Posso davvero fare ciò che voglio?

A volte non capiamo realmente il significato delle regole che ci vengono imposte, perché non riusciamo a vedere quanto siano utili e possano proteggerci. 
Non parlo solo del fatto di dover indossare una mascherina in una strada vuota o di non poter andare a scuola con un top. Queste sono cose che possono influire anche su altre persone. 
Parlo di tutte le volte in cui vogliamo mettere da parte tutte le questioni personali che sembrano influire solo su di noi. 

Giustizia per tutti
 
La frase “Ho il diritto di…” esprime una comprensione ridotta e limitata dalle legge e della giustizia. 
È vero che la giustizia consiste nel veder rispettati i nostri diritti e le nostre libertà, ma è anche vero che sulla giustizia si basano i nostri rapporti con gli altri: quello che devo loro e quello che ho diritto di esigere da loro. 
Questa concezione molto valida è ereditata da una tradizione antica, che è stata trasmessa nel corso della storia da Aristotele e San Tommaso d’Aquino ai moralisti e ai giuristi moderni. Questa concezione si basa su una forte intuizione: noi umani siamo “esseri per gli altri”. È per questo che non possiamo fare ciò che vogliamo. 
La vita sociale è la condizione per la nostra sopravvivenza, ma anche per una vita piena. 
La pratica della giustizia e del rispetto per ciò che è dovuto agli altri porta alla luce questo seme profondamente radicato in noi che è l’inclinazione alla vita sociale. 
Se, però, consideriamo la giustizia come il rispetto rigoroso di quello che ciascuno di noi deve agli altri, con imparzialità, esattezza e reciprocità, finiamo per intenderla come qualcosa di esteriore a noi stessi. Pensiamo che se protestiamo ed esigiamo indignati la società risponderà alle nostre richieste. Dall’altro lato, pensiamo che finché non violiamo i diritti altrui possiamo fare ciò che vogliamo. 
Una questione interna 
La giustizia trova la sua fonte nei nostri cuori. Deve regnare dentro di noi. 
Giustizia significa anche saper riconoscere la disposizione ammirevole di tutto il nostro essere: un’intelligenza appassionata a scoperte e nuovi orizzonti; una volontà capace di portarci lontano e di trasformare i nostri sogni più folli in progetti reali; un’immaginazione sempre pronta a nutrirsi di grandi storie e ad apprezzare la musica, la bellezza, l’arte. 
La prima forma di giustizia, allora, è la giustizia nei nostri confronti, quando amiamo tutto ciò che siamo, onorando quello che fa parte di noi, ogni elemento al suo posto. È per questo che Platone, e più tardi Sant’Agostino, vedevano nella giustizia una specie di ordine interiore. 
Quando apriamo la nostra mente a queste due visioni complementari di giustizia (interiore ed esteriore, per noi e per gli altri), comprendiamo che non tutto è permesso. 
La vera giustizia non trova la sua fonte nei vari tipi di legislazione che regolano la vita in comune. La giustizia trova la sua fonte, al di sopra di tutto, nel cuore di ciascuno di noi. 
La vera giustizia è quindi, per essenza, una specie di generosità: va al di là della legge. Si rifiuta di essere fredda e impersonale. 
La domanda da porsi, allora, non è “Sto ferendo qualcuno facendo questo o quello?”, ma “A chi sto facendo del bene?” 
Diritti e doveri 
Strano, ma è così. La lista dei nostri diritti sarà sempre più limitata di quella dei doveri, e lo scopo dei nostri doveri sarà sempre più ricco e ispiratore di quello dei nostri diritti. 
Ho dei doveri nei confronti degli altri perché sono miei fratelli e mie sorelle, e ho bisogno di loro come loro hanno bisogno di me. 
Non posso fare ciò che voglio. Ho dei doveri nei miei confronti perché sono il mio regno, e ho doveri nei confronti di Dio, che è il Creatore di questo regno – e ho scelto di viverci. 

Tratto da Jeanne Larghero – pubblicato da ALETEIA il 27/02/21


Si può fare davvero la differenza

Avete sicuramente visto la sua figura, di spalle, mentre in ginocchio implora i militari di non attaccare i giovani che manifestavano contro l’arresto della loro presidente, Aung San Suu Kij. Questa piccola suora ha dato una testimonianza di coraggio e di fede nella bontà dell’uomo e nella Provvidenza divina. Come cristiana non poteva certo assistere senza prendere posizione (ragazzi di terza, vi dice qualcosa?).

Per saperne di più vi condivido l’articolo pubblicato su Popotus, il supplemento del quotidiano Avvenire del 2 marzo.
 
Che cosa può fare una persona, da sola, davanti ai drammi della storia? 
 
Niente, verrebbe da rispondere. E invece non è così. Molte volte è proprio l’iniziativa di un singolo individuo a imprimere un corso inatteso agli eventi. È una questione di coraggio, ma anche di tempestività, che è la capacità di fare la cosa giusta al momento giusto. Quando l’ingiustizia è diventata troppo evidente, per esempio, e tutti sono davvero stanchi di quello che sta accadendo. 
A ricordarcelo è un episodio avvenuto nei giorni scorsi nella città di Myitkyina, capitale del Kachin, nel Nord del Mynamar. Il Paese asiatico, che molti conoscono come Birmania, è in una situazione di estrema tensione da oltre un mese, per l’esattezza dal 1° febbraio, quando un colpo di Stato militare ha rovesciato il governo presieduto da Aung San Suu Kyi, l’attivista politica premiata con il Nobel per la Pace nel 1991. 
Le proteste sono state immediate, così come le azioni di repressione da parte delle forze dell’ordine, che spesso sono sfociate nella violenza, provocando anche numerose vittime. Di fronte a tanta sofferenza una religiosa di Myitkyina, suor Ann Nu Thawng, ha deciso di fare qualcosa di assolutamente semplice: si è inginocchiata davanti alla polizia che stava intervenendo per sopprimere una manifestazione e ha impedito che gli scontri degenerassero. 
A rendere nota la vicenda è stato il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, che ha pubblicato sui social network le immagini della scena. 
Sì, una sola persona può davvero fare la differenza.


 

Quattro ragazzi e i pc per la Dad

Jacopo Rangone, studente diciottenne in un college dello Hertfordshire, insieme a tre coetanei, tutti milanesi come lui, è il fondatore del progetto PC4U.tech, che ha l’obiettivo di raccogliere, in caso ricondizionare, e ridistribuire gratuitamente i dispositivi usati (ma funzionanti) a quegli alunni di Milano e dell’hinterland che non ne dispongono. 
Il progetto è costituito da un sito Internet, attivo dalla fine di giugno, dove chiunque può donare o richiedere un computer usato semplicemente cliccando sulla casella corrispondente: ‘dona’ oppure ‘richiedi’. A quel punto, registrata l’ordinazione, il computer viene sanificato, impacchettato e consegnato a casa, senza spese aggiuntive. 
 «L’idea di quello che poi è diventato PC4U.tech è nata un giorno, durante i mesi di lockdown, dopo aver ascoltato il racconto di mia sorella a proposito della sua classe: molti suoi compagni di terza media, infatti, non avendo un pc o un tablet in famiglia, spesso non riuscivano a seguire le lezioni; alcuni usavano il telefonino per entrare, ma sappiamo tutti che non sono gli strumenti adatti per il remote learning. A quel punto ho avuto l’idea del sito web di facile fruizione, due bottoni e stop, e ho subito coinvolto tre amici: Matteo Mainetti, Emanuele Sacco e Pietro Cappellini. Poiché Matteo, mio amico d’infanzia, era l’unico tra noi ad avere una moto, il suo compito sarebbe stato quello di fattorino; Emanuele, appassionato di start up, avrebbe dovuto sviluppare la piattaforma mentre Pietro si sarebbe occupato della grafica web». 
Dal principio i quattro ragazzi volevano fare solo una decina di donazioni, ma grazie anche a qualche servizio giornalistico, le cose sono poi andate diversamente. «Ne abbiamo raccolte talmente tante che ci siamo trovati a dover cambiare la struttura del progetto e la logistica. Ci siamo trovati a dover soddisfare qualcosa come 300 richieste e 180 donazioni da parte di privati e di aziende: per questo abbiamo chiesto l’aiuto della cooperativa For-Te e del suo ottimo servizio di delivery svolto da persone con disabilità cognitiva », spiega Jacopo. «Anche per gli interventi di riparazione e inizializzazione dei dispositivi ci affianchiamo adesso ad una associazione no profit, Informatici Senza Frontiere, che condividono con noi la battaglia contro il digital divide».
Dalla fine dello scorso novembre i quattro ragazzi hanno fatto pure partire una campagna di crowdfunding, ora terminata, che ha raccolto oltre 18 mila euro: una cifra che consentirà di coprire le spese per le prossime 300 richieste (per il ricondizionamento, per l’acquisto di licenze di Windows 10 quando non sono incorporate nel pc, per il packaging e per la gestione amministrativa del progetto). Di recente il Parlamento europeo si è focalizzato sulla questione dell’accesso a Internet quale nuovo diritto umano e lo stesso governo italiano ha messo a disposizione pc e tablets in comodato d’uso agli studenti bisognosi: tuttavia sono ancora tante le famiglie, anche nell’agiata Milano e nel suo hinterland, che non possiedono un dispositivo per la scuola digitale dei figli. «Ma è il Paese intero ad averne bisogno e ce ne siamo accorti dalle richieste che abbiamo ricevuto – conclude Jacopo Rangone –. Il dispositivo dato in comodato d’uso non risolve il problema poiché una volta terminata la didattica a distanza deve essere restituito. Al momento siamo concentrati su Milano ma non escludiamo di estendere il progetto in altre città».
Tratto da Monica Zornetta, Il progetto di quattro studenti per regalare i pc per la Dad, in Avvenire del 7 gennaio 2020  






Uno sguardo può cambiarti la vita

C’era una volta un ragazzo cattivo, che si chiamava Daniel. Pensava di non dover studiare, o lavorare, per poter vivere, e che contasse solo esser ricchi. Così – aveva sì e no 15 anni – cominciò a minacciare e a picchiare i suoi coetanei, a rubare le borsette per strada e la merce nei negozi, finché divenne uno dei bulli più temuti del suo quartiere, alla periferia di Milano.Violento e spietato. Nemmeno quando fu arrestato, Daniel capì che doveva cambiare: anzi, continuava a comportarsi male e a prendere punizioni. Finché per la prima volta nella sua vita incontrò qualcuno – don Claudio, il cappellano del carcere minorile Beccaria – che non lo guardò come un ragazzo cattivo: «Sei migliore di così» disse don Claudio, e si prese Daniel nella sua comunità di recupero. Era il 2015.
Già dopo un anno il ragazzo cattivo non esisteva più: Daniel capì che aveva sbagliato e che la vita doveva avere tutto un altro senso. Cominciò a studiare, dall’Inferno di Dante Alighieri, un librone che gli aveva messo in mano un’anziana professoressa in carcere, che come don Claudio aveva visto qualcosa in lui. E con quelle storie di cattiveria e di dolore, con la poesia, con le regole di condivisione della vita in comunità e il sostegno della sua famiglia, Daniel ricominciò a camminare. Qualche giorno fa questo ragazzo si è laureato brillantemente all’Università Cattolica di Milano in Scienze della formazione. Da bullo che era, oggi, da educatore, vuole spiegare ai ragazzi come si può diventare grandi nonostante gli sbagli, o forse anche grazie a quelli.
Ad assistere alla sua tesi di laurea, oltre a don Claudio e alla professoressa dell’Inferno di Dante, c’era anche il giudice del Tribunale per i minorenni di Milano che lo fece condannare tante volte, fino a costringerlo al carcere: «È una grande vittoria di tutti noi, questa» ha detto stringendolo fra le braccia come una seconda mamma. La pm, insieme a Daniel, gira le scuole e incontra gli studenti raccontando che si può «non cedere alla tentazione del lato oscuro della forza. Lui è riuscito a trovare dentro di sé la forza del cavaliere Jedi e in questo è un esempio per i ragazzi».
Il primo ragazzo affidato a Daniel si chiama Bragan, ha 17 anni. Era un ragazzo cattivo, finché Daniel non l’ha guardato come don Claudio ha fatto con lui.
Adattato da Popotus del 18 febbraio 2020


Ogni guerra è un fratricidio

Alcuni spunti di riflessione dal Messaggio del Papa per la 53ª Giornata mondiale della pace, che sarà celebrata il prossimo 1° gennaio.
Titolo del testo è “La pace come cammino di speranza: dialogo, riconciliazione e conversione ecologica”.

La pace è un bene prezioso, oggetto della nostra speranza, al quale aspira tutta l’umanità.

Ogni guerra, in realtà, si rivela un fratricidio che distrugge lo stesso progetto di fratellanza, inscritto nella vocazione della famiglia umana.

La guerra, lo sappiamo, comincia spesso con l’insofferenza per la diversità dell’altro, che fomenta il desiderio di possesso e la volontà di dominio. Nasce nel cuore dell’uomo dall’egoismo e dalla superbia, dall’odio che induce a distruggere, a rinchiudere l’altro in un’immagine negativa, ad escluderlo e cancellarlo.

La pace e la stabilità internazionale sono incompatibili con qualsiasi tentativo di costruire sulla paura della reciproca distruzione o su una minaccia di annientamento totale; sono possibili solo a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana di oggi e di domani». ( Discorso sulle armi nucleari, Nagasaki, Parco “Atomic bomb hypocenter”, 24 novembre 2019).

Ogni situazione di minaccia alimenta la sfiducia e il ripiegamento sulla propria condizione. Sfiducia e paura aumentano la fragilità dei rapporti e il rischio di violenza, in un circolo vizioso che non potrà mai condurre a una relazione di pace. In questo senso, anche la dissuasione nucleare non può che creare una sicurezza illusoria.
Perciò, non possiamo pretendere di mantenere la stabilità nel mondo attraverso la paura dell’annientamento, in un equilibrio quanto mai instabile, sospeso sull’orlo del baratro nucleare e chiuso all’interno dei muri dell’indifferenza, dove si prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi dello scarto dell’uomo e del creato, invece di custodirci gli uni gli altri. ( Cfr. Omelia a Lampedusa, 8 luglio 2013).

Come, allora, costruire un cammino di pace e di riconoscimento reciproco? Come rompere la logica morbosa della minaccia e della paura? Come spezzare la dinamica di diffidenza attualmente prevalente? Dobbiamo perseguire una reale fratellanza, basata sulla comune origine da Dio ed esercitata nel dialogo e nella fiducia reciproca. Il desiderio di pace è profondamente inscritto nel cuore dell’uomo e non dobbiamo rassegnarci a nulla che sia meno di questo.

Aprire e tracciare un cammino di pace è una sfida, tanto più complessa in quanto gli interessi in gioco, nei rapporti tra persone, comunità e nazioni, sono molteplici e contraddittori. Occorre, innanzitutto, fare appello alla coscienza morale e alla volontà personale e politica. La pace, in effetti, si attinge nel profondo del cuore umano e la volontà politica va sempre rinvigorita, per aprire nuovi processi che riconcilino e uniscano persone e comunità.

Il mondo non ha bisogno di parole vuote, ma di testimoni convinti, di artigiani della pace aperti al dialogo senza esclusioni né manipolazioni. Infatti, non si può giungere veramente alla pace se non quando vi sia un convinto dialogo di uomini e donne che cercano la verità al di là delle ideologie e delle opinioni diverse. La pace è «un edificio da costruirsi continuamente » (Conc.Ecum.Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 78), un cammino che facciamo insieme cercando sempre il bene comune e impegnandoci a mantenere la parola data e a rispettare il diritto. Nell’ascolto reciproco possono crescere anche la conoscenza e la stima dell’altro, fino al punto di riconoscere nel nemico il volto di un fratello.

Il processo di pace è quindi un impegno che dura nel tempo. È un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune, più forte della vendetta. In uno Stato di diritto, la democrazia può essere un paradigma significativo di questo processo, se è basata sulla giustizia e sull’impegno a salvaguardare i diritti di ciascuno, specie se debole o emarginato, nella continua ricerca della verità. (Cfr. Benedetto XVI, Discorso ai dirigenti delle Associazioni cristiane lavoratori italiani, 27 gennaio 2006).

Come sottolineava san Paolo VI, «la duplice aspirazione all’uguaglianza e alla partecipazione è diretta a promuovere un tipo di società democratica […]. Ciò sottintende l’importanza dell’educazione alla vita associata, dove, oltre l’informazione sui diritti di ciascuno, sia messo in luce il loro necessario correlativo: il riconoscimento dei doveri nei confronti degli altri. Il significato e la pratica del dovere sono condizionati dal dominio di sé, come pure l’accettazione delle responsabilità e dei limiti posti all’esercizio della libertà dell’individuo o del gruppo». (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 24).

Al contrario, la frattura tra i membri di una società, l’aumento delle disuguaglianze sociali e il rifiuto di usare gli strumenti per uno sviluppo umano integrale mettono in pericolo il perseguimento del bene comune. Invece il lavoro paziente basato sulla forza della parola e della verità può risvegliare nelle persone la capacità di compassione e di solidarietà creativa.

Nella nostra esperienza cristiana, noi facciamo costantemente memoria di Cristo, che ha donato la sua vita per la nostra riconciliazione (cfr Rm 5,611). La Chiesa partecipa pienamente alla ricerca di un ordine giusto, continuando a servire il bene comune e a nutrire la speranza della pace, attraverso la trasmissione dei valori cristiani, l’insegnamento morale e le opere sociali e di educazione.

La Bibbia, in modo particolare mediante la parola dei profeti, richiama le coscienze e i popoli all’alleanza di Dio con l’umanità. Si tratta di abbandonare il desiderio di dominare gli altri e imparare a guardarci a vicenda come persone, come figli di Dio, come fratelli. L’altro non va mai rinchiuso in ciò che ha potuto dire o fare, ma va considerato per la promessa che porta in sé. Solo scegliendo la via del rispetto si potrà rompere la spirale della vendetta e intraprendere il cammino della speranza.

Ci guida il brano del Vangelo che riporta il seguente colloquio tra Pietro e Gesù: «“Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”» ( Mt18,21- 22). Questo cammino di riconciliazione ci chiama a trovare nel profondo del nostro cuore la forza del perdono e la capacità di riconoscerci come fratelli e sorelle. Imparare a vivere nel perdono accresce la nostra capacità di diventare donne e uomini di pace.

La via del perdono

Il perdono come unica strada possibile?
Riporto alcuni stralci dell’intervista di Antonio Giuliano, apparsa su Avvenire del 23 novembre, allo psicologo Camillo Regalia, ordinario di Psicologia sociale alla Cattolica di Milano.

Da Shakespeare e Tolstoj a Puccini e Bergman: lei spesso cita i capolavori della letteratura, del cinema o dell’opera per ribadire che la decisione di perdonare o meno riguarda l’uomo di ogni tempo.
Da sempre nelle nostre vite abbiamo da perdonare o essere perdonati. Ogni persona avverte il bisogno di sentire dagli altri uno sguardo diverso. In fondo il perdono è uno sguardo diverso che tu dai a un altro: c’è chi può non farsene niente, ma è difficile rimanere del tutto insensibili. Perché il perdono può bloccare una catena di risentimento, di rabbia e di malessere che spesso impedisce a chi ha subito una ferita di poter tornare a vivere. E può rilanciare i rapporti sociali. Senza però intendere il perdono come “dimenticanza”. Perdonare non vuol dire infatti dimenticare, ma non rimanere prigionieri del passato.
Perché oggi c’è bisogno di una cultura del perdono?
Per riconoscere innanzitutto che le persone spesso, anche se non sempre in maniera consapevole, feriscono e fanno star male gli altri. Viviamo in un tempo in cui si è amplificato un bisogno fondamentale dell’uomo, quello di socialità. L’esplosione dei social ci fa pensare che abbiamo sempre più necessità di stare con gli altri. Ma spesso nella relazione prevale solo il bisogno del singolo a discapito della reciprocità. Oggi le persone si sentono più autorizzate a comportarsi in maniera strumentale con gli altri. E se trattiamo l’altro come mezzo e non come fine, come già ammoniva Kant, la possibilità di ferire, di ingannare o di far male aumenta. Spesso l’incremento delle relazioni si accompagna a questi conflitti e queste tensioni.
È facile parlando di perdono scivolare nel buonismo…
Trovo insopportabile il “perdonismo”: i perdoni dati e richiesti troppo facilmente, senza consapevolezza di ciò che è stato. Il perdono è un percorso che richiede tempo. È un dono e quindi non può essere preteso. In una società come la nostra che va di fretta spesso sentiamo persone che commettono atrocità incredibili dire: “chiedo subito perdono”. Ma il perdono ha i suoi tempi che sono di sofferenza, sia per chi ha subito il danno che per chi l’ha inferto. Richiedono l’attraversamento di un deserto che può essere breve ma anche tanto lungo. E l’attraversamento non è scontato. Di fronte a chi perdona subito o chiede di essere perdonato subito ho sempre un po’ di perplessità.
A volte la reazione a un torto subito può essere feroce. 
Ci sono ferite che mettono in discussione la tua identità e ti umiliano e suscitano reazioni di fuga o spesso di vendetta. Sono reazioni “comprensibili”: a me sembra strano infatti che chi subisca un torto grande non provi rabbia o non desideri, magari non necessariamente la vendetta, ma comunque di restituire all’altro qualcosa “per farsi giustizia”. Il punto è che se poi ti vendichi, ti metti in una condizione di ulteriore tensione con la persona con la quale ti sei vendicata, perché l’aggressività scatena altra aggressività. C’è il rischio che non termini mai questa spirale perché si rimane prigionieri di un sentimento negativo.
Lei ha studiato da vicino anche i casi dei parenti delle vittime degli Anni di piombo.
Sì anche se qui bisogna riconoscere il risvolto pubblico del perdono. Spesso non si perdona fin quando non viene fatta piena luce su ciò che è successo così come diventa difficile perdonare quando manca l’assunzione di responsabilità di chi ha commesso i delitti. Alcuni però sono riusciti nel tempo a perdonare. Come una persona che aveva perso il papà poliziotto: dopo anni ha detto “basta, non posso vivere più con questo odio, non è più vita”. E da lì è cominciato un percorso che l’ha portato anche a incontrare gli assassini. Ha sperimentato la sensazione di liberazione del perdono: fin quando continuo a cercare la vendetta nei confronti di qualcuno sono legato a lui. Se invece riesco a rompere questo schema, mi sento libero con me stesso. Poi non è detto che al perdono debba seguire la riconciliazione. Il perdono è un atto personale e posso anche perdonare una persona che non c’è più, perché mancata o lontana, o ritenere che non sia opportuno ripristinare un rapporto con chi mi ha ferito.
Ci sono delle offese imperdonabili?
Per alcuni filosofi ci sono dei delitti, come la Shoah, che sono imperdonabili. Eppure ci sono persone che hanno subito e vissuto quelle esperienze che affermano di avere perdonato. Io dico che ci sono sicuramente eventi che rendono molto difficile perdonare. Però c’è anche chi riesce a perdonare l’uccisione di un figlio. Entrano in gioco tanti fattori, ma dai lavori di ricerca emerge che un ruolo decisivo può giocarlo la fede. Soprattutto il cristianesimo, la religione che più di altre ha messo al centro del suo messaggio il concetto di perdono. Anche se la fatica e il percorso del perdono valgono anche per chi ha una fede autentica e profonda.
Si può imparare a perdonare?
Non si può insegnare come una materia scolastica, ma certamente si possono educare sin da subito i bambini a riconoscere che tutti possono fare del bene e anche del male, ma che il male o le sofferenze non sono mai l’ultima parola. Che le persone possono anche deluderti o ferirti ma che esiste una risposta diversa alla rabbia o alla vendetta. E che alla fine perdonare “conviene”: per te perché ti liberi dentro, per l’altro perché gli dai un’opportunità, per la società perché rende probabilmente meno conflittuali i rapporti e anche per il legame di coppia perché si ha se non altro una chance in più.
Sulla coppia ha scritto un saggio interessante Ci perdiamo o ci perdoniamo? (San Paolo) in cui spiega che il matrimonio è in fondo «l’unione di due persone che imparano a perdonarsi ». 
Anche in questo caso perdonare offese gravi, come violenze o tradimenti, può essere davvero difficile. Dipende da tanti fattori come la cultura e l’educazione ricevuta e la qualità del legame. E ci si può far influenzare dal contesto odierno per cui le separazioni sono ritenute una facile opportunità. Dico però che se l’amore fosse solo narcisismo, come sembra suggerire Freud, spazio per il perdono non ce ne sarebbe. Il narciso non può accettare che qualcuno lo ferisca. E invece solo chi accetta la propria e l’altrui debolezza è capace di perdonare. Bisogna maturare la consapevolezza che ogni amore è imperfetto e che il perdono è come la crepa nel muro di cui parla Cohen in una canzone: le offese e i risentimenti creano dei muri, ma il perdono è una crepa che può far passare una luce nuova, capace di aprire un’altra prospettiva.

Giada e la vita

Giada Mulazzani ha 33 anni ed è da 15 anni che è paralizzata dal collo in giù.
«Questi sono i regali che ci fa il sabato sera in discoteca», disse il primario dell’ospedale di Treviglio, in provincia di Bergamo, la notte del 16 gennaio 2005, quando l’automobile guidata dal suo amico Charlie sfrecciò fuori strada uccidendolo sul colpo e sbalzando fuori Giada, allora 19 anni.
«Passo le giornate intere a chiedere. Apro gli occhi la mattina e aspetto di essere girata, quindi mi lavano, mi coprono di crema, mi vestono… successivamente mi ridanno la voce che, per motivi sanitari, mi viene tolta poco prima di addormentarmi. Ci sono una cinquantina di operatori che ormai conoscono il mio corpo meglio di me. Vivo in questo centro con altre 39 persone disabili gravi come me che, a differenza di chiunque di voi, io non ho scelto…».
Ha scritto un libro, Ricomincio dal mio sorriso, che è stato presentato al Teatro Nuovo di Treviglio, «la città dove ho vissuto gli anni veri della mia vita, diciannove». Nel libro svela la ragazzina ombrosa che era, «pronta per spaccare il mondo ma anche ribelle fino a farsi bocciare tre volte alle superiori e due a scuola guida, la classica “è intelligente ma non si impegna”.
Tre anni fa ha voluto andare a Roma per incontrare papa Francesco, «lui sì è tosto, promosso a pieni voti». Voleva raccontargli la sua storia ma la voce le è mancata, «non perché gli infermieri me l’avessero tolta ma per l’emozione. Mi guardava con tale interesse e profondità che sono riuscita a dirgli solo l’essenziale, ovvero “sono Giada”. Mi ha abbracciata e mi ha chiesto di pregare per lui… solo che non so farlo nemmeno per me».
Vorrebbe fare la dura, invece è un misto indefinibile di dolcezza e saggezza, due qualità maturate su quella sedia a rotelle che guida con la bocca. Basta che qualcuno le avvicini alle labbra il joystick e lei, senza smettere di sorridere, dirige la sedia, governa il cellulare, va sui social, gira per Inzago… «sempre con qualcuno, però, perché se si staccasse il ventilatore guai! Mi è già capitato e che panico quei 40 secondi…». Attaccata alla vita, più di quanto non creda.
«Non mi sono mai disperata, la sola cosa che mi fa male è pensare di essere di peso. Quando sei sano ti pare che non potresti mai vivere così, invece poi ti cambia la prospettiva e lo accetti… Mi dicono che faccio molto per gli altri, che do forza a voi, che sono un grande esempio, beh, ne farei volentieri a meno», ride, poi torna seria: «In una scuola una ragazzina mi ha chiesto se piuttosto che stare così non sarebbe meglio morire. Le ho risposto che finché amo e sono amata sono contenta di vivere. Mi piace ancora il sole, risentire i profumi e i sapori grazie allo stimolatore diaframmatico che mi permette di stare ore senza respiratore, persino di fumare e mangiare la pizza con gusto. Solo due cose possono farci chiedere di morire: il dolore fisico e sentirci un peso per gli altri, toglietecele entrambe e la vita sarà bella anche per noi».

Adattato da Giada, che vive da dentro, di Lucia Bellaspiga in Avvenire del 6 ottobre 2019.

https://giornaleditreviglio.it

Non rubiamoci il futuro!!!

L’accorata denuncia di Greta è come un pugno allo stomaco. Questo è l’effetto che fa a me. Bisogna essere proprio ciechi per non rendersi conto che il mondo sta lanciando segni di grande sofferenza e quel futuro di distruzione che pensavamo non ci dovesse riguardare, in realtà si sta compiendo a ritmi vertiginosi.
Non tutto il mondo scientifico è concorde nel ritenere che i cambiamenti climatici siano conseguenza dell’aumento di CO2 nell’atmosfera, ma è indubbio che l’uomo stia sfruttando questo pianeta come se non dovesse esserci un domani da consegnare alle future generazioni. Non so se ve ne siete accorti, ma il 29 luglio scorso è stato l’Earth Overshoot Day, cioè il giorno in cui la Terra ha esaurito le sue risorse naturali annuali. Preciso il concetto: il 29 luglio, le risorse naturali della Terra per il 2019, come l’aria, l’acqua e il cibo, sono terminate. Significa quindi che la nostra domanda di aria, acqua e cibo ha superato la capacità del pianeta di rigenerare quelle risorse nel corso di un anno – e che, dalla fine del mese di luglio, stiamo attingendo alle riserve, consumando molto più di quello che dovremmo.
Penso che vi sia chiaro che il nostro stile di vita occidentale non è più sostenibile dal punto di vista ambientale. Aggiungerei anche dal punto di vista etico. Si, etico, perché non è moralmente giusto che le ricchezze della Terra non siano distribuite in modo equo, che il profitto per pochi generi nuove forme di schiavitù per altri.
I ghiacciai che si sciolgono, i tornado e i tifoni che si abbattono con violenza sulle coste, le bombe d’acqua e tanti altri fenomeni estremi sono eventi atmosferici che possiamo associare, in un parallelismo che avviene spontaneo, ai fenomeni estremi che accadono a livello sociale: la povertà che cresce, l’esodo di chi fugge dalla guerra e dalla fame, l’atteggiamento di chiusura e disprezzo verso chi è diverso da noi. Dobbiamo seriamente ripensarci come esseri umani, perché se continuiamo a pretendere di farci dio, cioè supremi detentori di ciò che in realtà ci è affidato, distruggeremo il nostro futuro.

Imparare a vivere per saper morire

Vi riporto la riflessione di don Maurizio Patriciello su Nadia Toffa (Avvenire del 20 agosto 2019).
In questi giorni ci siamo commossi per la scomparsa di questa conduttrice televisiva e giornalista italiana che non ha fatto mistero della sua malattia, ma che anzi, con il suo coraggio e la sua determinazione ha cercato di dare forza e coraggio a chi come lei doveva lottare per la guarigione. Don Patriciello, che ha officiato i suoi funerali, con le parole che seguono ci aiuta ad andare più in profondità e a scoprire la testimonianza lasciata da questa giovane donna.

«Voglio imparare. Il tempo stringe e io debbo imparare. Imparare a vivere per saper poi morire». Nella vita non sempre ci rendiamo conto dell’importanza del dover imparare a vivere. Si vive e basta. Un fatto scontato, istintivo, naturale. E questo è grande errore. Sono passati pochi giorni dalla morte di Nadia Toffa, la giornalista e conduttrice tv bresciana, che ha scosso l’Italia. In tanti ci siamo chiesti il perché. Qualcuno, grossolanamente, ha liquidato la faccenda parlando di una sorta di reazione emotiva. Le emozioni hanno la loro importanza, non c’è dubbio, ma da sole dicono ben poco. La parabola di Nadia Toffa – discendente secondo una logica solo umana; ascendente secondo la logica di Dio – inizia da lontano, da quando per le prime volte la vedemmo affacciarsi sullo schermo. Una ragazza bella, slanciata, cocciuta, intraprendente. Schietta, brava, coraggiosa. I più giovani si specchiavano in lei, magari con un pizzico di benevola invidia. I più anziani la consideravano alla stregua di una figlia da proteggere. Una giovane destinata al successo, Nadia. Simpatica, brava, coinvolgente. Sarebbe arrivata lontano.
Una mattina, come un fulmine a ciel sereno, in un albergo di Trieste, perse i sensi. Sarebbe stata lei stessa, mesi dopo, a confessare di avere il cancro. I telespettatori rimasero sconcertati. Cancro, parrucca, chemio, sono parole da esorcizzare, lei invece ne parlava con serenità. Era finta, calcolata, per chissà quali scopi quella serenità, o faceva sul serio quella giovane giornalista? No, Nadia, non stava barando, non era capace di barare. In lei si specchiarono migliaia di ammalati di cancro, i loro parenti, i loro amici. E ancora una volta, Nadia accettò di diventare la portavoce dei malati. Un popolo al quale non sempre i cosiddetti sani assicurano la giusta comprensione e i diritti cui hanno diritto. Nadia capì che le veniva chiesto molto perché molto le era stato dato.
Accolse come una sorta di ‘vocazione’ il male che l’affliggeva e dal quale fece di tutto per guarire. Intanto, però, da quel male si lasciava ammaestrare. Nulla doveva andare perduto. Dalla sofferenza imparava. E le giornate, quando il dolore le dava tregua, le sembrarono più lunghe, le sere più dolci, il cielo più azzurro, gli amici più cari. Imparò che tutto viene da Dio. E gridò al mondo la sua fede. «Dio non è cattivo, credetemi, Dio non è cattivo ».
Nadia, inchiodata in un letto di dolore, stava evangelizzando il dolore. Con Dio iniziò a dialogare e litigare, come sapeva fare lei, cocciuta, ma mai cattiva. E comprese che la preghiera, da noi cristiani tante volte trascurata quando la vita ci sorride, era un ‘abbraccio’. L’abbraccio caldo e rassicurante di Dio alla sua creatura. E volle comunicare ai fratelli in umanità la scoperta fatta.
Imparava a vivere, Nadia. O, meglio, andava perfezionando la lezione iniziata tanti anni prima. Imparò ad amare la vita anche nei giorni del dolore. Capì che la Nadia di un tempo andava sfiorendo, non sarebbe tornata più. Ma non ne fece un dramma. Con lei ho avuto un rapporto limpido, onesto, discreto, che si è andato intensificando negli ultimi mesi. «Continuo la chemio e non mollo. Sorrido e accetto tutto quello che Dio ha disegnato per me. Porto nostro Signore nel cuore e vedremo cosa deciderà per me. Porgo la mia anima vicino al suo immenso cuore. Grazie di esistere, padre. Le voglio bene».
Per gli auguri di Natale, le scrissi: «Nasconditi, Nadia sempre cara, come un uccellino, nelle fenditure della Roccia. La tempesta, il freddo, la neve, il gelo, le raffiche di vento, nulla potranno contro la Roccia che ti ripara. Lasciati cullare come un bambino sul seno della mamma. Non opporre resistenza. Dio è più grande del nostro povero cuore. Ti ama. Sei sua. Gli appartieni. Ti brama. In questa certezza, riposa». Poche ore dopo, la brillante giornalista, chiamandomi per la prima volta col solo nome di battesimo, rispondeva: «Grazie, Maurizio. Mi metterò al riparo tra le sue braccia. Io non ho paura per me ma per la mia cara mamma».
 Papa Paolo VI, bresciano come lei, ci disse che «il mondo, oggi, non ha bisogno di maestri ma di testimoni». Nadia Toffa lo è stata. Per questo l’Italia intera ha pianto la sua morte e continua a volerle bene.