistero.

Imparare a vivere per saper morire

Vi riporto la riflessione di don Maurizio Patriciello su Nadia Toffa (Avvenire del 20 agosto 2019).
In questi giorni ci siamo commossi per la scomparsa di questa conduttrice televisiva e giornalista italiana che non ha fatto mistero della sua malattia, ma che anzi, con il suo coraggio e la sua determinazione ha cercato di dare forza e coraggio a chi come lei doveva lottare per la guarigione. Don Patriciello, che ha officiato i suoi funerali, con le parole che seguono ci aiuta ad andare più in profondità e a scoprire la testimonianza lasciata da questa giovane donna.

«Voglio imparare. Il tempo stringe e io debbo imparare. Imparare a vivere per saper poi morire». Nella vita non sempre ci rendiamo conto dell’importanza del dover imparare a vivere. Si vive e basta. Un fatto scontato, istintivo, naturale. E questo è grande errore. Sono passati pochi giorni dalla morte di Nadia Toffa, la giornalista e conduttrice tv bresciana, che ha scosso l’Italia. In tanti ci siamo chiesti il perché. Qualcuno, grossolanamente, ha liquidato la faccenda parlando di una sorta di reazione emotiva. Le emozioni hanno la loro importanza, non c’è dubbio, ma da sole dicono ben poco. La parabola di Nadia Toffa – discendente secondo una logica solo umana; ascendente secondo la logica di Dio – inizia da lontano, da quando per le prime volte la vedemmo affacciarsi sullo schermo. Una ragazza bella, slanciata, cocciuta, intraprendente. Schietta, brava, coraggiosa. I più giovani si specchiavano in lei, magari con un pizzico di benevola invidia. I più anziani la consideravano alla stregua di una figlia da proteggere. Una giovane destinata al successo, Nadia. Simpatica, brava, coinvolgente. Sarebbe arrivata lontano.
Una mattina, come un fulmine a ciel sereno, in un albergo di Trieste, perse i sensi. Sarebbe stata lei stessa, mesi dopo, a confessare di avere il cancro. I telespettatori rimasero sconcertati. Cancro, parrucca, chemio, sono parole da esorcizzare, lei invece ne parlava con serenità. Era finta, calcolata, per chissà quali scopi quella serenità, o faceva sul serio quella giovane giornalista? No, Nadia, non stava barando, non era capace di barare. In lei si specchiarono migliaia di ammalati di cancro, i loro parenti, i loro amici. E ancora una volta, Nadia accettò di diventare la portavoce dei malati. Un popolo al quale non sempre i cosiddetti sani assicurano la giusta comprensione e i diritti cui hanno diritto. Nadia capì che le veniva chiesto molto perché molto le era stato dato.
Accolse come una sorta di ‘vocazione’ il male che l’affliggeva e dal quale fece di tutto per guarire. Intanto, però, da quel male si lasciava ammaestrare. Nulla doveva andare perduto. Dalla sofferenza imparava. E le giornate, quando il dolore le dava tregua, le sembrarono più lunghe, le sere più dolci, il cielo più azzurro, gli amici più cari. Imparò che tutto viene da Dio. E gridò al mondo la sua fede. «Dio non è cattivo, credetemi, Dio non è cattivo ».
Nadia, inchiodata in un letto di dolore, stava evangelizzando il dolore. Con Dio iniziò a dialogare e litigare, come sapeva fare lei, cocciuta, ma mai cattiva. E comprese che la preghiera, da noi cristiani tante volte trascurata quando la vita ci sorride, era un ‘abbraccio’. L’abbraccio caldo e rassicurante di Dio alla sua creatura. E volle comunicare ai fratelli in umanità la scoperta fatta.
Imparava a vivere, Nadia. O, meglio, andava perfezionando la lezione iniziata tanti anni prima. Imparò ad amare la vita anche nei giorni del dolore. Capì che la Nadia di un tempo andava sfiorendo, non sarebbe tornata più. Ma non ne fece un dramma. Con lei ho avuto un rapporto limpido, onesto, discreto, che si è andato intensificando negli ultimi mesi. «Continuo la chemio e non mollo. Sorrido e accetto tutto quello che Dio ha disegnato per me. Porto nostro Signore nel cuore e vedremo cosa deciderà per me. Porgo la mia anima vicino al suo immenso cuore. Grazie di esistere, padre. Le voglio bene».
Per gli auguri di Natale, le scrissi: «Nasconditi, Nadia sempre cara, come un uccellino, nelle fenditure della Roccia. La tempesta, il freddo, la neve, il gelo, le raffiche di vento, nulla potranno contro la Roccia che ti ripara. Lasciati cullare come un bambino sul seno della mamma. Non opporre resistenza. Dio è più grande del nostro povero cuore. Ti ama. Sei sua. Gli appartieni. Ti brama. In questa certezza, riposa». Poche ore dopo, la brillante giornalista, chiamandomi per la prima volta col solo nome di battesimo, rispondeva: «Grazie, Maurizio. Mi metterò al riparo tra le sue braccia. Io non ho paura per me ma per la mia cara mamma».
 Papa Paolo VI, bresciano come lei, ci disse che «il mondo, oggi, non ha bisogno di maestri ma di testimoni». Nadia Toffa lo è stata. Per questo l’Italia intera ha pianto la sua morte e continua a volerle bene.

Le stelle e un ragazzo a pancia in giù

Da Avvenire del 14 agosto 2019 ho tratto spunto per una riflessione, in vista dell’avvio (tra poco ci siamo) del nuovo anno scolastico.

Gentile direttore, campo scuola giovanissimi di Azione Cattolica. Una cinquantina di ragazzi tra i sedici e i diciassette anni. Tema del campo: la libertà.
Una sera, quasi a mezzanotte, si decide di andare sul greto sassoso di un torrente in secca a vedere le stelle. Il cielo è sgombro, la luna assente, la temperatura tiepida. Torcia alla mano e felpa attorno alla vita, ragazzi ed educatori aggrediscono il breve tratto di bosco che separa la casa dal torrente. Quando arrivano, si sistemano accampandosi sulle pietre e sull’argine. Stendono le coperte e vi si adagiano, in una sorta di albergo notturno. «Che bello!», «Ma quello è un pianeta?», «E la luna quando sorge, don?», «Com’è che si chiama quella stella così bianca?», «Guarda un satellite, ci sta fotografando!».
Li osservo in silenzio. Passo in mezzo a loro, invitandoli al silenzio e al buio delle torce. Pian piano il chiacchiericcio si estingue, restano solo alcune risatine di sottofondo. Ogni tanto, all’unisono, scoppia un «Oh!» di meraviglia: il cielo estivo è generoso di stelle cadenti. Ma ancor più delle scie luminosissime e fugaci, il chiarore del firmamento ha attratto la mia e la loro attenzione. Ha destato il cuore riconoscere la Via Lattea nella quale siamo immersi, e riconoscere il Grande Carro, così basso in estate e parzialmente nascosto dalle imponenti Dolomiti. Dall’ultimo dei suoi puntini, risalire alla Stella Polare è un gioco da ragazzi. A un certo punto, azzardo un invito alla preghiera. «Ragazzi, scegliete una stella. Adottatela, stanotte. Appendete a lei un vostro desiderio, un sogno. E chiedetele che lo porti al Creatore, Colui che l’ha forgiata».
Brillano le stelle, brillano i sogni. A volte un’intermittenza di queste e di quelli sembra generare confusione nella vita. Degli adolescenti e di noi adulti. Ma c’è qualcosa di fisso, di fermo stanotte. Che sembra infondere fiducia anche ai cuori più traballanti. Sento che il silenzio è abitato dallo stupore, in quella marea di sagome indistinguibili. Poi, allargando lo sguardo, vedo una scena che mi punge e m’interroga. Tra i ragazzi distesi, ce n’è uno a pancia in giù, la testa appoggiata alla coperta, gli occhi chiusi. Non guarda le stelle, dorme. O sonnecchia. Sembra che la meraviglia di quel cielo non lo attragga. Conosco bene quel ragazzo. So qualche pagina della sua storia e delle sue lacrime. Forse aveva per davvero del sonno da recuperare dalle notti precedenti (un po’ di confusione da camerata non manca mai!), forse era di cattivo umore o non aveva voglia, e basta. Eppure quella faccia rivolta alla coperta mi resta conficcata nel cuore. Quasi un atto di protesta. Un boicottaggio della vita che scende da lassù e che noi non possiamo procurarci in nessun modo. Come se persino il cielo fosse un disegno troppo grande da contemplare per lui; e parlare di sogni e futuro e promessa e bellezza fosse un discorso troppo impegnativo. Penso che non lo sia, affatto. Penso che un libro aperto alla pagina del cielo stellato sia un ottimo suggerimento per una ‘buonanotte’ che si rispetti, per chi ha la vita davanti, e sogni e paure mischiati insieme nel cuore. Un cuore dove abita la fede e la diffidenza, e dove Dio talvolta sembra nascondersi. Come aveva promesso, ad Abramo e alla sua discendenza. Mi sovvengono in quell’istante le parole del Magnificat che qualche ora prima avevo pregato. C’è anche D. tra quella discendenza. Anche se adesso lui le stelle non le guarda. Un compito troppo arduo, quando qualcuna di esse si è già spenta dentro. «Sono loro a guardarlo», mi dico. E prima di riprendere la strada di casa, abbozzo un sorriso che sa di speranza. Un giorno si girerà a pancia in su, ne sono certo.  (don Fabio Mantese)

 

 

 
 
 

Li ho incontrato anche io,  in questi anni di insegnamento, i ragazzi a pancia in giù . Ragazzi a volte sospettosi se non palesemente insofferenti di fronte alle mie provocazioni ad andare “oltre”, a non fermarsi a giudizi scontati e facili. Si fa veramente fatica a suscitare nei ragazzi la meraviglia che ti fa contemplare il cielo, ma senza la speranza che prima o poi quello sguardo di chi appare assente, svogliato, irritato, si volgerà in su, si fallisce come educatori e come insegnanti (non solo di religione).