Non bisogna guardare dall’altra parte se hai di fronte l’ingiustizia

Lascio questo editoriale di Michele Brambilla, pubblicato sul Resto del Carlino di mercoledì 16/03/2022, perché si collega con la tematica che stiamo affrontando a scuola. Perché la giornalista russa Marina Ovsyannikova ha interrotto il tg di Stato esibendo un cartello con scritto “No war, non credete alla propaganda, qui vi stanno ingannando”? Forse pensava che nel giro di poche ore una rivolta popolare o una congiura di palazzo avrebbe rovesciato Putin e fermato la guerra? O più semplicemente s’illudeva di cavarsela con una lettera di richiamo del direttore del personale? No, sapeva benissimo che il despota non sarebbe caduto. E sapeva benissimo a quali rischi (al di là della multa di trentamila rubli, che è fumo negli occhi) va ora incontro. Eppure, quel che ha fatto, l’ha fatto ugualmente, contro ogni speranza. Perché? Forse per lo stesso motivo per cui don Giovanni Fornasini, il parroco di Marzabotto ucciso dai nazisti a 29 anni il 13 ottobre del 1944, pedalò per chissà quanti chilometri per salvare la sua gente. Sapeva che non avrebbe potuto sconfiggere Hitler: ma quello che sentiva di fare, lo fece.
O forse Marina Ovsyannikova l’ha fatto per lo stesso motivo per cui il carabiniere Salvo D’Acquisto, il 23 settembre del 1943 alla periferia di Roma, confessò ai nazisti un attentato che non aveva commesso e si fece fucilare salvando la vita ai ventidue civili rastrellati per la rappresaglia. Aveva 23 anni e sapeva che il suo gesto non avrebbe cambiato le sorti della guerra. Ma lo fece.
O forse la giornalista russa ha fatto quello che ha fatto per lo stesso motivo per cui padre Massimiliano Kolbe, il 14 agosto del 1941, ad Auschwitz, si offrì di prendere il posto di un padre di famiglia destinato al bunker della fame. E morì a 47 anni.
O forse la Ovsyannikova ha pensato ai ragazzi della Rosa Bianca, decapitati nel 1943 su ordine di Goebbles per aver distribuito opuscoli e volantini contro la guerra di Hitler.
O forse ha pensato a quel cinese di cui neppure si conosce il nome – oltre che la sorte – che il 4 giugno 1989 si parò davanti ai carri armati del regime comunista cinese in piazza Tienanmen a Pechino.
Marina Ovsyannikova ci ricorda che esistono ancora donne e uomini capaci di un’eroica disobbedienza civile, e mostra – a chi sostiene che Zelens’kyj deve abdicare – ciò che più disturba i dittatori: l’esistenza di qualcuno che dice no. Il 20 luglio del 1944 l’ufficiale tedesco Claus Schenk von Stauffenberg cercò di uccidere Hitler per fermare la guerra. L’attentato fallì e lui fu fucilato alla schiena la sera stessa. Sua moglie Nina era incinta e partorì prigioniera della Gestapo. Nacque Konstanze, alla quale, molti anni dopo la fine della guerra, chiesero che cosa avesse imparato dalla storia di suo padre. Rispose: “Che non bisogna guardare dall’altra parte se hai di fronte l’ingiustizia”.

Un professore scrive ai suoi alunni

Cari studenti, Perdonateci se vi disturbiamo con queste due righe. In questo periodo, io e i miei colleghi vi troviamo particolarmente irrequieti e poco attenti. So che da quando stiamo vivendo questa situazione pandemica, la vostra e nostra vita è radicalmente cambiata e che dopo mesi di didattica a distanza, non vedevate l’ora di comunicare dal vivo la vostra gioia d’essere di nuovo in classe, di essere di nuovo tra i vostri amici. E se i vostri amici sono vicini a voi cosa fate? Non ci parlate? Non avete forse voglia di far sorridere gli occhi dei vostri compagni? Capiamo, che se tra voi, non vi è più un click o uno schermo, sembra quasi che dobbiate recuperare il tempo perduto durante i mesi precedenti, dove la socialità è venuta a mancare. Quella socialità che è fondamentale per la vostra crescita. Tutto questo è molto comprensibile, ma vorrei porvi alcune domande. Se non ci ascoltate, per che cosa venite in classe? Se non ci ascoltate per cosa ci siamo laureati? Se chiacchierate col vostro caro amico durante la nostra lezione, per cosa ci siamo specializzati? Per cosa abbiamo passato un complicatissimo concorso a cattedre? Se in classe pensate a cosa dovete fare più tardi, o cercate in maniera ossessiva il vostro telefonino, come possiamo noi incidere sul vostro sapere, come possiamo migliorare le vostre competenze? In classe ci siamo noi e voi. Entrambi ci siamo svegliati presto per incontrarci. Alcuni di noi molto presto, dopo aver percorso diversi chilometri e tutti noi facciamo tanti sacrifici per venire puntuali a scuola. Ma rimaniamo increduli se poi il risultato è che in classe non ci ascoltate, e ci domandiamo, inoltre, perché siate già stanchi ancor prima di iniziare. Se voi portate solo il vostro corpo e non la vostra attenzione e non seguite, vanificate tutti i nostri e i vostri sacrifici di essere qui con voi e per voi. L’insegnamento consiste nel dare, nel trasmettere, nel lasciare il segno, ma se voi non state attenti, il segno lo lasciamo sui banchi, non certo nelle vostre anime, nelle vostre menti. Noi dubitiamo che quando andate al ristorante o in un bar vi comportiate male, dubitiamo che quando ordinate una pizza, non stiate attenti a quale pizza ordinare. Certo, direte voi, qui si tratta di mangiare, un bisogno primario. Ebbene anche la conoscenza è un bisogno primario, perché vi permette di optare per le scelte giuste, per la “pizza” più buona, più sana ed economica. Abbiamo un’altra domanda da porvi: Cosa fareste voi se, mentre siete coinvolti nel fare qualcosa che vi piace o qualcosa che dovete fare, qualcuno vi disturbasse? Vi arrabbiereste? Vi domandereste: “ma che ineducato”, o lo apostrofereste con parole colorite sul volgare andante? Bene, voi se disturbate la lezione, siete alla stessa stregua di quel qualcuno che vi disturba mentre siete coinvolti a fare qualcosa che state facendo. Cari studenti, meno la scuola vi piacerà, più ci rimarrete. Ascoltare quello che ha da dire un vostro professore non è solo un atto dovuto di rispetto verso chi avete davanti, ma è anche un atto di riconoscenza verso i vostri genitori, che fanno tanti sacrifici per voi. Non dimenticate che siete privilegiati a potere stare in una classe. Ci sono milioni di ragazzi in tutto il mondo, che non hanno questo privilegio. Tornare a casa e trovare un pasto caldo è un altro privilegio. Non sprecate questa grande fortuna, non sprecate questa grande opportunità che si chiama scuola. Vi hanno messo al mondo anche perché voi possiate rappresentare al meglio i vostri genitori e vi assicuro che se studierete, se crescerete culturalmente e umanamente, sarete i loro migliori rappresentanti e anche i migliori rappresentanti di voi stessi. Non c’è bisogno che gli diciate “grazie”, il modo migliore col quale potete ringraziarli è istruirvi, essere educati e competenti. Perché ciò vi renderà indipendenti e persone di valore. Quel valore aggiunto all’educazione che vi renderà, insieme alla cultura, persone speciali. Ricordatevi che a scuola si imparano tante cose che sono fondamentali per la vita: la puntualità, la conoscenza, il saper stare assieme, il saper fare, il sacrificio e il sapere ascoltare, etc… E per potere ascoltare è necessario fare silenzio, prezioso alleato della saggezza, del rispetto dell’altro e di sé stessi. Non dimenticate che le scelte migliori si fanno sempre in silenzio. Ergo, ora prendete “carta e penna” ed ascoltate. Saprete aggiungere valore alle vostre “chiacchiere”. Valerio Giacalone Mazzucchelli

BILANCIARE IL MALE CON IL DONO DI SE’

A scuola, in questi giorni, non si riesce ad ignorare quello che sta accadendo. I ragazzi fanno domande, esprimono dubbi e paure, prendono posizione. Su una cosa sono un po’ tutti d’accordo, che rispondere al male con il male è una strada che può rivelarsi pericolosa. Ma cosa si può fare? Le catene del male sono sconfitte dai segni di pace che ognuno di noi può realizzare. 
Riporto un servizio pubblicato su Avvenire di ieri che traduce in fatti concreti quanto vado dicendo da giorni agli studenti. 

È primo pomeriggio: nell’atrio dell’Arsenale della Pace del Sermig di Torino è un continuo arrivare di aiuti che partiranno per l’Ucraina: c’è chi raccoglie, chi divide, chi inscatola… 
Centinaia di giovani proseguiranno fino a sera, senza sosta, ed è così da giorni. Tra loro Vanessa, 16 anni, frequenta la terza liceo classico. «Vengo qui al Sermig a fare servizio ogni sabato, ma vista la situazione di emergenza, ora sono qui quasi tutti i giorni». La pace? «Per me è questo: fare qualcosa per gli altri, qualunque aiuto è un gesto di pace, anche riempire degli scatoloni…». Un’idea maturata a poco a poco: «Fino a qualche anno fa quando sentivo persone che dicevano che ‘fare del bene ti torna indietro’ pensavo fosse una frase fatta, poi sono venuta qui un’estate e ho capito che è davvero così, nel senso che il fare il bene è come piantare un seme di pace, di giustizia: tutti poi godranno di quello che cresce, anche tu stesso ». Un esempio? «Qualche giorno fa sono arrivati due ragazzi che litigavano, sono stati accolti, si sono messi anche loro a inscatolare e a poco a poco, facendo per gli altri il loro astio si è dissolto. Credere e costruire la pace è spostare lo sguardo sugli altri, ciascuno con le proprie capacità, attitudini… Parlando in questi giorni con i miei coetanei nessuno di noi si sarebbe aspettato di venire qui per una guerra, siamo sconvolti da quello che sta accadendo in Europa, ma non per questo ci scoraggiamo: continuiamo a impegnarci con il nostro servizio per la pace, e non per la pace di un popolo, ma di tutti. Credere nella pace significa volere che tutti ne possano godere». 
Accanto a Vanessa Marta, 27 anni, da 7 mesi volontaria al Sermig: «Pace è il frutto del mettersi in gioco, del donarsi. Tutti abbiamola possibilità di contribuire alla giustizia e alla pace perché tutti abbiamo la possibilità di donare qualcosa e qui lo vedi spesso. Arrivano le persone a portare aiuti e chiedono di dare una mano a loro volta. Questo è un grande segno di speranza per noi giovani, un invito a continuare su questa strada. Pace per me è soprattutto relazione di accoglienza verso chi si incontra: anche un sorriso è uno strumento di pace». 
Mattia fa parte della Fraternità, con un megafono richiama l’attenzione su come procedere a inscatolare, poi anche lui si ferma un attimo: «Pace? È restituzione, è ridare a tutti la dignità di cui hanno diritto. Qui siamo a migliaia a cercare di non subire passivamente la guerra, bilanciando il tanto male con il bene del dono di sé e della condivisione». (articolo di Federica Bello)

Dalla parabola dei Talenti alle Beatitudini

Agli studenti ho proposto una lettura un po’ insolita della parabola dei talenti arrivando ad associarla al Discorso della Montagna.
Solitamente noi interpretiamo il talento come le capacità che abbiamo (saper cantare bene, giocare a calcio come un campione, essere un asso nella matematica, ecc….), ma la parabola ci dice che quell’uomo,  «partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì» (Mt 25, 14-15). La capacità è quindi la condizione che fa sì che ognuno di loro riceva un numero diverso di talenti. La diversità del numero non deve però essere intesa come una sorta di preferenza che quel signore ha per uno piuttosto che per l’altro, ma come una grande sensibilità che lo porta a non dare a nessuno di loro un compito che va oltre le proprie capacità personali. Insomma, questo signore è un uomo giusto, perché, come diceva don Milani, “Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra disuguali”.
La parabola è un genere letterario che sollecita il paragone: il signore è Dio, i servitori siamo noi. E il talento? sicuramente è un dono di Dio che siamo chiamati a mettere a frutto. Quale dono? mi viene da pensare alla possibilità di bene che Dio ha dato ad ognuno di noi e che ciascuno è chiamato a realizzare con le capacità che ha. 
Il tempo che stiamo vivendo ci interpella a non fare come il terzo servo della parabola: il mondo ha bisogno di persone che testimonino che il Bene (quello con la B maiuscola perché è quello vero, quello che rispetta la dignità di ogni essere umano) è possibile, anche in mezzo a tanto male. 
Proprio per sottolineare che il Bene è la scelta che va fatta se vogliamo essere felici, Gesù ha stilato un elenco di Beatitudini, cioè di scelte che ci portano alla felicità, proprio perché sono scelte concrete di Bene. Se prendete la versione di Matteo (capitolo 5)  potete arrivare a contare 10 Beatitudini (rallegratevi ed esultate sono le ultime due). Il numero 10 richiama il Decalogo e come per il Decalogo  anche questo elenco è per la felicità dell’uomo (vedi Dt 5, 32). Una felicità che non ha nulla a che fare con il potere, la prepotenza, l’indifferenza, il rancore, ecc…. , ma che si realizza operando con umiltà, impegnandosi per la pace e la giustizia, non cercando la vendetta, non rimanendo indifferenti alla sofferenza dell’altro….
In sintesi, la strada da seguire è quella che rende concreta la possibilità di Bene. Ognuno è chiamato a farlo con le capacità che ha, ma guai a chi per pigrizia, per tornaconto personale, per insensibilità, per indifferenza, ecc… non avrà operato per il Bene, perché di questo Bene mancato dovrà rendere conto. Avete mai sentito parlare dei peccati di omissione? Per vigliaccheria, distrazione, quieto vivere, chiudiamo gli occhi o voltiamo la testa dall’altra parte e non facciamo quel Bene che avremmo potuto.  Essere cristiani secondo il Vangelo, significa essere presenti nel mondo e nella storia. «Dio non ci chiederà – ha detto  papa Francesco nell’omelia di una delle giornate mondiali dei poveri – se avremo avuto giusto sdegno ma se avremo fatto del bene».
Nell’immagine che segue sono contenuti tanti nomi. Alcuni conosciuti, altri meno, ma si tratta di uomini e donne che hanno vissuto pienamente la propria vita perché hanno cercato di costruire il Bene. Credo che ognuno di loro ci conferma che vivere le Beatitudini è possibile, se si permette a Dio di starci accanto.