Abigail, l’accoglienza che costruisce la pace

Se pensiamo ai personaggi della Bibbia possono venirci in mente alcuni nomi. Difficilmente saranno di donne. Peccato che la Storia in generale racconti tanto di uomini e poco di donne. Le donne sono sempre rimaste in ombra, oppure, nella storia scritta dagli uomini, hanno rivestito ruoli ambigui o poco edificanti.
La Bibbia sembrerebbe in linea con questa posizione, ma solo per chi ne avesse una conoscenza scarsa o frammentaria.
Leggiamo cosa ha scritto in proposito Matteo Liut in Popotus del 17 ottobre 2019.
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Nelle Scritture le donne hanno un posto rilevante e molto spesso sono loro, attraverso le scelte che fanno, a permettere al progetto di Dio di realizzarsi. L’elenco dei personaggi femminili nei racconti biblici è molto lungo e contiene circa 150 nomi (senza contare le numerose donne che vengono citate solo nel loro ruolo, per esempio, di mogli) e tra di esse alcune sono protagoniste di storie affascinanti, che ancora oggi hanno molto da insegnare sulla bellezza e sulla complessità del genere umano, di quell’umanità che Dio, che è un padre saggio, ama infinitamente come solo una madre sa fare. Se pensiamo alle donne della Bibbia, ci vengono subito in mente Maria, Eva, le donne che appartenevano al gruppo dei discepoli di Gesù, oppure alle antiche progenitrici del popolo di Israele come Sara. In realtà esistono numerose storie meno conosciute, ma altrettanto preziose, come quella di Abigail, donna saggia e delicata, che evitò al futuro re di Israele, Davide, di compiere un atto violento in cui avrebbero perso la vita molti uomini.
Abigail era la moglie di Nabal, un uomo molto ricco grazie soprattutto alle sue greggi, ma che era un presuntuoso a cui piaceva ubriacarsi troppo spesso. Mentre si trovava nel deserto, in difficoltà a causa dello scontro aperto con il re Saul, Davide mandò alcuni suoi servi da Nabal, che in passato aveva ricevuto aiuto e protezione dal futuro re, per chiedergli delle provviste. L’uomo, però, li cacciò via in malo modo e quindi Davide, offeso dall’inatteso rifiuto, decise di andare da Nabal con 400 uomini e uccidere tutti i maschi della sua famiglia.
Per fortuna, però, uno dei servi avvisò Abigail, che comprese subito l’enorme pericolo e, senza indugio, decise di agire per il bene dell’intero gruppo familiare.
Aiutata dai domestici, caricò su degli asini molto pane, due otri di vino, cinque pecore e poi ancora grano, uva, fichi secchi e andò incontro a Davide. Quando lo raggiunse gli disse più o meno: «Ti prego di perdonare mio marito, che è inaffidabile, io non sapevo che c’erano i tuoi uomini altrimenti li avrei accolti come si deve». Davide rimase colpito a tal punto che decise di non attaccare Nabal e, quando Abigail poco dopo rimase vedova, la sposò: aveva riconosciuto in lei la capacità di costruire la pace curando l’accoglienza.



L’ora di religione è anche per chi non crede

Se è messa alla prima o all’ultima ora forte è la tentazione di entrare dopo o uscire prima. Oppure non avvalersi diventa una presa di posizione contro il prof che non ci sta a non fare niente o a permettere che i suoi studenti facciano quello che vogliono. Disciplina debole richiede alunni forti. Forti nella consapevolezza che eliminare è sempre privarsi di qualcosa, che il confronto (come a volte lo scontro) è sempre meglio dell’indifferenza, che, se proprio non se ne condivide l’impostazione, si può chiedere un’alternativa culturalmente significativa.
Scegliere religione a scuola, anche se non si è credenti, è una buona scelta.
In questo video vengono elencate 7 buone ragioni.

La conoscenza arricchisce. Anche quella religiosa.

Alcuni giorni fa appariva la notizia di un imam che, laureato in teologia, avrebbe potuto insegnare religione cattolica. Come al solito, o meglio, come qualche volta capita, i giornalisti prendono lucciole per lanterne. La notizia è imprecisa, ma messa così ha avuto senz’altro risonanza tanto da essere ripresa anche oltralpe.
 Hamdan Al Zeqri ha 33 anni, è un ex profugo yemenita arrivato in Italia 16 anni fa ed è diventato dottore in Scienze religiose. Un titolo che non gli serve per fare l’imam, ruolo che già ricopre nel carcere fiorentino di Sollicciano dopo aver fatto il mediatore culturale. Ma neanche per fare l’insegnante di religione, come invece sostiene il giornalista che riporta la notizia, perché le competenze richieste ad un docente di religione vanno oltre l’acquisizione di un titolo accademico.
L’iscrizione di Hamdan Al Zeqri alla Facoltà teologica, come egli stesso riferisce al Corriere Fiorentino e a Repubblica edizione Firenze, è stata voluta dalla comunità islamica fiorentina per rafforzare il dialogo interreligioso, anche attraverso la conoscenza diretta della religione cristiana. Pensate che i suoi studi sono stati sostenuti economicamente dalla Curia diocesana fiorentina.
«Molti dei miei migliori amici sono preti – ha detto l’imam laureato in Scienze Religiose – è stata un’esperienza per andare oltre gli stereotipi e pregiudizi, per conoscere gli altri oltre i luoghi comuni». Questa storia conferma quanto sostengo da tempo: la conoscenza arricchisce la persona, offre la possibilità di avere uno sguardo diverso verso il mondo, costruisce ponti e abbatte muri.
Anche la conoscenza della religione contribuisce a questo, perché di conoscenza si tratta e non di adesione ad una fede, come nel caso di Hadman. Così anche a scuola, dove l’insegnamento della religione cattolica è una proposta culturale, con obiettivi e finalità che sono propri della scuola.
Si tratta quindi di una disciplina che va affrontata seriamente, come tutte le altre, e che è affidata a docenti laureati a conclusione di un percorso di studi in cui hanno affrontato in modo rigoroso il fatto religioso così come è stato espresso da una religione, quella cattolica, che è una chiave per comprendere la storia, l’arte, i costumi e le tradizioni del popolo italiano.
Mi viene da aggiungere, cari ragazzi, che vi capisco quando, inserita alla prima o ultima ora, vi viene la tentazione di non avvalervene, guadagnando un’ora in più di sonno o anticipando il rientro a casa. Riflettete però seriamente, anche sulla base della storia che vi ho riportato, che rinunciandovi vi priverete di una chiave di interpretazione del mondo in cui vivete. Se ne può anche fare a meno – dirà qualcuno di voi – ma la rinuncia di una opportunità conoscitiva è sempre una privazione quando l’alternativa è il disimpegno.
Non me ne vogliate se insisto, ma questo mondo così frammentato e spesso astioso ha bisogno di menti formate a comprendere, a interrogarsi, a cercare il senso. Dobbiamo avere il coraggio di confrontarci con chi è diverso e di uscire da un atteggiamento infantile che porta grandi e piccoli ad accettare solo quello che ci sembra utile e ci piace e a rifiutare tutto quello che ci mette in discussione o ci appare scomodo.
Abbiate il coraggio di volare alto, di non accontentarvi di essere polli, (sto citando uno scrittore formatosi dai gesuiti – della serie “religione docet”), ma di essere aquile, in dimestichezza con il Cielo.

Alla scoperta delle radici: proposta per il Primo Liceo

E’ affascinante la ricerca delle prime esperienze del sacro nella storia dell’umanità.
Il sacro, che è legato alla capacità simbolica dell’uomo, è anche espressione della nascita del pensiero umano. Tanti ciottoli di pietra tagliata solo da un lato, scoperti accanto a crani umani di due milioni di anni fa nella regione di Olduvai in Tanzania e a est del lago Turkana in Kenia, sono le tracce più antiche dell’ Homo habilis. Le tracce primordiali del pensiero.
«La scelta del materiale per solidità, qualità e colore dimostra che quest’ uomo sa progettare, sa come fabbricare un utensile, ha un’ idea di simmetria e quindi ha una nozione del simbolico», spiega Julien Ries, antropologo di fama mondiale, studioso del sacro, sacerdote e docente per tre decenni alla Università cattolica di Nuova-Lovanio. Dove c’è coscienza simbolica, c’è anche la prima esperienza del sacro: l’ Homo symbolicus è Homo religiosus.
Symbolon in greco è una tessera spezzata in due parti. Rimettendole insieme, due persone si riconoscevano. Simbolo è quindi un oggetto visibile che al tempo stesso rimanda ad una realtà che non si vede. Il simbolo è essenziale per l’ identità dell’ uomo. Partendo da una cosa che si vede rimanda ad una realtà che sorpassa l’ essere umano e che per questo è definita Trascendente. Certamente la nozione del Divino è stata successiva alla scoperta di questa realtà che ci trascende, ma vi è strettamente collegata. Se l’uomo non fosse dotato di capacità simbolica non potrebbe avere il pensiero di Dio.
Il mondo occidentale d’oggi sta perdendo il senso del sacro non perché sia diventato incapace di pensiero simbolico, ma perché sta perdendo il valore del simbolo come richiamo alla realtà più profonda dell’esistenza. Questo non comporta una ricchezza o maggiore libertà per l’uomo, ma il rischio di non riuscire a capire dove trovare risposte al nostro grande desiderio di salvezza, finendo intrappolati in promesse di felicità inadeguate.
Questa premessa è per introdurvi, alunni di Primo Liceo, alla proposta didattica che ci porterà ad  acquisire alcuni vocaboli del linguaggio religioso e a scoprire come gli uomini e le donne d’Europa hanno espresso la relazione con il Divino. L’Europa ha profonde radici religiose ed il Cristianesimo ne è una. Difficile negare che sia anche quella che ha segnato di più la storia del nostro Continente.
Per disporre del materiale da consultare, cliccate sull’immagine.


Giada e la vita

Giada Mulazzani ha 33 anni ed è da 15 anni che è paralizzata dal collo in giù.
«Questi sono i regali che ci fa il sabato sera in discoteca», disse il primario dell’ospedale di Treviglio, in provincia di Bergamo, la notte del 16 gennaio 2005, quando l’automobile guidata dal suo amico Charlie sfrecciò fuori strada uccidendolo sul colpo e sbalzando fuori Giada, allora 19 anni.
«Passo le giornate intere a chiedere. Apro gli occhi la mattina e aspetto di essere girata, quindi mi lavano, mi coprono di crema, mi vestono… successivamente mi ridanno la voce che, per motivi sanitari, mi viene tolta poco prima di addormentarmi. Ci sono una cinquantina di operatori che ormai conoscono il mio corpo meglio di me. Vivo in questo centro con altre 39 persone disabili gravi come me che, a differenza di chiunque di voi, io non ho scelto…».
Ha scritto un libro, Ricomincio dal mio sorriso, che è stato presentato al Teatro Nuovo di Treviglio, «la città dove ho vissuto gli anni veri della mia vita, diciannove». Nel libro svela la ragazzina ombrosa che era, «pronta per spaccare il mondo ma anche ribelle fino a farsi bocciare tre volte alle superiori e due a scuola guida, la classica “è intelligente ma non si impegna”.
Tre anni fa ha voluto andare a Roma per incontrare papa Francesco, «lui sì è tosto, promosso a pieni voti». Voleva raccontargli la sua storia ma la voce le è mancata, «non perché gli infermieri me l’avessero tolta ma per l’emozione. Mi guardava con tale interesse e profondità che sono riuscita a dirgli solo l’essenziale, ovvero “sono Giada”. Mi ha abbracciata e mi ha chiesto di pregare per lui… solo che non so farlo nemmeno per me».
Vorrebbe fare la dura, invece è un misto indefinibile di dolcezza e saggezza, due qualità maturate su quella sedia a rotelle che guida con la bocca. Basta che qualcuno le avvicini alle labbra il joystick e lei, senza smettere di sorridere, dirige la sedia, governa il cellulare, va sui social, gira per Inzago… «sempre con qualcuno, però, perché se si staccasse il ventilatore guai! Mi è già capitato e che panico quei 40 secondi…». Attaccata alla vita, più di quanto non creda.
«Non mi sono mai disperata, la sola cosa che mi fa male è pensare di essere di peso. Quando sei sano ti pare che non potresti mai vivere così, invece poi ti cambia la prospettiva e lo accetti… Mi dicono che faccio molto per gli altri, che do forza a voi, che sono un grande esempio, beh, ne farei volentieri a meno», ride, poi torna seria: «In una scuola una ragazzina mi ha chiesto se piuttosto che stare così non sarebbe meglio morire. Le ho risposto che finché amo e sono amata sono contenta di vivere. Mi piace ancora il sole, risentire i profumi e i sapori grazie allo stimolatore diaframmatico che mi permette di stare ore senza respiratore, persino di fumare e mangiare la pizza con gusto. Solo due cose possono farci chiedere di morire: il dolore fisico e sentirci un peso per gli altri, toglietecele entrambe e la vita sarà bella anche per noi».

Adattato da Giada, che vive da dentro, di Lucia Bellaspiga in Avvenire del 6 ottobre 2019.

https://giornaleditreviglio.it

Credere in qualcosa o in qualcuno?

Dobbiamo credere in qualcosa, dice Steve Jobs. In qualcosa o Qualcuno? aggiungo io.
Una frase, attribuita a Gilbert Keith Chesterton, recita così: «Chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente perché comincia a credere a tutto».
Ma in quale Dio credere? Non è assolutamente irrilevante per la nostra vita come pensiamo o non pensiamo Dio. Forse è anche per questo che la ricerca del volto di Dio accompagna da sempre l’uomo, tanto che dalla visione antropomorfa comune a tante esperienze religiose (come quelle, ad esempio, dell’antica Grecia o dell’antica Roma), siamo passati per un divieto assoluto, come nelle religioni ebraica e islamica, di rappresentare il divino. La ricerca del volto di Dio è espressione del desiderio di conoscere Dio come egli realmente è.
Pensate che nell’Antico testamento il termine “volto” ricorre ben 400 volte e di queste ben 100 sono riferite a Dio.
Cosa vorrei proporvi attraverso questo percorso? Un cammino per certi versi provocatorio, perché vorrei stimolarvi ad una riflessione sul “problema” Dio passando per la Genesi (racconto della Creazione) per arrivare all’atteggiamento di un ateo aperto a Dio, come il nostro premio nobel Dario Fo. Cercheremo  di cogliere più in profondità qual è il “volto” di Dio che possiamo ricavare dalla Bibbia e perché l’atteggiamento di fede è connaturale all’essere umano. Saremo aiutati in questa riflessione da un film e dai tanti spunti che potete trovare cliccando sull’immagine.



C’è un tempo per ogni cosa

Mio padre mi diceva sempre: “Chi ha tempo non aspetti tempo”.
Da militare che era, mio padre sapeva chiaramente che lo spreco di tempo non è una strategia vincente e che anzi anticipare i tempi a volte ti consente di ottenere i risultati che speri. Sprecare il tempo, insomma, per lui era un crimine che non aveva scusanti. L’idea che si potesse perdere tempo era mille miglia lontana dalla sua formazione umana e professionale.
Devo dire che ho introiettato questo suo pensiero e adesso che ho alle mie spalle tanto tempo vissuto non voglio assolutamente buttare via quello che mi rimane. Ma cosa fare del tempo che abbiamo a disposizione? Che senso ha questo tempo che passa? Che senso ha il desiderio di eternità che ci portiamo dentro?
Ricordate? La vita non è abbastanza, scriveva Kerouac. A dirla in altra maniera possiamo aggiungere che il tempo non basta mai. Oppure che non passa mai, se ciò in cui siamo intenti non ci appassiona ma anzi ci annoia a morte.
Se provate a cercare la parola “tempo” nella Bibbia trovate circa 500 corrispondenze. Non so se sia un numero significativo, ma indubbiamente la parola tempo attraversa sia l’Antico che il Nuovo Testamento. Spesso trovo l’espressione “in quel tempo” a indicare che la storia dell’uomo si colloca in un momento preciso. Nel pensiero biblico non si tratta però solo della storia dell’uomo, ma della storia di un incontro tra Dio e l’uomo. La rivelazione di Dio avviene infatti in un tempo e un luogo definibili. Non è mitologia, ma storia. Storia della Salvezza, a dirla con le categorie della religione ebraica e cristiana.
C’è un tempo per ogni cosa, dice il Qoelet, ma non per giustificare un atteggiamento fatalista, rassegnato o della serie “cogli l’attimo” qualunque esso sia. L’idea di fondo che traspare dal Qoelet, cap. 3, è che niente è frutto del caso, ma esiste un progetto, un disegno superiore, soltanto che all’uomo non è dato conoscerlo se non a sprazzi. L’invito a godere del tempo è allora invito a cogliere le cose belle che Dio ha fatto per noi. Se è fuor di dubbio, sempre secondo il pensiero biblico, che questo progetto esiste come è vero che Dio esiste, è anche vero che l’uomo è chiamato a riconoscerne  i segni nelle situazioni e nei momenti dati nella vita di ogni giorno.
La proposta che vi faccio, come avete senz’altro capito, ha per oggetto la riflessione cristiana sul tempo per arrivare a considerare che il tempo che ci è dato ci chiede di fare delle scelte, a volte dolorose e difficili, ma che sono espressione della volontà di non buttare via il tempo e che del tempo sprecato, o usato male, dobbiamo rendere conto non solo a noi stessi, ma anche agli altri e per chi crede, anche a Dio, Signore del tempo.
 Cliccando sull’immagine avrete accesso ai materiali oggetto di studio e riflessione.


Parlare di Gesù oggi ha senso?

Alla mia richiesta di individuare delle tematiche da affrontare nel corso dell’anno alcuni alunni del Secondo Sportivo mi chiedono di parlare di Gesù. Chiesto il  perché, nessuno proferisce parola. Sgamati! 😀
Si scopre che era così, tanto per scrivere qualcosa.
A provocazione, rispondo con altrettanta provocazione, sollevando la domanda:
Parlare di Gesù, oggi, ha ancora senso? 😏
Duemila anni fa, il messaggio di Gesù si diffuse con una velocità impressionante, forse anche perché corrispondeva alle esigenze più profondamente culturali e antropologiche del tempo. E oggi? Assistiamo allo svuotarsi delle chiese, ad una “corrosiva” secolarizzazione che sta rendendo l’Europa un Paese scristianizzato.
Possibile che il Vangelo non abbia più nulla da dire?
O siamo noi ad essere diventati ciechi e sordi?
La proposta che vi faccio, ragazzi del secondo, si propone di riflettere proprio sulla figura di Gesù per interrogarsi sul senso che il Vangelo può avere anche per l’uomo di oggi. Ovviamente non vi viene chiesta un’adesione di fede, ma di mostrare disponibilità ad affrontare l’interrogativo proposto con lo stesso spirito di chi fa un’inchiesta per cercare di capire.
Cliccando sull’immagine potete accedere ai materiali e spunti utili al percorso.