Prima che il nuovo anno arrivasse: lettera ad una nipotina (e non solo)
Di Elisa Manna in Avvenire del 1 dicembre 2022
Finalmente stai arrivando. Ed è una cosa “cosmica”: un momento che ha a che fare più con l’imponenza distante delle galassie che con i piccoli affanni e gioie quotidiane. Uno squarcio su un’altra dimensione così misteriosa, possente e altra da noi, eppure così vicina che possiamo sfiorarla. Un momento in cui sentirsi apparentati alle stelle.
Tra poco una Forza vitale sconosciuta comincerà a dirigere gli eventi come un direttore d’orchestra e in poco tempo sarai stordita dalla luce e dai suoni , voci rivolte a te che ti accolgono, stanche e felici.
Carissima Vittoria ti scrivo ora, perché poi i miei pensieri saranno certamente diversi e meno lucidi. Sei stata davvero una grande viaggiatrice e hai saputo percorrere tutte le tue tappe con tranquillità. Ma chissà se all’arrivo ci sono state solo stanchezza e fatica o anche qualcos’altro, magari la nostalgia della piccola casa accogliente che conoscevi…
Sai, il mondo che ti aspetta qui non è come te, tutta nuova: è un mondo vecchio che ha fatto già tanti sbagli. Si è ammalato, ormai ha la febbre e chissà se riusciranno a fargliela scendere. Era un paradiso terrestre, c’erano acque fresche e limpide e immensi ghiacciai ne custodivano il segreto vitale, candidi e purissimi. Il terreno era generoso e produceva delizie dal sapore oggi dimenticato, quando respiravi sentivi che la vita ti entrava nei polmoni, ogni giorno affrontavi il tuo percorso con animo forte e sereno, rassicurato da molte certezze. Le estati erano una festa per il cuore e per il corpo, un sole splendente che accarezzava la pelle e la confortava, donandole un caldo colore ambrato, mentre una lieve brezza la rinfrescava.
È vero, questa manna sparsa a piene mani non era per tutti ed esistevano tanti sfortunati anche in passato: ma il divario tra quelli che stanno bene e quelli che vivono negli stenti non era così ingiusto, odioso come adesso in cui imperatori del denaro non riescono più a immaginare come soddisfare nuovi capricci (un volo nello spazio per regalo di compleanno?) mentre folle immense di diseredati cercano di scampare alla fiamma di un sole diventato nemico nella loro terra, alla siccità senza scampo, alla fame, alle guerre.
Il Signore ci ha donato tutto per puro amore senza volere niente in cambio, e noi siamo stati capaci di rovinare quasi tutto e quasi irrimediabilmente.
Sai, siamo stati perfino capaci di inventarci divinità che vogliono che ci armiamo e ci uccidiamo l’uno con l’altro come se l’unico Dio che ha senso per noi non fosse l’Amore Assoluto. Ma non ti voglio rattristare con questi discorsi sul passato, io che sono la mamma della tua mamma, e debbo e voglio più di altri infonderti coraggio.
La vita che ti attende potrà essere veramente meravigliosa, malgrado la realtà concretissima dei problemi di cui ti ho parlato. Questo non è un pianeta sbagliato per venire al mondo, anzi; qui stiamo facendo anche progressi scientifici e tecnologici incredibili, e se non perderemo definitivamente la testa, ci aiuteranno a curare malattie, allungare la vita, contrastare la fame, assicurare giustizia sociale, rendere obsolete e inutili le guerre.
E poi, qui ti aspettano tua mamma e tuo papà, una culla d’amore, e tanti (i nonni, gli amici) che vogliono proteggerti e accompagnare, sorridendoti, il tuo cammino: un mondo che somiglia a quel paradiso terrestre di cui ti parlavo prima. Solo, più piccolo. Questo immenso vantaggio che la vita ti darà forse basterà a sé stesso. O forse, in virtù di quella “misteriosa e divina logica di restituzione” che a volte abita il cuore degli uomini, ti spingerà a guardarti attorno. Ed è di questo, in effetti, che ti volevo parlare dall’inizio.
Ti auguro di essere felice per tutta la vita, certo. Ma ti auguro anche altro: per esempio di essere una persona compassionevole. Noi umani “brilliamo” solo se interagiamo con gli altri, da soli siamo un piccolo faro spento. E poi ti auguro di essere una persona mai chiusa nei confini limitati del proprio io, ma aperta a “sentire” e ad accogliere gli altri.
Ti auguro di essere vera, sincera sempre, almeno con te stessa. Conoscere sé stessi è il grande segreto di un animo pacificato. Sii libera, rispetta te stessa e tutti, la tua dignità non ha prezzo. Non inseguire l’eccitazione della gioia a tutti i costi; a volte abbiamo bisogno anche di avversità per crescere…
Ti auguro di amare l’ossigeno di alta montagna, lo iodio frizzante del mare: fa che i tuoi pensieri siano attraversati dal vento che fa gonfiare le distese di grano dorato.
Accendi i tuoi talenti, “alza le vele” come esortava il tuo bisnonno Gennaro che del faro del cristianesimo ha fatto la costante ispirazione per i suoi romanzi; fa che i tuoi talenti risplendano e sappiano trovare nuove soluzioni e mai solo per te stessa. Troverai le tue strade, Vittoria Luce. Lasciati guidare dal nome che tua madre ha voluto darti, non accontentarti.
E tutti voi, nuovi nati che arrivate, non lasciatevi intimorire dalla complessità di quest’epoca nuova, crescete sereni, poi “prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro”, come diceva Giovanni Paolo II. Almeno, provateci. Sappiate che la vita sarà fantastica se in tanti saprete sfuggire alla trappola dell’egoismo e costruirete insieme un dialogo vivo e intenso, generativo di una nuova civiltà in cui ognuno abbia cibo, dignità e rispetto.
E, soprattutto, siate contadini e coltivate la speranza.
Trans-umanismo
Parola strana che è invece il caso di comprendere perché, come dice Albert Cortina, un’autorità in merito a questa tematica, «Mi sembra che ci troviamo in un momento cruciale, in cui il transumanismo sta per compiere il grande balzo: ancora non è forte e radicato, ma potrebbe diventare un’ideologia diffusa. Desidero che la si guardi bene in faccia e si consideri in che modo la cultura cristiana possa porsi di fronte a essa».
Riprendo l’intervista di L. Servadio pubblicata su Avvenire del 10 dicembre 2022.
In che modo si diffonde?
Per esempio nei videogiochi che presentano cyborg, cioè esseri umani con parti cibernetiche che ne aumentano la potenza fisica o mentale. In certe espressioni artistiche, che privilegiano una visione postumana e cercano di sperimentare col corpo umano, facendone un oggetto plasmabile: si comincia coi tatuaggi e i piercing per arrivare a impiantare microchip per aumentare le proprie prestazioni. O nella tendenza ad allungare artificialmente la vita, magari trasfondendola in una memoria elettronica o con manipolazioni genetiche.
Beninteso, vi sono tanti aspetti positivi nel modo in cui la tecnologia può migliorare la vita e sopperire a problemi fisici, per esempio permettendo di camminare anche a chi ha perso le gambe. La questione è apprezzare i limiti, evitare di assolutizzare, scongiurare l’ipotesi che l’essere umano divenga un robot bionico, cosa verso cui invece tendono alcuni sviluppi delle biotecnologie e delle nanotecnologie.
Sono tecnologie che consentono
anche il controllo della popolazione.
Già si constata in Cina, con l’uso di sistemi informatici per classificare e controllare le persone nei loro movimenti, così come nel limitare il diritto di accedere a certe prestazioni in funzione del punteggio assegnato a ciascuno dal potere centrale.
La logica del metaverso va in questa stessa direzione?
Il metaverso crea un mondo parallelo, nasce come gioco e può assorbire a tal punto la vita delle persone che queste finiscono per non avere più relazioni reali con altri esseri umani. Questa vita fittizia è come una grande fantasia in cui ognuno può inventarsi le proprie regole, come se la realtà non esistesse più. Un mondo dove avvengono guerre ma senza conseguenze, non ci si fa male: il male consiste nel lasciare che quel mondo ti assorba sempre di più, trasportandoti via dal mondo reale. E certo, anche qui, chi lo controlla finirà per influenzare chi ne usa.
Una nuova utopia.
Qualcosa che si insinua ovunque grazie ai suoi aspetti positivi: sono tecnologie che possono aiutare a migliorare la vita. Ma, ancora, se assolutizzate queste stesse tecnologie scatenano desideri illimitati. […]
Qualcosa che la cultura cristiana non può accettare.
Fino a due secoli fa in Europa tutto si spiegava alla luce della fede. Poi s’è diffuso il verbo della tecnologia – con tutti i suoi pregi beninteso, ma anche coi suoi limiti che con chiarezza constatiamo nell’inquinamento diffuso per esempio.
Con l’ideologia transumani-sta ci troviamo di fronte a una possibile nuova tecnoreligione: la religione della tecnica, fondata sul dogma che la tecnologia sia onnipotente. Che la superintelligenza alla quale si può giungere con i sistemi computerizzati possa tutto conoscere e tutto creare. Che il controllo dei dati possa offrire il controllo totale della biosfera e della vita umana. E che la capacità di distinguere il bene dal male non derivi da una scelta morale in una visione trascendente, ma si misuri su nuove possibilità illimitate derivanti da conoscenze straordinarie acquisibili grazie agli algoritmi. L’algoritmo diventa l’espressione di un nuovo gnosticismo.
Una cieca fede nel progresso?
Il problema è che di queste tematiche non si parla a sufficienza. Ma pian piano si diffondono. Vi sono aziende che selezionano il personale sulla base di algoritmi. Programmatori e progettisti convinti che dalle nuove tecnologie non potrà che derivare un bene. La società civile e il mondo politico tendenzialmente ignorano tutto questo o lo accettano acriticamente. È importante invece recuperare una visione critica. Come ha scritto Paolo VI nella Populorum progressio (n. 20), «se il perseguimento dello sviluppo richiede un numero sempre più grande di tecnici, esige ancor di più uomini di pensiero capaci di riflessione profonda, votati alla ricerca d’un umanesimo nuovo, che permetta all’uomo moderno di ritrovare se stesso, assumendo i valori superiori d’amore, di amicizia, di preghiera e di contemplazione».
Tre parole da ripensare e ridire per il nuovo anno
Lo sappiamo anche noi, eppure ogni volta che inizia un anno nuovo speriamo tenacemente che accada qualcosa di migliore, che saremo capaci di liberarci dalla necessità del passato e mostrarci diversi, che nostro figlio sarà quella bellezza e quella pace che noi non siamo riusciti a diventare.
Da qui il senso degli auguri, di bene- dire il tempo che sta per iniziare, perché le parole buone pronunciate nel principio hanno una speciale capacità performativa, migliorano ciò che bene- diciamo, danno ali alle nostre promesse.
Pensando al nostro tempo di passaggio, la prima parola da dire diversamente è povertà.
La povertà è parte essenziale della condizione umana di tutti. L’Europa, grazie soprattutto a Cristo, aveva generato una civiltà che mentre lottava contro la miseria non disprezzava i poveri in carne e ossa, non li malediceva, perché Gesù li aveva chiamati “beati” e perché Francesco per l’”ignota ricchezza” della povertà aveva lasciato le altre ricchezze note. Da questo umanesimo sono nati gli ospedali, le scuole, i Monti di pietà, e poi lo Stato sociale, che non trattavano i poveri come maledetti ma solo come sventurati.
Oggi la prima povertà di cui soffrono i poveri è la mancanza di stima, è sentirsi considerati colpevoli, guardati solo come portatori di bisogni e non di talenti e virtù pur dentro le loro indigenze. Perché ci siamo dimenticati che a coloro che chiamiamo “poveri” manca molto ma non manca tutto – e la dignità si situa nella differenza tra il “tutto” e il “molto”, e lì dove si alimenta anche la reciprocità.
Poi c’è il lavoro.
Attorno al lavoro si sono sempre dette e scritte molte parole, non tutte buone e vere. Lo abbiamo scritto nell’incipit della nostra Costituzione, e abbiamo fatto bene. Ma non dobbiamo dimenticare cosa fosse nel dopoguerra veramente il lavoro in Italia e nel mondo.
Se a scrivere quell’articolo 1 non fossero stati professori, politici e giuristi ma lavoratori della terra, delle fabbriche, dei cantieri, le lavoratrici delle filande e delle risaie, difficilmente avrebbero fondato il nuovo patto sociale su quel loro lavoro concreto – il lavoro ha sempre sofferto per narrative scritte da non-lavoratori. Perché le parole dei lavoratori veri erano ‘“schiene incurvate”, “miseria e fame”, “padrone e servo”, “travaglio”.
Il lavoro è stato quasi sempre esperienza non troppo diversa dalla servitù, se si eccettuano poche élite di artisti, di artigiani e di professioni liberali. La Bibbia, espertissima di umanità prima di essere esperta di Dio, quando pensava al lavoro andava subito alla produzione forzata di mattoni in Egitto. E quando quegli uomini e donne scrissero « L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» guardarono, profeticamente, al lavoro di domani. Guardarono negli occhi il lavoro del loro tempo e gli dissero: “Diventa quello che non sei ancora, lo puoi diventare”. E fu come una preghiera.
Oggi le profezie della Costituzione sono sempre più lontane, e torna minaccioso all’orizzonte l’ombra del lavoro per umiliare i deboli e i poveri, i mattoni d’Egitto cercano ogni giorno di riprendere il posto del lavoro degno e congruo.
L’articolo 1 è l’articolo dell’inizio, è il padre del mattino del giorno che non c’è ancora ma che deve arrivare.
Infine, spiritualità.
Siamo dentro una immensa carestia di spiritualità.
Abbiamo ottenuto risultati straordinari nel “foro esterno” della nostra civiltà – tecnica, economia, scienza –, ma nel “foro interno” siamo regrediti di secoli, se non di millenni. L’homo sapiens post-moderno è un analfabeta spirituale di ritorno.
È sempre più urgente che le Chiese e le religioni lascino i loro recinti e le loro “comfort zone” di consumo sacro e opere sociali e aiutino il mondo a ricostituire un nuovo capitale spirituale. Il capitale spirituale è la “casa” di tutti i capitali di una società: senza di esso tutti gli altri vagano nomadi, esposti a ogni pericolo.
C’è un bisogno urgente di una rivoluzione narrativa delle religioni e della spiritualità: è ora di mettersi a lavoro. Liberamente tratto da L.Bruni, La rivoluzione è un’eredità, in Avvenire del 3/01/2023
ASCOLTARE LA VOCE SAPIENS
Una bella riflessione di D’Avenia sull’essere Homo. Tanti, tanti spunti per il lavoro in classe.
La novità uomo, rispetto agli altri primati, è segnalata da alcuni fattori: tecnica, sepolture, accoppiamento frontale, linguaggio simbolico (arte). L’uomo è uomo perché ha e fa cultura, cioè tutto ciò che crea per umanizzare la vita, perché, a differenza dell’animale che ha già tutto scritto nel suo istinto, l’uomo diventa uomo.
Come? Risolve problemi con la tecnica non essendo dotato, come gli animali, di artigli, zanne, pelo… ma di ingegno; è capace di trascendenza (seppellisce i simili); si accoppia guardandosi negli occhi; si relaziona con le cose in modo non solo utilitaristico (non si limita a mangiare gli animali, ma li dipinge). Questo per quanto attiene al genere Uomo.
Ma perché, tra le specie di Uomo, il Sapiens è l’unica sopravvissuta? Se il Neanderthal era più forte, organizzato e abile, perché si è estinto?
Molti studiosi rispondono dicendo che era timoroso e sedentario: non migrava e non osava attraversare il mare. Invece il Sapiens è andato ovunque: nel giro di qualche migliaio di anni dall’Africa lo troviamo in Australia! Era audace, se non folle.
Il Sapiens è sopravvissuto perché, di fronte all’ignoto, rischiava, un motivo contrario al buon senso: non si metteva al sicuro ma a rischio.
Evolutivamente ci ha salvato un inquieto vivere e non un quieto sopravvivere, allora come oggi. Quando intuii, a 17 anni, che volevo fare l’insegnante, molti mi dicevano: «Non rischiare, c’è già lo studio dentistico paterno, sii realista o sarai un morto di fame…». Per fortuna non ascoltai le voci Neanderthal, e mi fidai della voce Sapiens, lo spirito creativo dentro di me, che mi diceva: «Sarai vivo di fame!». Quella voce mi ha salvato: la voce del vivere arrischiato, che lascia la sicurezza e attraversa il mare (dovevo lasciare la Sicilia e andare, come diciamo noi, nel Continente). E così non mi sono «estinto», spento.
Purtroppo però da quello stesso slancio del Sapiens viene anche la sua passione per la distruzione (forse le altre specie sono state «estinte» dalla sua violenza) che dà un’ebbrezza simile a quella creativa, ma a spese della vita: non genera il nuovo ma lo divora, come il dio Cronos mangia i figli.
Ieri come oggi, il Sapiens o fa la vita dandola o si dà la vita togliendola, diventando Rapiens: l’uomo che afferra (da quel verbo viene l’inglese rape, stuprare).
Lo esemplifico con il racconto del primo traumatico giorno di superiori narratomi da una studentessa. Alla prima ora entra una professoressa, guarda il gruppo assai numeroso di ragazzini, impauriti dall’inizio del percorso liceale, e dice nella lingua del controllo che dà l’ebbrezza del potere a chi la usa: «Siete troppi, vi ridurremo!».
La lingua del rischio, che è creativa, dà la stessa ebbrezza ma richiede più impegno, avrebbe detto: «Siete tanti, ma voi e io ce la metteremo tutta per trovare i modi di andare avanti insieme».
La seconda frase genera, la prima de-genera.
Del racconto di Genesi dimentichiamo che gli alberi dell’Eden sono due: quello della conoscenza del bene e del male, precluso all’uomo a significare che la sua condizione è di creatura e non di creatore (la vita non te la sei data tu); e quello della vita, a sua totale disposizione, a indicare che quella condizione di creatura crea una relazione (la vita ti è donata da Qualcuno).
Kafka ha scritto che la condizione ferita dell’uomo dipende non solo dall’aver mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male, ma anche dal non aver mangiato quello della vita. L’uomo, scopertosi mortale, deve procurarsi la vita con le sue forze. E allora che cosa è che il Sapiens sa? Che morirà, a differenza dall’animale che vive in un eterno beato presente, come scrive Leopardi nel suo Canto notturno. Questo «saper la morte» è una condanna o una risorsa?
Il grande scienziato Linneo, a metà del 1700, per catalogare i viventi inventò la classificazione a due nomi (genere e specie) e per l’uomo approdò a Homo Sapiens solo alla decima edizione del suo Sistema della natura. Nelle precedenti edizioni scriveva Homo Nosce Teispum, genere Uomo, specie Conosci te stesso: traduzione latina del monito scritto sul tempio del dio Apollo a Delfi, per ricordare all’uomo, che si recava a interrogare il dio attraverso la sua sacerdotessa, il giusto atteggiamento: sei un mortale, pesa le tue parole.
La cultura ebraica e quella greca concordano, da prospettive diverse, sulla posizione dell’uomo nel cosmo. Socrate sceglierà proprio questa frase del tempio di Apollo per sintetizzare il senso dell’esistenza: ogni uomo è chiamato a riconoscere in sé il divino, il daimon, voce immortale che ispira e guida l’azione dell’uomo. Cristo, criticando i gesti ipocriti di coloro che pregano per farsi vedere dagli uomini, dice «quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6). La camera segreta (fisica e del cuore) è dove il Padre dà se stesso a chi lo cerca. Agostino, quattro secoli dopo, ne farà un cammino esistenziale: «Ritorna in te stesso, la verità risiede nell’uomo interiore».
Persino nella stanza dell’Oracolo del film Matrix c’è un’insegna con la scritta in latino (Conosci te stesso), invito al protagonista ad accettare la rischiosa chiamata contro le illusioni oppressive create dal Programma, anche a costo della vita, perché non c’è vita senza verità.
Chi sei? Qual è il tuo destino?
Essere Sapiens è essere «Conosci te stesso», cioè accettare la propria finitezza, e non trasformarla in rabbia distruttiva ma in creatività:e non trasformarla in rabbia distruttiva ma in creatività: imperfezione, incertezza, inquietudine sono sinonimo di ricerca e non di paralisi, di audacia e non di paura, di viaggio e non di violenza.
Per noi stare nella vita è entrare in relazione generativa con ciò che ci supera, fino a scoprire il divino in noi.
Nella mia vita quando ho cercato di eliminare l’inquietudine, non solo non ci sono riuscito ma ho perso occasioni di crescere e di creare (due verbi che originano dalla stessa antica radice, e che danno lo stesso frutto: l’uomo), perché sono rimasto bloccato dalla paura o, peggio, ho cercato la pace nell’illusione di non morire che dà il potere.
Invece quando ho deciso di accogliere quell’inquietudine non come debolezza ma come segno della presenza del divino in me, si è sempre trasformata in motore creativo e di crescita: energia per correre il rischio. Rischiando la vita, cioè portandomi avanti con il fatto che dovrò morire, ho scoperto come si vince la morte trovando più vita, come sembra sia proprio del Sapiens. Altrimenti mi sarei estinto, in anticipo, in vita.
Non credo sia un caso che molti eroi del passato di culture diverse, da Ulisse a Sinbad, siano uomini che, per vivere, hanno vinto il mare. Ognuno ha il suo e il coraggio per affrontare l’ignoto lo trova nel suo DNA di Conosci te stesso.
Un’educazione che rimette al centro il nostro essere Sapiens, non solo non nasconde ai ragazzi la fatica della condizione di uno che sa che morirà (o rischi o ti estingui), ma svela anche la terribile ambiguità di quel rischiare per riuscire a non morire (o crei altra vita o divori quella che c’è). A noi la scelta.