Uscire dalla noia: come trasformare la vita quotidiana in vita eterna

Perché questo nostro ricominciare ci salvi dalla noia e ci trovi aperti e pronti a rendere il presente vita eterna.

Da A. D’Avenia, Riprendere e riprendersi in Corriere della Sera, 5 settembre 2022

La ripresa della routine quotidiana dopo le vacanze è spesso accompagnata dalla tristezza, come se si passasse dalla vita vera, quella libera della pausa estiva, a una vita prigioniera, fatta della ripetizione di gesti, orari e impegni prescritti. In questa ripetizione manca la gioia, che sembra dipendere solo dallo straordinario, come mostra la nostra iper-comunicazione social estiva. A corto di gioia quotidiana, viviamo l’ordinario per fuggirne. Come si fa invece a trovare lo straordinario nell’ordinario, la gioia nel quotidiano? 
In un bel film del 2016 di Jim Jarmusch, intitolato Paterson, nome sia della cittadina del New Jersey in cui si svolge la storia sia del protagonista (interpretato da Adam Driver), un autista ripete la sua routine quotidiana, come accade con le fermate del suo autobus. Eppure Paterson trova gioia proprio in quella ripetizione, non in quanto ripetizione, ma in quanto ripresa […]
Insomma le cose sono generose con noi non se le «aumentiamo» o manipoliamo, ma solo se trovano le nostre mani aperte. La nostra mancanza di gioia in fondo è sordità alla realtà: assurdo viene da «sordo», e la vita diventa assurda nella misura in cui noi siamo sordi ai suoi spunti. 
Ciò vale in qualsiasi ambito: lavoro, amore, luoghi… diventano noiosi e vuoti nella misura in cui li ri-petiamo e non li ri-prendiamo. Come fare? 
Se siamo aperti, liberi, in ascolto, quel lavoro, quell’amore, quel luogo… saranno occasione di «ri-

presa»
, cioè qualcosa che è sì come prima ma sempre con qualcosa di nuovo da darci, come quando riprendiamo (non nel senso di farne un video ma di tornare a guardarli senza stancarci) i tramonti, i volti, i libri… riprendere è trovare il nuovo nello stesso (ri-genera), invece ripetere è trovare lo stesso nello stesso (ri-produce). Nel riprendere c’è gioia, nel ripetere no. […]
Paterson, anche se «ripete» orari e percorsi, in realtà li «riprende»: trova bellezza nelle conversazioni che sente in autobus, nell’incontro con una bambina alla fermata, nelle stravaganze della moglie… E ci riesce semplicemente perché è aperto, sa ascoltare il mondo […].

Così tutto diventa «evento», cosa che lo porta a scrivere poesie su questi istanti eterni. In una di queste scrive che da bambini ci insegnano che la realtà ha tre dimensioni, come una scatola di scarpe, ma poi bisogna scoprire la quarta: il tempo. Da questa dimensione dipende la contentezza che lui prova anche solo bevendo una birra al bar: contento vuol dire «contenuto», la contentezza è l’esperienza dell’essere abbracciati dall’istante, da un tempo pieno di senso
Viviamo spesso fuori-tempo, senza ritmo e fuori dal presente: ci deprimiamo rimpiangendo il passato, precipitiamo nell’ansia proiettandoci nel futuro, e così ci scappa il presente, unico tempo capace di offrire spunti di gioia solo se noi gli siamo presenti, cioè aperti, in ascolto. […]
Frankl (psichiatra sopravvissuto ai campi di concentramento) capì che rimaniamo liberi se prendiamo sul serio il presente: «La svalorizzazione del presente, della realtà che circonda l’internato tende a far trascurare i possibili spunti per dare una forma alla realtà, spunti in qualche modo presenti anche nella vita del lager. La totale svalorizzazione della realtà induce a lasciarsi andare, poiché comunque tutto è inutile». La nostra mancanza di gioia dipende spesso da questa «svalorizzazione» del presente, a cui diventiamo sordi anche per la continua proiezione nel mondo immaginario della comunicazione e della pubblicità. […] 
Per gioire bisogna saper «rischiare» l’istante, ascoltarlo, persino amarlo… Solo così ogni lunedì sarà una ripresa: saremo noi a riprenderci dalla tristezza e a riprenderci la libertà. 
Nella quotidiana ripetizione Paterson ritaglia sempre del tempo per questo allenamento a rimanere aperto (leggendo, osservando, scrivendo), e così coglie le infinite possibilità che, come le parole celate in una pagina bianca, la realtà offre. 
Preferiresti forse essere un pesce? Si chiede a un certo punto. Senza nulla togliere ai pesci, l’autista-poeta sa che la condizione umana può essere una gioia se la si prende e ri-prende per il verso giusto. Solo chi ha orecchie e occhi aperti s’innamora dell’istante e trasforma la vita quotidiana in vita eterna
Ma quanto coraggio e quanto silenzio richiede tutto questo? 
Forse solo qualche minuto, ogni giorno, a partire da oggi. 


Un professore scrive ai suoi alunni

Cari studenti, Perdonateci se vi disturbiamo con queste due righe. In questo periodo, io e i miei colleghi vi troviamo particolarmente irrequieti e poco attenti. So che da quando stiamo vivendo questa situazione pandemica, la vostra e nostra vita è radicalmente cambiata e che dopo mesi di didattica a distanza, non vedevate l’ora di comunicare dal vivo la vostra gioia d’essere di nuovo in classe, di essere di nuovo tra i vostri amici. E se i vostri amici sono vicini a voi cosa fate? Non ci parlate? Non avete forse voglia di far sorridere gli occhi dei vostri compagni? Capiamo, che se tra voi, non vi è più un click o uno schermo, sembra quasi che dobbiate recuperare il tempo perduto durante i mesi precedenti, dove la socialità è venuta a mancare. Quella socialità che è fondamentale per la vostra crescita. Tutto questo è molto comprensibile, ma vorrei porvi alcune domande. Se non ci ascoltate, per che cosa venite in classe? Se non ci ascoltate per cosa ci siamo laureati? Se chiacchierate col vostro caro amico durante la nostra lezione, per cosa ci siamo specializzati? Per cosa abbiamo passato un complicatissimo concorso a cattedre? Se in classe pensate a cosa dovete fare più tardi, o cercate in maniera ossessiva il vostro telefonino, come possiamo noi incidere sul vostro sapere, come possiamo migliorare le vostre competenze? In classe ci siamo noi e voi. Entrambi ci siamo svegliati presto per incontrarci. Alcuni di noi molto presto, dopo aver percorso diversi chilometri e tutti noi facciamo tanti sacrifici per venire puntuali a scuola. Ma rimaniamo increduli se poi il risultato è che in classe non ci ascoltate, e ci domandiamo, inoltre, perché siate già stanchi ancor prima di iniziare. Se voi portate solo il vostro corpo e non la vostra attenzione e non seguite, vanificate tutti i nostri e i vostri sacrifici di essere qui con voi e per voi. L’insegnamento consiste nel dare, nel trasmettere, nel lasciare il segno, ma se voi non state attenti, il segno lo lasciamo sui banchi, non certo nelle vostre anime, nelle vostre menti. Noi dubitiamo che quando andate al ristorante o in un bar vi comportiate male, dubitiamo che quando ordinate una pizza, non stiate attenti a quale pizza ordinare. Certo, direte voi, qui si tratta di mangiare, un bisogno primario. Ebbene anche la conoscenza è un bisogno primario, perché vi permette di optare per le scelte giuste, per la “pizza” più buona, più sana ed economica. Abbiamo un’altra domanda da porvi: Cosa fareste voi se, mentre siete coinvolti nel fare qualcosa che vi piace o qualcosa che dovete fare, qualcuno vi disturbasse? Vi arrabbiereste? Vi domandereste: “ma che ineducato”, o lo apostrofereste con parole colorite sul volgare andante? Bene, voi se disturbate la lezione, siete alla stessa stregua di quel qualcuno che vi disturba mentre siete coinvolti a fare qualcosa che state facendo. Cari studenti, meno la scuola vi piacerà, più ci rimarrete. Ascoltare quello che ha da dire un vostro professore non è solo un atto dovuto di rispetto verso chi avete davanti, ma è anche un atto di riconoscenza verso i vostri genitori, che fanno tanti sacrifici per voi. Non dimenticate che siete privilegiati a potere stare in una classe. Ci sono milioni di ragazzi in tutto il mondo, che non hanno questo privilegio. Tornare a casa e trovare un pasto caldo è un altro privilegio. Non sprecate questa grande fortuna, non sprecate questa grande opportunità che si chiama scuola. Vi hanno messo al mondo anche perché voi possiate rappresentare al meglio i vostri genitori e vi assicuro che se studierete, se crescerete culturalmente e umanamente, sarete i loro migliori rappresentanti e anche i migliori rappresentanti di voi stessi. Non c’è bisogno che gli diciate “grazie”, il modo migliore col quale potete ringraziarli è istruirvi, essere educati e competenti. Perché ciò vi renderà indipendenti e persone di valore. Quel valore aggiunto all’educazione che vi renderà, insieme alla cultura, persone speciali. Ricordatevi che a scuola si imparano tante cose che sono fondamentali per la vita: la puntualità, la conoscenza, il saper stare assieme, il saper fare, il sacrificio e il sapere ascoltare, etc… E per potere ascoltare è necessario fare silenzio, prezioso alleato della saggezza, del rispetto dell’altro e di sé stessi. Non dimenticate che le scelte migliori si fanno sempre in silenzio. Ergo, ora prendete “carta e penna” ed ascoltate. Saprete aggiungere valore alle vostre “chiacchiere”. Valerio Giacalone Mazzucchelli

Czeslawa Kwoka, morta a 15 anni

Quando i tuoi occhi incontrano gli occhi del’altro come fai a non riconoscervi te stesso?
Non sto vaneggiando, ragazzi, ma non faccio altro che ripetere, questa volta in modo diverso, quanto diceva la canzone con cui abbiamo aperto l’anno scolastico. Ricordate? “Io sono l’altro” è il brano di un cantautore italiano che, in un certo senso, sta facendo da sfondo a tutte le proposte dell’ora di religione di questo anno scolastico.
“L’altro” che oggi vi propongo è una persona reale: una ragazzina poco più grande di voi.
Una ragazza poco più grande, al tempo della foto, anche di Liliana Segre, che già conosciamo e che allora di anni ne aveva tredici (come molti di voi, oggi).
Le cronache di questi giorni continuano, purtroppo, a raccontarci di intimidazioni, minacce e commenti indegni rivolti alla signora Segre, come se la barbarie di allora non avesse rinunciato ad appestare i pensieri di tanta gente.
Come si fa, guardando gli occhi di questa ragazza, a rimanere indifferenti?


CZESLAWA KWOKA – MORTA AD AUSCHWITZ A 15 ANNI. 
Non tutti i volti dei prigionieri, immortalati nelle fotografie durante il periodo di internamento nei campi di sterminio, hanno un nome. Anche se vogliamo ricordarli comunque, uno a uno. Queste fotografie, però, appartengono a una bellissima ragazza di 15 anni; Czeslawa Kwoka. 
Tutto quello che ci resta di Czesɫawa Kwoka è una serie di tre scatti che la inquadrano durante la sua prigionia nel campo di sterminio nazista di Auschwitz- Birkenau. Ci arrivò nel dicembre del 1942 insieme alla madre, ci morì nel marzo 1943 (un mese dopo la mamma) e non aveva ancora 15 anni. 
In questi scatti Czeslawa guarda dritto nella fotocamera del fotografo. Il fotografo è un prigioniero, polacco: un ventenne di nome Wilhelm Brasse, il cui gesto di ribellione al nazismo fu quello di non bruciare l’archivio fotografico che aveva contribuito a creare. 
Lo sguardo si Czeslawa è forte, determinato. Ma al contempo così puro. Una straordinaria bellezza da far male. Degli occhi asciutti dalle lacrime, che aveva versato poco prima. Si nota subito, negli scatti, un graffio sul volto. La spiegazione della ferita al labbro l’ha spiegata successivamente il fotografo: «Era così giovane e terrorizzata. La ragazza non capiva perché si trovasse lì, e non riusciva a capire quello che le era stato detto. Quindi una donna Kapo’ (chiamata anche Blokowa) prese un bastone e la picchiò sul volto. Questa donna tedesca stava sfogando tutta la propria rabbia sulla ragazza. Una bella ragazza, così innocente. La ragazza pianse, ma non poteva far niente. Prima che le scattassi la fotografia, la piccola si asciugò le lacrime e il sangue dal taglio sul labbro. A dire la verità, mi sono sentito come se fossi stato colpito io stesso, ma non ho potuto interferire. Sarebbe stata un’interferenza fatale. Non potevi dir nulla» 
Fonte: pagina FB di Un ponte per Anne Frank

Come stai messo ad empatia?

Se vi dicessi che lo stile comunicativo di Gesù ha a che fare con l’empatia penso che mi guardereste perplessi. Prima di tutto vediamo cosa si intende per empatia. In qualunque dizionario trovate più o meno questa definizione:
«capacità di immedesimarsi nelle condizioni di un altro e condividerne pensieri ed emozioni».
A questo punto riuscirete a seguirmi meglio perché, chi più chi meno, sapete che con la sua vita, Gesù ci insegna a vedere gli altri in un modo diverso, condividendo i loro sentimenti e sostenendoli nei momenti di delusione.
Sin dal principio, i discepoli hanno potuto testimoniare la sensibilità di Gesù: la sua capacità di mettersi nei panni degli altri, la sua delicata comprensione di ciò che accade nel cuore dell’essere umano, la sua acutezza nel percepire il dolore degli altri.
Provo ad elencarvi un paio episodi in cui si coglie questo immedesimarsi di Gesù: arrivando a Nain, senza che sia stata pronunciata parola, si fece carico della tragedia della vedova che aveva perso il suo unico figlio; davanti alla tomba dell’amico Lazzaro, pianse insieme a Marta e Maria.
Vi ricordo poi anche altri incontri di Gesù: Matteo, Zaccheo, la donna cananea, oppure l’adultera.
Lo sguardo di Gesù va oltre i pregiudizi, le differenze di cultura o le condotte di vita discutibili.
Non dimentichiamo però che per i cristiani Gesù è il Figlio di Dio che si è fatto uomo, che cioè ha condiviso la nostra stessa natura umana eccetto il peccato. Più empatia di così!
Lo stile comunicativo di Gesù, la sua stessa vita, testimoniano, per chi crede, l’amore di Dio, la relazione bella che Dio vuole costruire con ciascuno di noi.
Relazione ed empatia vanno, se così si può dire, a braccetto, perché non c’è empatia al di fuori di una relazione sincera con l’altro. Per essere più chiara vi faccio vedere questo video.

 

E’ il legame che costruiamo con gli altri che fa di noi delle persone più o meno empatiche.
Certo, non si è empatici se siamo concentrati in noi stessi, egoisti e invidiosi, pronti a giudicare e condannare.  A volte pur essendo empatici facciamo fatica ad esprimerci per timidezza e insicurezza. D’altro canto l’espansività non è automaticamente segno di empatia. L’empatia richiede delicatezza e capacità di vedere il bene anche dove sembra non ci sia. In fondo, proprio come faceva Gesù.
Vi propongo un test, tanto per riflettere sui nostri atteggiamenti. Come tutti i test non si tratta di dare un giudizio, ma di offrire un’occasione per acquisire consapevole dei nostri punti di forza o di debolezza.
Cliccando sull’immagine potete accedere al test.

Superficiali? No grazie

«La vita non è abbastanza. Allora cosa voglio? Voglio una decisione per l’eternità, qualcosa da scegliere e da cui non mi allontanerò mai, in nessuna oscura esistenza o qualunque altra cosa accada. E qual è questa decisione? Una qualche tipo di febbre della comprensione, un’illuminazione, un amore che andrà oltre, trascenderà questa vita verso nuove esistenze, una visione seria, finale e immutabile dell’universo. 
Questo è ciò che intendo quando dico che “voglio degli Occhi”. Perché dovrei volere tutto questo? Perché qui sulla terra non c’è abbastanza da desiderare, o meglio, qui non esista una singola cosa che io voglia. Perché non voglio una vita terrena? Perché non mi basta? Perché non mi illumina l’anima, non mi riempie il cervello di eccitazione e non mi fa piangere di felicità. Perché vuoi provare queste cose? Perché la ragione e le questioni di fatto, la scienza e la verità non me le fanno provare e non mi conducono verso l’eternità, anzi, mi soffocano come l’aria viziata, stantia».
Jack Kerouac, dal “Diario di Viaggio” 1949 (Un mondo battuto dal vento)

Interessante questo passo, che testimonia come nell’essere umano ci sia una sete di senso che ci richiama, prepotentemente, a non banalizzare la nostra vita.
Dobbiamo trovare il senso, perché l’alternativa alla mancata ricerca è la noia, l’anestesia del cuore e dell’anima, il cervello vuoto di eccitazione (a dirla usando le parole di Kerouac).
Mi sembra che tanto “sballo”, cercato non solo dai giovani ma anche dagli “adulti”, sia l’espressione di una fuga da questa ricerca, un tentativo di non sentire il male che si accompagna alla consapevolezza della nostra fragilità.
Ci siamo evoluti in questa fuga, ma nello stesso tempo ci siamo impoveriti di domande, quelle vere, quelle che spingono a trovare il senso. Stiamo tradendo noi stessi, la nostra stessa umanità. La superficialità vince sulla profondità a cui siamo costretti quando cerchiamo il senso.

Tra le tante citazioni che ho trovato sulla parola “superficialità” ne riporto una

«L’anima soffre – e soffre tremendamente allorché la costringiamo a vivere in maniera superficiale. L’anima ama le cose belle e profonde». (Paulo Coelho)

Tanta bruttezza che vediamo nel mondo può essere la conseguenza di questa superficialità che finisce per distruggere la nostra anima?

Leggiamo cosa diceva Hanna Arendt su Eichmann, il criminale nazista:

«Restai colpita dall’evidente superficialità del colpevole, superficialità che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi atti a un livello più profondo di cause e motivazioni. Gli atti erano mostruosi, ma l’attore risultava quanto mai ordinario, mediocre, tutt’altro che demoniaco e mostruoso. Nessun segno in lui di ferme convinzioni ideologiche o specifiche condizioni malvagie, e l’unica caratteristica degna di nota che si potesse individuare nel suo comportamento fu: non stupidità, ma mancanza di pensiero».

Si può affermare, rimanendo in linea con il pensiero della Arendt, che il bene è «radicale», proviene dalla mente, dalla riflessione e dal cuore; il male, al contrario, non si fonda su nulla, nemmeno sull’odio, ma è causato solo dalla totale incapacità critica. Di questo c’è da aver paura.
Per cui, ritornando a Kerouac, dobbiamo aprirci alle domande, e non rassegnarci alla superficialità che ci rende mediocri, insensibili, dis-umani.
L’aridità del pensiero diventa anche aridità del cuore e dell’anima.
Per cui:
Superficiali? No grazie.

Non siate pecore o pecoroni (Omaggio a mio padre)

Imparare a scegliere è un’arte difficile a cui occorre allenarsi sin da piccoli. È esercizio di una libertà che ci dimentichiamo di avere ogni volta che ci “accodiamo” alla folla.
Come tante pecore seguiamo il leader del momento, che spesso è del tutto inadeguato, tanto per non sentirci diversi dagli altri. Ma siamo così sicuri che ne valga la pena? Non potremmo pensare che essere fuori da un gruppo con valori inadatti possa essere un privilegio? Si. Un privilegio. Il privilegio di pensare con la nostra testa, di non essere condizionati dalle mode di turno. È faticoso, lo so. È certamente più facile lasciarsi trasportare dalla corrente. Ma a quale prezzo? Rinunciando a essere noi stessi perderemmo la nostra autenticità e unicità. Perché siamo unici e irripetibili, non siamo cloni.
Quante volte vi dico che potete essere meglio di quel che fate vedere, specialmente quando vi nascondete tra tante altre “pecore”?
Mio padre diceva a me e ai miei fratelli che per non essere pecoroni – per lui era peggio che essere pecore – dovevamo pensare con la nostra testa e, soprattutto,non venir mai meno a valori come l’onestà e la lealtà, anche a costo di essere esclusi o non capiti. Era un militare mio padre, che aveva fatto la guerra e che non si era mai “intruppato” .  Aveva invece sempre cercato di scegliere di stare dalla parte più giusta. A casa c’è un attestato in cui lo si elogia per il servizio prestato per la Marina Americana a Napoli dopo l’armistizio.

Dobbiamo essere pronti ad andare anche controcorrente se questo significa non adeguarsi a ciò che non è bello, giusto e vero. Facciamocele, ogni tanto, queste domande: Chi sto seguendo? Quali sono i miei modelli?

Ps Sono due anni, babbo, che sei con noi in modo diverso. Spero ti abbia fatto piacere, averti ricordato così.

Credo

Non potevo non condividerlo.



«Credo nello sguardo della Gioconda e nei disegni dei bambini.
Nell’odore dei panni stesi, e in quello delle mani di mia madre.
Credo che quando la barbarie diventa normalità, la tenerezza è l’unica rivoluzione.
Credo che la vera gioia sia sentirsi parte di un paesaggio incantevole, pur non essendo altro che un minuscolo granello di sabbia.
Credo che la lingua di Dio è il silenzio, e il suo corpo la Natura.
Credo alla potenza del soffione, quel minuscolo fiore selvatico che cresce ostinato tra le pieghe dell’asfalto e pure in mezzo a mille difficoltà, riesce comunque a germogliare e a diventare fiore. Credo che chi non vive il presente, sarà sempre imperfetto. Pure da trapassato.
Perché la vera sfida è debuttare ogni giorno, tutto il resto è repertorio.
Credo che non sia la bellezza che salverà il mondo, ma siamo noi che dobbiamo salvare la bellezza
e che non c’è peggior peccato che non stupirsi più di niente
e che tutta la scienza, la cultura e l’intelligenza del mondo non basta
e si inchini davanti a questo enorme mistero in cui tutti siamo avvolti,
al miracolo di questa vita che va avanti e si trasforma ogni momento.
Questa vita che non si ferma, che va contro tutto e tutti.
Perché la vita è l’unico miracolo a cui non puoi non credere».

Siete l’adesso di Dio. L’appello del Papa ai giovani.

«Cristo vive» e tutto ciò che tocca «diventa giovane, nuovo, si riempie di vita».
Il Papa ha scelto lo stile della lettera per parlare ai ragazzi all’indomani del Sinodo che ha messo al centro i lori sogni e i loro desideri, così come le ansie e le preoccupazioni per il futuro che verrà. «Christus vivit» è l’Esortazione apostolica, cioè il documento pubblicato a conclusione della grande assemblea svoltasi a ottobre sul tema: “I giovani, la fede, il discernimento vocazionale”.
Al centro – dei lavori di allora e oggi del testo di Francesco – la consapevolezza che i ragazzi non rappresentano solo il domani del mondo, ma lo devono vivere già oggi da protagonisti.
Sono, secondo un’immagine usata durante la Gmg di Panama, «l’adesso di Dio».
In proposito il Papa affronta tutti i problemi e le speranze dei giovani, dall’ambiente digitale «che ha creato un nuovo modo di comunicare», alla disoccupazione, questione che la politica deve mettere al primo posto. Dai migranti, con un no chiaro e netto verso ogni intolleranza, alla lotta agli abusi, in qualsiasi forma si manifestino. Fino al desiderio di «una Chiesa che ascolti di più, che non stia continuamente a condannare il mondo». Non silenziosa e timida ma nemmeno sempre in guerra, comunque disponibile al cambiamento, a cominciare dall’attenzione alle donne.
Una Chiesa, un mondo dove ci sia posto per tutti, dai bambini ai vecchi e in cui i giovani possano correre liberamente, ma pronti a rallentare, se necessario, per aspettare chi fa fatica.
TRATTO da Popotus del 4 aprile 2019