Leggeri sì, ma non superficiali

Ve lo confesso: una delle cose che più non sopporto è la superficialità. Con questo non voglio dire che non c’è spazio per la leggerezza. Ma un conto è la leggerezza è altra cosa è la superficialità. 
Italo Calvino, in Lezioni americane, scrive: 
Prendete la vita con leggerezza. Che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore. […] La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso. Paul Valéry ha detto: Il faut etre léger comme l’oiseau, et non comme la plume [ndr Si deve essere leggeri come l’uccello che vola, e non come la piuma]. 

Associo la superficialità al non pensare. Mi sembra purtroppo che in questo momento sia un atteggiamento un po’ troppo presente. 
 Ascoltate, da questo passaggio del film “Hannah Arendt”, di cosa sono capaci le persone che preferiscono la superficialità del non pensare.

 

Mi scusi per la piantina

 


Vi condivido una bella storia. Non recente, ma tanto bella e interessante da ispirare un corso di studi, e vorrei anche tanto che ispirasse giovani e meno giovani ad un sussulto di dignità. 
Ve ne parlo sempre a scuola: diventare umano, questo è il compito che ha ognuno di noi. Non si cresce in umanità adottando la logica del tirare a campare, ma avendo a cuore la bellezza e la straordinarietà della vita, nostra e altrui. 
Riporto l’articolo di Massimo Cutò, pubblicato su Quotidiano.net l’11 febbraio 2021. Quanti spunti di riflessione!!!

“Era il 17 giugno scorso. Il vicino di casa è venuto con un bigliettino. La calligrafia infantile diceva: buongiorno, mi scusi per la pianta, l’ho colpita accidentalmente con un pallone da calcio. Chiudeva: ecco 5 euro per il danno”. 
E poi?
“Ho fatto un tweet ed è accaduto l’incredibile. Una slot machine: 15mila like in poche ore. Ho deciso che il mio futuro ciclo di lezioni sull’etica sarebbe partito da lì”. 

Così è stato. Giovanni Grandi, 46 anni, docente di filosofia morale all’università di Trieste, ha impostato il corso su quell’episodio apparentemente minimale. E ne ha tratto un libro edito dalla Utet, intitolato Scusi per la pianta

 A proposito: ha resistito alla pallonata? 
“Sì sì, è una pianta grassa indistruttibile. Il vicino ha restituito i 5 euro”. 
Perché un fatterello da niente è diventato un caso mediatico? 
“Ha provocato un sussulto morale. Una scia virale in tempo di virus: meritava attenzione”. 
Segnale di civiltà nella maionese impazzita di oggi? 
“La prova che malgrado tutto esistono costanti positive nel nostro agire. Sui fondamentali dell’etica pubblica il riconoscimento è unanime”. 
Un bambino dà lezioni agli adulti sul bene comune: la vede come una cosa positiva? 
“È un piccolo risveglio delle coscienze. Ci portiamo dentro macerie che non riusciamo a vedere: la pandemia le ha portate a galla. Non eravamo preparati per i tempi difficili, ma almeno abbiamo preso atto degli errori”. 
Significa che siamo pronti a correggerli? 
“La diagnosi non basta. Socrate diceva: si cambia se si capisce. Paolo di Tarso al contrario ricorda che l’esigenza del bene e l’incapacità di attuarlo sono facce della stessa medaglia”. 
Il ragazzino della pallonata e i suoi compagni hanno scelto il bene pubblico. Perché a noi viene così difficile? 
“Perché in mezzo è passata la vita. Siamo feriti, è subentrato il cinismo. Il Covid ci porta a dire: nulla sarà come prima. Invece, dopo la prima emergenza, interiormente siamo tornati il copia-incolla di noi stessi”. 
Irrimediabile? 
“Ma no. La riflessione è già un primo passo. Il secondo è mettere in campo il fare. E cioè cambiare”. Come? 
 “Allenando le virtù morali. Siamo fuori forma: dobbiamo fare esercizio. Questo costa fatica”. 
Qual è lo stato di salute del bene comune? “È in crisi da un bel po’. Facciamo buoni propositi nell’enfasi emotiva, poi la tensione cala. La domanda è: a quali rinunce siamo disposti per crescere?”. Che cosa fa crescere? 
“La capacità di entrare nel dolore dell’altro uscendo da un sentire depresso. Come la madre di Gaia, sedicenne falciata sulla strada, che si immedesima nel pirata e dice: è un ragazzo anche lui”. 
Gesto nobilissimo. Ma le movide scellerate senza mascherina e le scazzottate di piazza fra bande giovanili? 
“L’irresponsabilità è figlia di scarsa meditazione: c’è un mondo silenzioso che fa dell’impegno quotidiano la propria cifra. Non sono pessimista”. 
Neppure di fronte alla violenza verbale del web? 
“I social rispondono a un rito antico: sono lo sfogatoio collettivo alla rabbia. Una zona franca per i bulli come lo stadio. Trovi i professionisti dell’insulto. Però la maggioranza cade in trappola senza rendersene conto”. 
Quanto incide la famiglia nel processo educativo? 
“È il nucleo formativo della personalità. Attenti però a non caricare i genitori di troppe responsabilità. Serve un’alleanza diffusa con i buoni maestri, persone che possono sbagliare ma aiutano ad analizzare gli eventi. I figli sono di tutti, non solo di chi li fa”. 
E la scuola? Il nostro giornale chiede da tempo un’educazione alla vita. 
“È il tema centrale. I programmi sono talmente compressi che questa materia manca. Lacuna imperdonabile”. 
Il minore dei suoi figli ha 13 anni: è uno dei tre calciatori del condominio? 
“È così. Da padre ho apprezzato il gesto riparatore”. 
Cinque euro per risarcire un danno. Il pentimento tardivo degli adulti vale lo stesso? 
“C’è chi restituisce un reperto rubato cinquant’anni prima a Pompei. E chi chiede scusa per le leggi razziali degli avi. Arrivano fuori tempo massimo. La giustizia riparativa richiede un gesto tangibile”. Viviamo nel peggiore dei mondi possibili? 
“Ci siamo accorti di una piantina offesa. Non è poco”.

Ci può essere sempre una possibilità, ovvero “credo negli esseri umani”, direbbe Dio

Ne parlavamo l’altro giorno a scuola: la nostra fede spesso o a volte vacilla, ma c’è qualcuno che crede sempre negli esseri umani. Questo Qualcuno è Dio. Lo stiamo vedendo nelle storie della Bibbia su cui ci stiamo confrontando (mi rivolgo in particolare agli alunni di prima media), che Dio ha avuto pazienza anche quando le persone da lui chiamate lo hanno tradito o non erano proprio all’altezza del compito affidato. E’ come se Dio dicesse, parafrasando la canzone che avevamo ascoltato, “credo negli esseri umani”.
Insomma, l’essere umano, anche quando sembra aver perduto la sua umanità, può riscattarsi. Questo per il messaggio biblico è possibile, perché ognuno di Dio rimane sempre “immagine di Dio”, anche quando questa immagine rimane distorta per le fragilità umane. 
Proprio per questo voglio raccontarvi la storia che ho letto in Avvenire del 26 gennaio 2021, a firma di Ferdinando Camon

[…]il comandante di Auschwitz, prima di essere impiccato, chiese di potersi confessare, gli fu concesso ed ebbe l’assoluzione. Ma detto così è detto male, con poca precisione, e qui occorre essere precisi. 
Il lager di Auschwitz fu liberato dall’Armata Rossa il 27 gennaio 1945, siamo appunto nell’anniversario della liberazione: noi italiani la ricordiamo come la racconta Primo Levi, che in quel periodo non era nel suo lager, La Buna, un piccolo lager satellite, ma era ricoverato per malattia nel campo-madre, Auschwitz 1, e questo ricovero fu causa della sua salvezza. Se fosse rimasto nel suo campo, tra i sani, sarebbe stato costretto alla marcia di trasferimento a piedi verso un altro lager, per sfuggire all’Armata Rossa che arrivava, e in quella marcia sarebbe morto, come gran parte dei suoi compagni. Ma era malato, fu ricoverato e dimenticato. Nella baracca, dove giaceva, i suoi compagni di malattia morivano a gruppi, i cadaveri venivano portati fuori e abbandonati nel cortile. 
Levi stava portando via un compagno morto quella mattina, e sul portone del lager vide arrivare quattro soldati a cavallo, con il mitra a tracolla. Non erano della Wehrmacht, erano russi. In quel punto (ci sono stato) la strada è un po’ più alta del campo, e da lì si può vedere dentro le prime baracche. Guardando dentro, i soldati videro i prigionieri scheletriti, i moribondi immobili, e chinarono la testa, in segno di vergogna. 
Penso spesso a quella vergogna, al suo significato. La risposta che mi do è questa: Auschwitz fa vergognare l’umanità intera, c’è Auschwiz e tutta l’umanità deve vergognarsi. Auschwitz è indicibile. Solo i testimoni hanno diritto di parlarne. Scrittori, registi, poeti no. Io no. Se ne parlo, uso sempre le parole di Primo Levi, non le mie. Lo scopo delle SS («Faremo cose tali, che non potrete raccontarle, perché nessuno vi crederà »), è raggiunto. 
Fra le tante imprese di barbarie compiute dall’umanità, Auschwitz è il vertice. Il comandante di Auschwitz è uno dei più grandi criminali che la storia conosca. A fine guerra scappò, ma fu rintracciato, catturato, processato, condannato a morte e impiccato. «E ciò fu giusto», scrive Levi da qualche parte. Il mite, dolce, perdonante Levi, verso il comandante di Auschwitz era per la condanna a morte. Il comandante era un bavarese, si chiamava Rudolf Hoess, scritto anche Höß o Höss o Hoeß, un nazista della prima ora, tenace organizzatore dei campi di sterminio, molto apprezzato nella gerarchia. 
Era nato cattolico, e durante gli anni del potere si dimenticò totalmente del suo cattolicesimo, ma prima di essere impiccato si riconvertì e infine chiese di potersi confessare. Gli fu concesso dai custodi polacchi, mentre gli inglesi erano contrari. Per giorni si cercò inutilmente un prete cattolico disposto ad ascoltare la sua confessione, finché lo stesso Hoess suggerì di cercare un gesuita a cui lui aveva inspiegabilmente fatto grazia della vita, dopo aver sterminato tutta la sua comunità così come aveva mandato a morire il santo francescano Massimiliano Kolbe. 
Il gesuita accettò di ascoltare la confessione del comandante di Auschwitz (inventore del gas Zyklon B, a lui veniva attribuita la responsabilità di 2 milioni e mezzo di vittime), venne e lo ascoltò: esiste una lettera del gesuita a una suora, il gesuita racconta che «la confessione durò e durò e durò», interminabilmente, finché lui pronunciò la formula dell’assoluzione chiamandolo anche con il suo terribile appellativo: «l’animale». A quel punto, il comandante scoppiò a piangere, e continuò a piangere anche il giorno dopo mentre lo impiccavano. 
Ho visto la forca, è ancora lì. Darei chissà che cosa per sentire quella confessione. Perché se fu possibile assolvere il comandante di Auschwitz, allora non c’è nessun colpevole sulla Terra che non possa pentirsi e non possa essere assolto.