L’acqua che indossiamo

Quando portai le classi all’expo a Milano nel 2015, ricordo che rimasi colpita dall’inquinamento che producono gli allevamenti di bestiame. Insomma, il nostro regime alimentare, fatto di bistecche e hamburger, contribuisce non solo ad impoverire la terra (di foreste, ad esempio) ma anche ad inquinarla con le emissioni di CO2. 
L’altro giorno su Popotus, l’inserto del quotidiano Avvenire (del 23 febbraio), leggo che anche le magliette e i jeans che indossiamo contribuiscono ad impoverire il nostro pianeta. 
Senza fare terrorismo (perché già il periodo che stiamo vivendo non è granché), credo però che sia bene conoscere anche questi aspetti. Vi lascio l’articolo, su cui avremo modo di confrontarci. 

Se andate su Google Maps e cercate il Lago d’Aral, troverete una modesta distesa d’acqua sulla destra del Mar Caspio, tra il Kazakistan e l’Uzbekistan. Fino a circa 60 anni fa questo lago era quattro volte più grande. Il motivo del suo prosciugamento è legato soprattutto alla coltivazione del cotone (l’Uzbekistan è uno dei maggiori produttori al mondo) che richiede enormi quantità d’acqua. E siccome la zona è diventata più arida anche a causa del surriscaldamento climatico, negli anni il lago è diventato un laghetto. 
Il cotone serve all’industria tessile, il settore maggiormente responsabile del consumo di acqua dopo l’agricoltura. Per fare una sola maglietta di cotone servono 2.700 litri d’acqua e per un paio di jeans, che devono essere immersi più volte nelle vasche per i tanti cicli di tintura, ne occorrono dagli 8.000 ai 10.000. 
Quando compriamo una maglietta o un paio di pantaloni, dovremmo ricordarci dell’impatto che il nostro gesto può avere sull’ambiente, in particolare se questo prodotto non è realizzato con tecnologie sostenibili o non ha una filiera controllata che possa certificare processi produttivi rispettosi del lavoro e dell’ambiente. Ma soprattutto dovremmo tenerlo presente quando buttiamo via qualcosa che non ci piace più o che è passato di moda, oppure scartiamo un capo di abbigliamento che si è rovinato in fretta perché di bassissima qualità. 
Secondo la Fao, l’agenzia Onu per l’alimentazione e l’agricoltura, negli ultimi 20 anni le riserve di acqua dolce si sono ridotte di un quinto, in gran parte a causa di spreco nelle coltivazioni agricole in Paesi dove l’uso dell’acqua è poco controllato o viene regalata per favorire grandi imprese. 
Ma anche il settore tessile preoccupa. Ogni anno, per fare un esempio, vengono prodotti due miliardi di paia di jeans, e il consumo mondiale di indumenti è previsto in aumento del 60% entro il 2030. Insomma, l’abbigliamento rischia di prosciugare le risorse idriche del pianeta. Con gravi danni per le popolazioni più povere. 
Per fortuna, grazie alla presa di coscienza del problema da parte dei consumatori, l’industria tessile sta trovando modi di produrre più sostenibili. Una multinazionale chimica svizzera di recente ha annunciato un sistema per fare i jeans con il 90% di acqua in meno. 
L’importante è che le persone continuino a essere attente e a fare la loro parte avendo stili di vita e di consumo responsabili.