Sull’integrità morale

Nel post del 27 luglio sottolineavo che il gesto del campione andasse oltre il fair play, perché mi faceva pensare che c’è una possibilità di bene in ognuno di noi. E’ però anche vero che il bene va scelto; certo, a qualcuno può venire naturale, ma ci sono situazioni in cui non è così scontato agire per il bene. 
A scuola alcuni hanno criticato Vingegaard: l’altro (Pogacar) si sarebbe comportato nello stesso modo? e se ne avesse approfittato per vincere lui? prof, e se quel gesto era solo per farsi vedere?
Vi confesso che non so come è poi andata a finire la gara, però voglio credere che il bene può essere fatto al di là di ogni tornaconto personale, per sola fedeltà ai valori che nutriamo nel nostro cuore. 
Dicevo ai ragazzi che se credi nell’onestà e nella competizione leale (e penso che questi siano i valori che abbiamo mosso il campione), saresti un infame (questa espressione la prendo in prestito da alcuni alunni che me l’hanno suggerita) se ti comportassi in modo contrario. E’ quello in cui credi che fa la differenza.
Dice il Dalai Lama:
«All’origine di tutti i nostri guai c’è il comportamento individuale. Se i singoli membri della collettività mancano di valori e integrità morale, nessun sistema legislativo potrà mai dimostrarsi adeguato. E fin tanto che gli esseri umani continueranno a dare priorità ai beni materiali, persisteranno l’ingiustizia, le diseguaglianze, l’intolleranza e l’avidità, tutte manifestazioni esteriori del nostro trascurare le qualità interiori».
Non c’è da essere chissà quali scienziati per capire che ognuno di noi può fare la differenza, nel bene e, purtroppo, anche nel male. Tante “bruttezze” a cui assistiamo sono conseguenza di comportamenti individuali che non hanno alcun rispetto delle leggi, che possono anche essere fatte benissimo e giustissime.  
Se, come dice il Dalai Lama (e non solo lui 😉, ma qualcun altro prima di lui), quello in cui credi è solo il tuo interesse, il mondo sarà pieno di guai.
Ecco quindi che se vogliamo che le cose vadano meglio dobbiamo avere a cuore la nostra integrità morale.
Una cosa non integra è spezzettata, infranta, disintegrata. Anche noi umani rischiamo di diventare così abituandoci alla mediocrità, alle scelte facili e convenienti solo per noi.
 
Girando nel web ho trovato le caratteristiche delle persone integre:
 
1. Autenticità 
Prima di tutto le persone che hanno integrità morale sono autentiche, vere, non si nascondono dietro le formalità o le apparenze, e dicono quello che pensano senza mancare di rispetto. 
2. Riconoscenza 
Apprezzano il tuo tempo, il tuo impegno, riconoscono il tuo valore e non lo danno per scontato. 
3. Umiltà 
Rimangono umili, anche quando raggiungono il successo o si trovano in una posizione influente. Trattano le persone allo stesso modo a prescindere dal loro ruolo o posizione sociale. integrità morale 
4. Perdono 
Le persone che hanno integrità morale non sentono il bisogno di tenere il rancore dentro, non attuano ritorsioni quando subiscono un torto. Se riconoscono che qualcuno ha commesso un errore in buona fede sanno perdonare, e dimenticare. 
5. Fiducia 
Avendo già fiducia in sé stessi si fidano anche delle persone che li circondano, sanno concedere il beneficio del dubbio anche a chi sembra non meritarselo. 
6. Responsabilità 
Si assumono sempre la responsabilità delle loro azioni senza cercare di scaricarla sugli altri. Scelgono di fare la cosa giusta anche quando è quella più difficile. 
7. Pazienza 
Sanno controllare i loro impulsi e attendere il momento giusto. Per questo pensano a lungo termine più che a breve termine. Mantengono viva la prospettiva di insieme e non si fanno ingannare dall’attrattiva di soluzioni semplici e immediate ma controproducenti nel tempo. 
8. Determinazione 
Sono persone determinate, che non si scoraggiano facilmente e che perseguono i loro obiettivi nonostante le opposizioni o le difficoltà. 
9. Leadership 
Prima di essere leader per gli altri le persone con integrità morale sono leader di sé stessi. Sanno scegliere i propri obiettivi in modo autonomo e darsi delle tempistiche precise per raggiungerli. 
10. Coraggio 
Sono persone coraggiose, consapevoli delle loro paure e che scelgono di affrontarle nonostante tutto, che sanno rischiare, puntare all’impossibile per renderlo possibile. 
11. Cuore 
Forse la caratteristica principale. Le persone che hanno integrità morale sono persone dal cuore grande, che sanno amare, spendersi per il prossimo quando c’è bisogno. Per loro contano poco i riconoscimenti esterni, aiutano e rispettano perché è nella loro natura farlo, perché riconoscono la fragilità altrui e vogliono proteggerla invece che sfruttarla per il proprio vantaggio personale.

 

Siamo fatti per la luce

L’ispiera – parola di cui confesso che per molto tempo ho ignorato il significato e persino l’esistenza – è un sottile raggio di sole che, penetrando attraverso una fessura in un ambiente buio, lo illumina.

Chi non ha mai provato, almeno per un momento nella vita, l’esperienza dell’oscurità?
Per qualcuno è diventata persino compagna permanente, arrivando a mettere in discussione l’esistenza stessa della luce.
Ci sono persone che, anche solo per un istante, illuminano la nostra esistenza, facendoci percepire – con un gesto o una parola, nella profondità di uno sguardo, nella semplicità di un sorriso – che la realtà è ultimamente positiva, che c’è sempre qualcosa per cui vale la pena vivere e sperare.

 
Mi è accaduto di incontrarne, e hanno fatto bene alla mia vita, lasciando una traccia luminosa del loro
passaggio. Sono testimoni di un bene presente nelle profondità della realtà ma che spesso non siamo capaci di riconoscere e di seguire, rassegnandoci a campare in un’oscurità senza volto che inaridisce i nostri cuori.
Grazie a Dio, dunque, per le ispiere che penetrando attraverso le fessure del mio cuore gli hanno fatto conoscere la potenza della luce e la bellezza della vita. Siamo fatti per il giorno, la notte è destinata a passare.
 

 

Uscire dalla noia: come trasformare la vita quotidiana in vita eterna

Perché questo nostro ricominciare ci salvi dalla noia e ci trovi aperti e pronti a rendere il presente vita eterna.

Da A. D’Avenia, Riprendere e riprendersi in Corriere della Sera, 5 settembre 2022

La ripresa della routine quotidiana dopo le vacanze è spesso accompagnata dalla tristezza, come se si passasse dalla vita vera, quella libera della pausa estiva, a una vita prigioniera, fatta della ripetizione di gesti, orari e impegni prescritti. In questa ripetizione manca la gioia, che sembra dipendere solo dallo straordinario, come mostra la nostra iper-comunicazione social estiva. A corto di gioia quotidiana, viviamo l’ordinario per fuggirne. Come si fa invece a trovare lo straordinario nell’ordinario, la gioia nel quotidiano? 
In un bel film del 2016 di Jim Jarmusch, intitolato Paterson, nome sia della cittadina del New Jersey in cui si svolge la storia sia del protagonista (interpretato da Adam Driver), un autista ripete la sua routine quotidiana, come accade con le fermate del suo autobus. Eppure Paterson trova gioia proprio in quella ripetizione, non in quanto ripetizione, ma in quanto ripresa […]
Insomma le cose sono generose con noi non se le «aumentiamo» o manipoliamo, ma solo se trovano le nostre mani aperte. La nostra mancanza di gioia in fondo è sordità alla realtà: assurdo viene da «sordo», e la vita diventa assurda nella misura in cui noi siamo sordi ai suoi spunti. 
Ciò vale in qualsiasi ambito: lavoro, amore, luoghi… diventano noiosi e vuoti nella misura in cui li ri-petiamo e non li ri-prendiamo. Come fare? 
Se siamo aperti, liberi, in ascolto, quel lavoro, quell’amore, quel luogo… saranno occasione di «ri-

presa»
, cioè qualcosa che è sì come prima ma sempre con qualcosa di nuovo da darci, come quando riprendiamo (non nel senso di farne un video ma di tornare a guardarli senza stancarci) i tramonti, i volti, i libri… riprendere è trovare il nuovo nello stesso (ri-genera), invece ripetere è trovare lo stesso nello stesso (ri-produce). Nel riprendere c’è gioia, nel ripetere no. […]
Paterson, anche se «ripete» orari e percorsi, in realtà li «riprende»: trova bellezza nelle conversazioni che sente in autobus, nell’incontro con una bambina alla fermata, nelle stravaganze della moglie… E ci riesce semplicemente perché è aperto, sa ascoltare il mondo […].

Così tutto diventa «evento», cosa che lo porta a scrivere poesie su questi istanti eterni. In una di queste scrive che da bambini ci insegnano che la realtà ha tre dimensioni, come una scatola di scarpe, ma poi bisogna scoprire la quarta: il tempo. Da questa dimensione dipende la contentezza che lui prova anche solo bevendo una birra al bar: contento vuol dire «contenuto», la contentezza è l’esperienza dell’essere abbracciati dall’istante, da un tempo pieno di senso
Viviamo spesso fuori-tempo, senza ritmo e fuori dal presente: ci deprimiamo rimpiangendo il passato, precipitiamo nell’ansia proiettandoci nel futuro, e così ci scappa il presente, unico tempo capace di offrire spunti di gioia solo se noi gli siamo presenti, cioè aperti, in ascolto. […]
Frankl (psichiatra sopravvissuto ai campi di concentramento) capì che rimaniamo liberi se prendiamo sul serio il presente: «La svalorizzazione del presente, della realtà che circonda l’internato tende a far trascurare i possibili spunti per dare una forma alla realtà, spunti in qualche modo presenti anche nella vita del lager. La totale svalorizzazione della realtà induce a lasciarsi andare, poiché comunque tutto è inutile». La nostra mancanza di gioia dipende spesso da questa «svalorizzazione» del presente, a cui diventiamo sordi anche per la continua proiezione nel mondo immaginario della comunicazione e della pubblicità. […] 
Per gioire bisogna saper «rischiare» l’istante, ascoltarlo, persino amarlo… Solo così ogni lunedì sarà una ripresa: saremo noi a riprenderci dalla tristezza e a riprenderci la libertà. 
Nella quotidiana ripetizione Paterson ritaglia sempre del tempo per questo allenamento a rimanere aperto (leggendo, osservando, scrivendo), e così coglie le infinite possibilità che, come le parole celate in una pagina bianca, la realtà offre. 
Preferiresti forse essere un pesce? Si chiede a un certo punto. Senza nulla togliere ai pesci, l’autista-poeta sa che la condizione umana può essere una gioia se la si prende e ri-prende per il verso giusto. Solo chi ha orecchie e occhi aperti s’innamora dell’istante e trasforma la vita quotidiana in vita eterna
Ma quanto coraggio e quanto silenzio richiede tutto questo? 
Forse solo qualche minuto, ogni giorno, a partire da oggi. 


Serve credere in Dio oggi?

Non so se avete saputo del Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali in Kazakistan. In effetti non è che se ne sia parlato granché. Di religione non se ne parla poi tanto (a meno che la religione non faccia scandalo) e in fondo sono sempre più le persone che la ritengono irrilevante per la vita. 
Credere serve a qualcosa? Verrebbe da dire di no. 
Di per sé non a fare carriera o ad avere successo, neanche ad apparire interessanti o usufruire di un’esistenza comoda. Tantomeno a diventare più belli o più intelligenti. Insomma, credere in apparenza non serve a niente. 
Tranne che a sentirsi piccoli di fronte all’amore infinito di un Padre per cui siamo tutti figli unici. Tranne che a voler imparare l’arte ‘disumana’ del perdono. 
Tranne che a cercare bellezza anche negli angoli più sporchi del nostro cuore. 
Tranne che a riconoscersi tutti parte di una stessa famiglia di uomini e donne capaci di vivere come fratelli e sorelle. 
Tranne che a scoprire, poco a poco, in noi e negli altri quei semi di eterno che saranno la trama del ‘dopo’ che ci attende. 
È lì la radice della speranza che, come insegna il libro del profeta Geremia, non è sterile ottimismo ma la promessa che il Signore fa di esserci sempre accanto, di non far mai mancare la sua presenza nella storia, personale e collettiva. Perché è l’umanità fatta di persone che danno senso al credere. 
Per dirla con papa Francesco, là dove riprende l’enciclica Redemptor hominis di Giovanni Paolo II, «l’uomo è la via di tutte le religioni». 
Sì, proprio l’essere umano così imperfetto e fragile, che non sussiste da solo, incapace di seminare futuro quando si chiude a chiave nel proprio guscio, con la paura di uscire. Se lo si mette al centro, prima degli interessi economici e militari, prima dei nazionalismi e della corsa al dominio, si toglie significato finanche alla guerra, la si riduce a vuoto, inutile incubo. 
Se le religioni non dimenticassero la loro radice, che è l’essere proiettate in una dimensione altra, (‘nel’ mondo ma non ‘del’ mondo, per usare un’immagine evangelica), non potrebbero mai diventare puntello del potere, giustificare i fanatismi, i fondamentalismi, la violenze in nome di Dio, l’odio che lo profana. Distorsioni che sfigurano l’essere umano e così facendo svuotano il senso del credere, lo sgonfiano come un palloncino privo di cielo. 
Il Papa, ‘leggendo’ la dichiarazione finale dei leader religiosi, ha indicato in tre parole chiave il perimetro entro il quale fedi diverse possono più facilmente camminare insieme: 
  • Pace, come «sintesi di tutto», come grido accorato e sogno, soprattutto come opera della giustizia scaturita dalla fraternità;
  • Donna, a indicare cura e vita («Quante scelte di morte – ha sottolineato Francesco – sarebbero evitate se le donne fossero al centro delle decisioni»);
  • Giovani: a cui dobbiamo dare in mano le chiavi del domani che si costruisce già oggi, a partire dalla cura della casa comune, la madre Terra di cui siamo i custodi-principi. 

La fede è una luce che si offre come lampada sempre accesa per i bisogni del cuore, come lente d’ingrandimento sui passaggi del Signore nella nostra vita. 
Credere a qualcosa allora serve: a imparare a vedere il mondo con gli occhi di Dio, a eliminare dal vocabolario la parola nemico. Soprattutto a riconoscere in Lui non un giudice o un guerriero vendicativo ma un Padre attento e misericordioso, desideroso di stringere tutti i suoi figli nel medesimo abbraccio. 

Adattato da RICCARDO MACCIONI in AVVENIRE del 16/09/2022. 

Accorgersi che Dio scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini

“Dio scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini”.
Spesso me lo sono sentito dire e anche io l’ho ricordato a me stessa e a chi stava attraversando un momento difficile. Non si tratta di rassegnazione, ma di consapevolezza che dal male se ne può uscire più forti se poniamo la nostra vita nelle mani di qualcun altro e, per chi si fida di Gesù, di quel Dio che offre il bene anche negli angoli più bui. 
I tempi che stiamo vivendo ci fanno percepire tutta la fragilità di un sistema che pensavamo ci avrebbe destinato tutti al successo e al benessere. Quanta arroganza in questo modo di pensare!!! Abbiamo costruito un castello sulle sabbie mobili….e ora, invece di sostenerci l’un l’altro, stiamo tirando fuori il peggio di noi. Che amarezza! direbbe la mia cara collega. 
Ne possiamo uscire soltanto convertendo totalmente il nostro cuore e risvegliandoci dal sonno della ragione, perché a prevalere sono purtroppo la rabbia e le soluzioni dettate da un egoismo irragionevole. Chi bazzica un po’ la Bibbia, si sarà imbattuto in brani in cui Dio si rivela nel sogno o in cui il sonno è preludio ad un grande cambiamento. Dio ci sveglia dal sonno per invitarci a realizzare il suo progetto che è per il bene, non solo personale. 
E quando le cose sembrano mettersi male, Dio invita a vedere con il suo stesso sguardo: dal male può venire anche il bene se ci apriamo alla sua provvidente misericordia. 
L’articolo di Mauro Magatti, pubblicato su Avvenire del 30 agosto è un contributo al risveglio 😁. 

 «Le restrizioni che ci sono state imposte dal virus hanno generato un diffuso senso di responsabilità. Ma hanno anche sviluppato forti reazioni che in alcuni casi hanno rasentato la violenza. Una società più sobria ha bisogno di una pedagogia che oggi non c’è. Ecco perché è necessario che tutti coloro che hanno responsabilità pubbliche – dai politici agli imprenditori, dai manager ai docenti – evitino di cavalcare la tigre dell’odio che questa stagione inevitabilmente alimenta. In definitiva, la ‘fine dell’abbondanza’ potrebbe essere il vincolo esterno per avviare quella trasformazione di cui si sente il bisogno ma che non si sa come realizzare. Riuscendo a immaginare una crescita che, senza ridursi all’aumento dei consumi privati, sia capace di rigenerare i legami sociali, di affiancare ai diritti individuali i doveri sociali, di scommettere sulla sussidiarietà intesa come responsabilità diffusa, di investire sulla generazione e sulla formazione, di portare avanti la transizione energetica sapendo della sua urgenza e dei suoi costi. La ‘fine dell’abbondanza’ significa fondamentalmente risvegliarsi dal sonno della ragione che ci ha portati a credere che la crescita sia frutto di un meccanismo automatico, di un funzionamento sistemico, indipendente dalla spinta spirituale e dalla intelligenza che vengono dalle persone e dalla comunità. Nella società che abbiamo la possibilità di costruire non si tratta più semplicemente di rivendicare il proprio benessere individuale, ma di contribuire al bene comune».

Il sorriso di Dio

Confesso che arrivata alla mia età sento il bisogno di mettere i remi in barca (o le scarpette al chiodo 😁). 
Non che non ami questo lavoro, ma è come se avessi la sensazione di aver dato tutto quel che potevo. 
Il brano che riporto (di G. Paolucci, tratto da Avvenire del 30 agosto) mi ricorda che c’è ancora tanto da ricevere dai ragazzi. 
Uno stimolo a continuare a fare del mio meglio (attendendo con santa pazienza la pensione 😉).

Debora ha sempre amato insegnare, per realizzare un sogno che coltivava fin da bambina. Poi un mostro chiamato anoressia l’aveva trascinata sull’orlo del baratro, privandola del sorriso che sempre l’accompagnava. E una notte infelice le aveva rubato un pezzo della vista, fino a una diagnosi che suonava come una condanna: ictus. «Se mi succede qualcosa, raccogliete le mie poesie», aveva detto agli amici: è lì che aveva fissato le gioie e i dolori di un’esistenza sempre tesa a cercare l’ebbrezza della felicità e a comunicarla ai giovani. In pochi mesi con l’aiuto dei medici era riuscita a risalire la china, fino al ritorno a scuola, all’istituto Gadda di Fornovo (Parma), dove ha deciso di rimettersi in gioco. Sarebbe stata capace di farlo?, si chiedeva con tremore quando in dicembre era entrata in una classe sconosciuta. Sono stati loro, gli studenti, la migliore medicina per guarire, hanno acceso nuovamente la passione di insegnare che nessun dolore aveva potuto cancellare. È stando in mezzo a loro che ha ritrovato il gusto per un mestiere bello e complicato, diventato per lei una ragione di vita. Ora non vede l’ora di ricominciare la scuola. «I ragazzi insegnano a me ogni giorno più di quanto io potrò mai insegnare loro. È nei loro sorrisi che l’ho ritrovato, il sorriso di Dio».