La via del perdono

Il perdono come unica strada possibile?
Riporto alcuni stralci dell’intervista di Antonio Giuliano, apparsa su Avvenire del 23 novembre, allo psicologo Camillo Regalia, ordinario di Psicologia sociale alla Cattolica di Milano.

Da Shakespeare e Tolstoj a Puccini e Bergman: lei spesso cita i capolavori della letteratura, del cinema o dell’opera per ribadire che la decisione di perdonare o meno riguarda l’uomo di ogni tempo.
Da sempre nelle nostre vite abbiamo da perdonare o essere perdonati. Ogni persona avverte il bisogno di sentire dagli altri uno sguardo diverso. In fondo il perdono è uno sguardo diverso che tu dai a un altro: c’è chi può non farsene niente, ma è difficile rimanere del tutto insensibili. Perché il perdono può bloccare una catena di risentimento, di rabbia e di malessere che spesso impedisce a chi ha subito una ferita di poter tornare a vivere. E può rilanciare i rapporti sociali. Senza però intendere il perdono come “dimenticanza”. Perdonare non vuol dire infatti dimenticare, ma non rimanere prigionieri del passato.
Perché oggi c’è bisogno di una cultura del perdono?
Per riconoscere innanzitutto che le persone spesso, anche se non sempre in maniera consapevole, feriscono e fanno star male gli altri. Viviamo in un tempo in cui si è amplificato un bisogno fondamentale dell’uomo, quello di socialità. L’esplosione dei social ci fa pensare che abbiamo sempre più necessità di stare con gli altri. Ma spesso nella relazione prevale solo il bisogno del singolo a discapito della reciprocità. Oggi le persone si sentono più autorizzate a comportarsi in maniera strumentale con gli altri. E se trattiamo l’altro come mezzo e non come fine, come già ammoniva Kant, la possibilità di ferire, di ingannare o di far male aumenta. Spesso l’incremento delle relazioni si accompagna a questi conflitti e queste tensioni.
È facile parlando di perdono scivolare nel buonismo…
Trovo insopportabile il “perdonismo”: i perdoni dati e richiesti troppo facilmente, senza consapevolezza di ciò che è stato. Il perdono è un percorso che richiede tempo. È un dono e quindi non può essere preteso. In una società come la nostra che va di fretta spesso sentiamo persone che commettono atrocità incredibili dire: “chiedo subito perdono”. Ma il perdono ha i suoi tempi che sono di sofferenza, sia per chi ha subito il danno che per chi l’ha inferto. Richiedono l’attraversamento di un deserto che può essere breve ma anche tanto lungo. E l’attraversamento non è scontato. Di fronte a chi perdona subito o chiede di essere perdonato subito ho sempre un po’ di perplessità.
A volte la reazione a un torto subito può essere feroce. 
Ci sono ferite che mettono in discussione la tua identità e ti umiliano e suscitano reazioni di fuga o spesso di vendetta. Sono reazioni “comprensibili”: a me sembra strano infatti che chi subisca un torto grande non provi rabbia o non desideri, magari non necessariamente la vendetta, ma comunque di restituire all’altro qualcosa “per farsi giustizia”. Il punto è che se poi ti vendichi, ti metti in una condizione di ulteriore tensione con la persona con la quale ti sei vendicata, perché l’aggressività scatena altra aggressività. C’è il rischio che non termini mai questa spirale perché si rimane prigionieri di un sentimento negativo.
Lei ha studiato da vicino anche i casi dei parenti delle vittime degli Anni di piombo.
Sì anche se qui bisogna riconoscere il risvolto pubblico del perdono. Spesso non si perdona fin quando non viene fatta piena luce su ciò che è successo così come diventa difficile perdonare quando manca l’assunzione di responsabilità di chi ha commesso i delitti. Alcuni però sono riusciti nel tempo a perdonare. Come una persona che aveva perso il papà poliziotto: dopo anni ha detto “basta, non posso vivere più con questo odio, non è più vita”. E da lì è cominciato un percorso che l’ha portato anche a incontrare gli assassini. Ha sperimentato la sensazione di liberazione del perdono: fin quando continuo a cercare la vendetta nei confronti di qualcuno sono legato a lui. Se invece riesco a rompere questo schema, mi sento libero con me stesso. Poi non è detto che al perdono debba seguire la riconciliazione. Il perdono è un atto personale e posso anche perdonare una persona che non c’è più, perché mancata o lontana, o ritenere che non sia opportuno ripristinare un rapporto con chi mi ha ferito.
Ci sono delle offese imperdonabili?
Per alcuni filosofi ci sono dei delitti, come la Shoah, che sono imperdonabili. Eppure ci sono persone che hanno subito e vissuto quelle esperienze che affermano di avere perdonato. Io dico che ci sono sicuramente eventi che rendono molto difficile perdonare. Però c’è anche chi riesce a perdonare l’uccisione di un figlio. Entrano in gioco tanti fattori, ma dai lavori di ricerca emerge che un ruolo decisivo può giocarlo la fede. Soprattutto il cristianesimo, la religione che più di altre ha messo al centro del suo messaggio il concetto di perdono. Anche se la fatica e il percorso del perdono valgono anche per chi ha una fede autentica e profonda.
Si può imparare a perdonare?
Non si può insegnare come una materia scolastica, ma certamente si possono educare sin da subito i bambini a riconoscere che tutti possono fare del bene e anche del male, ma che il male o le sofferenze non sono mai l’ultima parola. Che le persone possono anche deluderti o ferirti ma che esiste una risposta diversa alla rabbia o alla vendetta. E che alla fine perdonare “conviene”: per te perché ti liberi dentro, per l’altro perché gli dai un’opportunità, per la società perché rende probabilmente meno conflittuali i rapporti e anche per il legame di coppia perché si ha se non altro una chance in più.
Sulla coppia ha scritto un saggio interessante Ci perdiamo o ci perdoniamo? (San Paolo) in cui spiega che il matrimonio è in fondo «l’unione di due persone che imparano a perdonarsi ». 
Anche in questo caso perdonare offese gravi, come violenze o tradimenti, può essere davvero difficile. Dipende da tanti fattori come la cultura e l’educazione ricevuta e la qualità del legame. E ci si può far influenzare dal contesto odierno per cui le separazioni sono ritenute una facile opportunità. Dico però che se l’amore fosse solo narcisismo, come sembra suggerire Freud, spazio per il perdono non ce ne sarebbe. Il narciso non può accettare che qualcuno lo ferisca. E invece solo chi accetta la propria e l’altrui debolezza è capace di perdonare. Bisogna maturare la consapevolezza che ogni amore è imperfetto e che il perdono è come la crepa nel muro di cui parla Cohen in una canzone: le offese e i risentimenti creano dei muri, ma il perdono è una crepa che può far passare una luce nuova, capace di aprire un’altra prospettiva.

Czeslawa Kwoka, morta a 15 anni

Quando i tuoi occhi incontrano gli occhi del’altro come fai a non riconoscervi te stesso?
Non sto vaneggiando, ragazzi, ma non faccio altro che ripetere, questa volta in modo diverso, quanto diceva la canzone con cui abbiamo aperto l’anno scolastico. Ricordate? “Io sono l’altro” è il brano di un cantautore italiano che, in un certo senso, sta facendo da sfondo a tutte le proposte dell’ora di religione di questo anno scolastico.
“L’altro” che oggi vi propongo è una persona reale: una ragazzina poco più grande di voi.
Una ragazza poco più grande, al tempo della foto, anche di Liliana Segre, che già conosciamo e che allora di anni ne aveva tredici (come molti di voi, oggi).
Le cronache di questi giorni continuano, purtroppo, a raccontarci di intimidazioni, minacce e commenti indegni rivolti alla signora Segre, come se la barbarie di allora non avesse rinunciato ad appestare i pensieri di tanta gente.
Come si fa, guardando gli occhi di questa ragazza, a rimanere indifferenti?


CZESLAWA KWOKA – MORTA AD AUSCHWITZ A 15 ANNI. 
Non tutti i volti dei prigionieri, immortalati nelle fotografie durante il periodo di internamento nei campi di sterminio, hanno un nome. Anche se vogliamo ricordarli comunque, uno a uno. Queste fotografie, però, appartengono a una bellissima ragazza di 15 anni; Czeslawa Kwoka. 
Tutto quello che ci resta di Czesɫawa Kwoka è una serie di tre scatti che la inquadrano durante la sua prigionia nel campo di sterminio nazista di Auschwitz- Birkenau. Ci arrivò nel dicembre del 1942 insieme alla madre, ci morì nel marzo 1943 (un mese dopo la mamma) e non aveva ancora 15 anni. 
In questi scatti Czeslawa guarda dritto nella fotocamera del fotografo. Il fotografo è un prigioniero, polacco: un ventenne di nome Wilhelm Brasse, il cui gesto di ribellione al nazismo fu quello di non bruciare l’archivio fotografico che aveva contribuito a creare. 
Lo sguardo si Czeslawa è forte, determinato. Ma al contempo così puro. Una straordinaria bellezza da far male. Degli occhi asciutti dalle lacrime, che aveva versato poco prima. Si nota subito, negli scatti, un graffio sul volto. La spiegazione della ferita al labbro l’ha spiegata successivamente il fotografo: «Era così giovane e terrorizzata. La ragazza non capiva perché si trovasse lì, e non riusciva a capire quello che le era stato detto. Quindi una donna Kapo’ (chiamata anche Blokowa) prese un bastone e la picchiò sul volto. Questa donna tedesca stava sfogando tutta la propria rabbia sulla ragazza. Una bella ragazza, così innocente. La ragazza pianse, ma non poteva far niente. Prima che le scattassi la fotografia, la piccola si asciugò le lacrime e il sangue dal taglio sul labbro. A dire la verità, mi sono sentito come se fossi stato colpito io stesso, ma non ho potuto interferire. Sarebbe stata un’interferenza fatale. Non potevi dir nulla» 
Fonte: pagina FB di Un ponte per Anne Frank

Libertà è fiducia. Come sul trapezio.


Cos’è la libertà? Cosa significa essere liberi? Provo ad adattare un bellissimo articolo pubblicato su Avvenire del 6 novembre 2019, tratto dall’ultimo volume del sociologo Mauro Magatti (Non avere paura. La libertà al tempo dell’insicurezza, Mondadori) per i “miei” alunni più grandi.

 Abbiamo imparato a raccontare la libertà come qualcosa da conquistare una volta per tutte o, peggio ancora, da «possedere». E invece, per sua intima natura, la libertà è proprio ciò che sfugge alla presa. Se la fermassimo, se la stabilizzassimo, non ci sarebbe più. Uccisa dalle pretese del controllo. Ciò però non significa che la libertà possa esistere solo nel magico istante della scelta; al contrario, riducendola all’ebbrezza di questo suo momento primo, d’esordio, le si impedisce di compiere il suo vero scopo: rigenerare il mondo facendolo sempre nuovo e, per questa via, affezionarsi. Così da trasfigurare – pur senza eliminare – la sua originaria solitudine.
La libertà sa ingaggiarsi con la realtà, è capace di abitare il limite di ciò che crea, senza rimanerne prigioniera. La libertà non è, insomma, solo e soltanto liberazione da ogni catena, perché la libertà è qualcosa di più: un compito eccitante ma anche difficile e doloroso.
La libertà non è mai solo un affare individuale, ma sempre e fondamentalmente una relazione. Aperta. Che prende forma dentro ordini sociali, culturali e istituzionali. Quel che sappiamo è che, guardando lo stato del mondo, non possiamo più nasconderci dietro la nostra presunta innocenza: come non vedere che tutta la libertà che abbiamo liberato produce effetti distruttivi che ci ricadono addosso sotto forma di disuguaglianza sociale, crisi po-litica, distruzione dell’ecosistema?
La libertà è uno stile, un habitus, un modo di stare al mondo che un po’ per volta, con fatica e insieme agli altri, si può imparare ad assumere. La configurazione dei movimenti che la libertà richiede richiama in particolare la figura del trapezista che si lancia nel vuoto superando il senso di vertigine che lo cattura, guardando avanti. Decidersi a iniziare, ad abbandonare la certezza della piattaforma sulla quale i piedi sono ben piantati è qualcosa che nessuno può fare al nostro posto. Occorre amare profondamente la vita e intuire che ne possiamo essere autori ma non padroni. Rotti gli indugi e lanciati nell’azione, si può sentire l’eccitazione della vita che ci viene addosso. L’aria che accarezza il volto e passa tra i capelli, trasmettendo un senso di onnipotenza che può essere fatale. Per non cadere, è essenziale essere allenati e mantenere la presa sul trapezio, assecondandone le oscillazioni e impegnandosi a condizionarle, per quanto possibile. Tuttavia, perché l’esercizio possa riuscire, viene il momento in cui l’acrobata deve avere il coraggio di lasciare la presa, una volta che il trapezio, al culmine della sua parabola, lo ha portato in alto. È lì, in quel preciso istante che la magia della libertà può finalmente compiersi in tutta la sua grazia: in quel volteggio mirabolante e straordinario che solo la sospensione aerea, prodotta dal coraggio di «lasciar andare », rende possibile. E tuttavia, per quanto possa essere compiuto solo grazie a un pieno e assoluto coinvolgimento personale, questo movimento non è mai semplicemente individualistico. Il trapezista lascia andare, consegnandosi alla sospensione nel vuoto in cui può eseguire i propri avvitamenti, rotazioni e torsioni, nella convinzione che troverà ad attenderlo al termine della sua esecuzione le braccia tese del suo compagno, in bilico su un altro trapezio, ad afferrarlo, strappandolo a una caduta altrimenti inevitabile. L’atto del lasciar andare sarebbe dunque impossibile senza una profonda fiducia nell’altro.
Come ogni acrobazia, anche la libertà ha le sue regole che occorre conoscere: richiede metodo e preparazione così come coraggio, creatività e passione, senza cui si diventa soltanto meri esecutori. E come in ogni esercizio, è importante essere aperti alla contingenza, saper adattare il copione sulla base della pluralità imprevedibile delle situazioni. Alla fine occorre lanciarsi e lasciarsi andare, vincendo anche la paura di essere guardati e giudicati, giacché se ci lasciamo bloccare dal timore del giudizio non avremo mai la possibilità di esprimere concretamente chi siamo e di cosa la nostra libertà è capace. Per essere buoni acrobati occorre essere leggeri e decisi, senza mai irrigidirsi ma sapendosi adattare al movimento altrui. Occorre avere intuito, reagire con prontezza, fidarsi di sé e degli altri, imparando a guidare e a seguire, senza voler avanzare a tutti i costi, sapendo invece fare un passo di lato, quando serve. A volte fermarsi e ricominciare. Non si tratta tanto di essere spontanei, quanto di essere pazienti e umili, accettando che il lungo percorso di apprendimento non giunga mai a compimento, ingaggiandoci per l’intero arco dell’esistenza: un percorso fatto di prove, allenamenti, errori, fallimenti. Dove si cade mille volte. Ma dove ogni volta ci si può rialzare, specie se avremo avuto cura di salvaguardare le reti sociali primarie e di edificare solide reti istituzionali. Vivere acrobaticamente non tollera alcun autocompiacimento. Quando ci si illude di aver imparato ogni passo e di avere tutto sotto controllo, il rischio di sbagliare è più alto.
Desiderata e praticata, la libertà sorprende e spiazza. Sempre. Se riusciamo a riconoscerla è perché un bel giorno, voltandoci indietro, ci possiamo accorgere di un movimento insperato e imprevedibile che ha cambiato il corso della vita. Questa è la libertà.