Continuare a fare il bene. Senza distrazioni.

Un giorno, un saggio viandante attraversò il regno e si fermò sotto un albero. Gli animali della foresta, curiosi, si avvicinarono per ascoltare le sue storie. 
«C’era una volta, in un regno lontano tra le alte montagne, un’aquila fiera e solitaria che dominava i cieli con la sua eleganza inconfondibile. Volava sopra le vette innevate, osservando il mondo dall’alto con occhi penetranti e saggi. Tutti gli animali della foresta la rispettavano e ammiravano la sua maestosità. Nello stesso regno c’era anche un corvo, impertinente e audace, con una buona dose di superbia, invidioso della regalità dell’aquila. Un bel giorno decise di sfidare sua maestà. 
Il corvo, con la sua arroganza, si posò sulla schiena dell’aquila e cominciò a beccarle il collo, convinto di poterla infastidire e distrarre. Gli altri animali, spettatori increduli, trattennero il fiato, immaginando che da lì a poco il corvo sarebbe stato ridotto a brandelli dal rapace. Ma l’aquila, con calma olimpica, non reagì, non sprecò nemmeno un battito d’ali per scacciare il piccolo volatile. 
Era come se sapesse, nel suo silenzio dignitoso, che c’era un modo migliore per risolvere la situazione. Con una serenità inaspettata l’aquila iniziò a salire verso l’alto. Il vento divenne più freddo e rarefatto, ma lei continuava a volare con le sue ali possenti che fendono l’aria. Il corvo, testardo e presuntuoso, non smetteva di beccare. A ogni metro guadagnato dall’aquila, l’aria si faceva più sottile e il corvo cominciava a sentirsi affaticato. I suoi colpi di becco si fecero più deboli, il suo respiro più affannoso. 
E l’aquila, imperturbabile, saliva ancora, sempre più in alto, verso il cielo limpido e infinito. Alla fine, il corvo non ce la fece più. Sfinito e senza fiato, si staccò dall’aquila e precipitò verso il basso. L’aquila non si voltò, non spese nemmeno un pensiero per il suo aggressore caduto. Continuò a volare verso le vette, libera e regale come se nulla fosse accaduto». 
Gli animali della foresta rimasero spaesati e sorpresi dalla storia raccontata dall’uomo. 
Un giovane scoiattolo, con gli occhi pieni di dubbi, si fece avanti e chiese: 
«Saggio viandante, come possiamo continuare a fare il bene e perseverare quando il mondo è così pieno di ingiustizie? Come possiamo non essere scoraggiati quando sembra che i nostri sforzi non facciano alcuna differenza?». 
« Non importa quanto gli altri siano irragionevoli, egoisti e insensati – rispose con voce ferma e calda il viandante –, voi dovete comunque continuare a fare il bene. Non importa quanto le vostre azioni possano essere fraintese o sottovalutate; voi dovete perseverare. Non lasciate che le piccole distrazioni vi portino via energia. Non combattete battaglie che non valgono il vostro tempo. 
Invece, come l’aquila, puntate sempre più in alto. Lasciate che siano i corvi a cadere per la loro stessa presunzione, mentre voi continuate a crescere, a volare, a vivere la vita al massimo delle vostre potenzialità». 

TRATTO da All’istinto del bene serve perseveranza Senza distrazioni di Marco Voleri in Avvenire del 30/05/2024

Una questione di mani per essere u-mani

Come si fa a non fuggire dal dolore, che sia il proprio o quello delle persone che ami?
Prendo spunto dal Blog di Alessandro D’Avenia e dalla sua riflessione sul quadro Compianto sul Cristo morto di Bellini.


«Nel ritaglio sacro del quadro si scorge un morto (Cristo), il cui corpo esangue è sorretto da un uomo (Giuseppe d’Arimatea), mentre una donna (Maria Maddalena) gli unge le mani rattrappite da colpi di chiodi, con l’olio che un altro uomo (Nicodemo) accigliato tiene in un vasetto. Mi vedo in quest’ultimo, fronte aggrottata dinanzi alla morte, pensieri come rughe, in cerca di risposte davanti a un muro: l’uomo della Vita è morto. Cadavere. Con sapienza compositiva l’artista mette al centro del quadro le mani dei protagonisti, ma soprattutto quelle della donna che accarezzano con l’olio la sinistra del morto che perde rigidezza, al contrario della destra ancora contratta. In quelle mani c’è la farmacopea alla mia incapacità: al fuggire o soccombere aggiungono un’altra via. 


Contemplavo il quadro guidato dalle parole della direttrice del museo Nadia Righi che spiegava come Bellini avesse rappresentato l’esperienza di tutti di fronte al dolore: il quadro dà forma a tutte le ferite vive e nascoste in noi, certifica l’impossibilità di trovare risposte astratte, la sconfitta dell’intelligenza e l’inadeguatezza delle parole. Tutti tacciono dentro e fuori dal quadro, sospesi, parlano le mani: la risposta è solo la cura, cioè rimanere, sostare. E io so stare? Fuggo o soccombo perché non ho risposte. E invece potrei restare proprio perché non le ho. Sono le mani a rispondere. Manutenzione, cioè “tenere nelle mani”, così diciamo per riferirci alla cura delle cose: della macchina, di un impianto, di un edificio. Ma le persone? “Teniamo per mano” quelle che amiamo e ci commuove chi ancora lo fa per strada, ma come si fa a “manu-tenerle”, a “man-tenerle”, quando il dolore o la morte li prendono. Stando. Sostando. So stare? […]».

Effettivamente il dolore non ci chiede tanto di trovarne la ragione (che non c’è), ma ci interpella: che vuoi fare? Ti lasci schiacciare o puoi cercare, invece, di lasciare che ti trasformi?

Continua d’Avenia:
«Noi non ci prendiamo cura delle persone perché le amiamo, ma impariamo ad amarle perché ci prendiamo cura di loro: curare è una scelta che ci trasforma, ci fa uscire da noi stessi, che è l’unica maniera di non fuggire o di non soccombere alla vera morte in vita, la chiusura in se stessi. Io fuggo o soccombo se penso solo a me stesso, invece se sosto, se so stare, mi salvo. 
L’amore, alla fine, è la quantità di vita di cui decidiamo di farci carico, che solo così si trasforma, anche quando è vita ferita. 
[…] Le mani fanno la cura, manutenzione. Non cercano risposte, sono la risposta. […] Eppure ormai lo sappiamo che ci vuole un abbraccio di almeno 30 secondi per permettere al corpo di produrre ossitocina, l’ormone che cura il dolore. E ciò accade sia in chi dà e in chi riceve: non si sa più chi abbraccia chi. Si è abbracciati dalla Cura. Ecco la terza via, quella che immette vita nella vita. Chi siamo noi che – è solo un gioco di suoni – nella nostra lingua abbiamo le mani nel nome: umani? E quanto – gioco ancora – possiamo diventare senza mani: disumani?» 

Da Ultimo banco, Corriere della Sera, 8 aprile 2024