Una questione di mani per essere u-mani

Come si fa a non fuggire dal dolore, che sia il proprio o quello delle persone che ami?
Prendo spunto dal Blog di Alessandro D’Avenia e dalla sua riflessione sul quadro Compianto sul Cristo morto di Bellini.


«Nel ritaglio sacro del quadro si scorge un morto (Cristo), il cui corpo esangue è sorretto da un uomo (Giuseppe d’Arimatea), mentre una donna (Maria Maddalena) gli unge le mani rattrappite da colpi di chiodi, con l’olio che un altro uomo (Nicodemo) accigliato tiene in un vasetto. Mi vedo in quest’ultimo, fronte aggrottata dinanzi alla morte, pensieri come rughe, in cerca di risposte davanti a un muro: l’uomo della Vita è morto. Cadavere. Con sapienza compositiva l’artista mette al centro del quadro le mani dei protagonisti, ma soprattutto quelle della donna che accarezzano con l’olio la sinistra del morto che perde rigidezza, al contrario della destra ancora contratta. In quelle mani c’è la farmacopea alla mia incapacità: al fuggire o soccombere aggiungono un’altra via. 


Contemplavo il quadro guidato dalle parole della direttrice del museo Nadia Righi che spiegava come Bellini avesse rappresentato l’esperienza di tutti di fronte al dolore: il quadro dà forma a tutte le ferite vive e nascoste in noi, certifica l’impossibilità di trovare risposte astratte, la sconfitta dell’intelligenza e l’inadeguatezza delle parole. Tutti tacciono dentro e fuori dal quadro, sospesi, parlano le mani: la risposta è solo la cura, cioè rimanere, sostare. E io so stare? Fuggo o soccombo perché non ho risposte. E invece potrei restare proprio perché non le ho. Sono le mani a rispondere. Manutenzione, cioè “tenere nelle mani”, così diciamo per riferirci alla cura delle cose: della macchina, di un impianto, di un edificio. Ma le persone? “Teniamo per mano” quelle che amiamo e ci commuove chi ancora lo fa per strada, ma come si fa a “manu-tenerle”, a “man-tenerle”, quando il dolore o la morte li prendono. Stando. Sostando. So stare? […]».

Effettivamente il dolore non ci chiede tanto di trovarne la ragione (che non c’è), ma ci interpella: che vuoi fare? Ti lasci schiacciare o puoi cercare, invece, di lasciare che ti trasformi?

Continua d’Avenia:
«Noi non ci prendiamo cura delle persone perché le amiamo, ma impariamo ad amarle perché ci prendiamo cura di loro: curare è una scelta che ci trasforma, ci fa uscire da noi stessi, che è l’unica maniera di non fuggire o di non soccombere alla vera morte in vita, la chiusura in se stessi. Io fuggo o soccombo se penso solo a me stesso, invece se sosto, se so stare, mi salvo. 
L’amore, alla fine, è la quantità di vita di cui decidiamo di farci carico, che solo così si trasforma, anche quando è vita ferita. 
[…] Le mani fanno la cura, manutenzione. Non cercano risposte, sono la risposta. […] Eppure ormai lo sappiamo che ci vuole un abbraccio di almeno 30 secondi per permettere al corpo di produrre ossitocina, l’ormone che cura il dolore. E ciò accade sia in chi dà e in chi riceve: non si sa più chi abbraccia chi. Si è abbracciati dalla Cura. Ecco la terza via, quella che immette vita nella vita. Chi siamo noi che – è solo un gioco di suoni – nella nostra lingua abbiamo le mani nel nome: umani? E quanto – gioco ancora – possiamo diventare senza mani: disumani?» 

Da Ultimo banco, Corriere della Sera, 8 aprile 2024