Enrico è stato più forte della sua disabilità

Enrico Cancelli è un ragazzo di trieste affetto dalla sindrome di Down che è riuscito a sferrare un calcio alla sua patologia. All’esame di maturità ha ottenuto la votazione di 100 centesimi.
DIPLOMA PROFESSIONALE – La svolta per lo studente è arrivata nel 2009, quando ha iniziato ad utilizzare una tecnica che consente di colmare il gap tra capacità cognitiva ed espressiva. Ne parla Il Piccolo in un articolo a firma di Cristina Serra: Mentre stringe tra le mani il suo “attestato di maturità”, Enrico sorride tra il perplesso e il malizioso. Lo stesso sorriso che regala qualche minuto dopo, mettendosi in posa per le foto con l’insegnante e la commissione. L’esame di maturità è per tutti una sfida e, insieme, il primo vero appuntamento con la vita. Per Enrico Cancelli, gli appuntamenti con la vita sono iniziati ben prima. La sindrome di Down, unita a un severo deficit di comunicazione, ha trasformato in una salita dura quello che per altri è un normale percorso di vita. Ma la resilienza è una virtù che a Enrico non manca. Il successo scolastico appena conseguito all’istituto professionale Sandrinelli – Enrico ha scelto l’indirizzo turistico e si è diplomato con 100 centesimi – è solo l’ultima prova in ordine di tempo. Seguendo un percorso “misto”, ridotto in quantità ma non in qualità, Enrico ha lavorato in un’azienda di Monrupino seguito dal tutor aziendale, Haron Marucelli, che lo ha avviato all’allevamento delle pecore. Proprio l’allevamento delle pecore è stato l’argomento discusso in sede di esame, che gli ha meritato il massimo dei voti, e sarà l’occupazione cui si dedicherà in futuro.
LA COMUNICAZIONE FACILITATA – Enrico ha appreso la comunicazione facilitata, tecnica introdotta in Australia negli anni ’70, grazie al lavoro di un’associazione per disabili.
Continua Serra sul Piccolo:
Nato con la sindrome di Down,per i primi anni di scuola Enrico è sempre stato un bambino allegro, incline al canto e allo scherzo. Con l’adolescenza sono arrivati la consapevolezza della diversità e i primi schiaffi morali. Così si è chiuso, ha smesso di parlare, di cantare, di comunicare. «La svolta nel percorso di apprendimento, e di vita, è venuta nel 2009, quando ci siamo avvicinati alla tecnica della Comunicazione facilitata, che si insegna all’associazione “Diritto di Parola” di Gorizia, che pone al centro dell’attenzione le persone disabili con disturbi del linguaggio» spiega Bianca Mestroni, mamma di Enrico. La Comunicazione facilitata nasce in Australia negli anni Settanta: è una tecnica che consente di colmare il gap tra capacità cognitive e capacità espressive, servendosi di tastiere o lettere dell’alfabeto. «È prevista la presenza di un facilitatore: persona formata che sostiene (senza intervenire) mano, polso, gomito, o braccio del paziente per consentirgli di digitare su una tastiera di computer», spiega Michela Manca, insegnante di sostegno di Enrico e uno dei suoi facilitatori. L’obiettivo finale è il raggiungimento dell’autonomia comunicativa che prima mancava. “SOFFRIVO COME UN CANE” – Non appena è riuscito a comunicare con gli altri, Enrico ha raccontato della tanta sofferenza subita per anni:
Dal 2009 Enrico è rinato, tanto che dopo soli tre mesi dall’inizio di questa esperienza scriveva: «Finora non sapevo di saper rispondere, sguazzavo nel mio handicap soffrendo come un cane». Due le persone che lo hanno accompagnato nel percorso: la professoressa Manca, con lui dal 2009 e alla matura, e Gianna Stabile Bonifacio, sua guida spirituale che lo ha aiutato nel catechismo, ma anche a intraprendere un percorso quale redattore del giornalino parrocchiale. Senza la comunicazione facilitata Enrico veniva definito «ritardato mentale grave». Queste sono le parole che ha scritto nella prima pagina della tesina d’esame: «Monrupino, oasi felice dove ritrovare pace e sogni dorati di poetiche aspirazioni! Adopererei ogni mezzo pur di restare a lavorare su terreni così fertili, correndo irresistibilmente incontro alla mia redenta vita!».
FONTE: http://www.giornalettismo.com/archives/411203/il-ragazzo-down-diplomato-con-100/

Zondle e un giochino sull’Antico Testamento

Zondle offre la possibilità di creare giochi da utilizzare nell’insegnamento. Vi faccio vedere un giochino che ha come tema l’Antico Testamento.


zondle – games to support learning

Alla ricerca del Bosone (e del senso della vita)

[…] E infine pare che il Bosone l’abbiano preso. Pare che abbiano trovato, dunque, l’elemento che sta al principio della materia. L’elemento senza il quale non si capiva bene come stava su il resto. Quel che esserci doveva, anche se non si riusciva a vedere. A ben pensarci, ogni mattina ognuno di noi cerca il suo Bosone. L’elemento che, anche se non si vede, c’è per tener su – per quanto precariamente – la materia che compone tutto il teatro delle cose e degli eventi. Dagli scienziati che si sono impegnati così a lungo e dalle istituzioni che li hanno sostenuti arriva un invito a noi tutti, che esce dai limiti del valore della scoperta e dei suoi possibili sviluppi. È un invito potente. Un richiamo alto e al tempo stesso feriale. Solo chi vuole esser sordo non lo intende. E parla d’altro. E fa finta di niente. Ma chiunque abbia in sé ancora traccia di quella umanità che in qualcosa accomuna gli eroi di Omero e un ragazzetto del Duemila, intende che in questa scoperta e nelle sue modalità c’è un segno per tutti. Come la scienza non ha senso se non si protende a cercare gli elementi primari e costitutivi del reale misurabile e verificabile con i suoi strumenti, così anche la vita non è veramente tale se non si protende a cercare gli elementi primari, ciò che dà senso all’esistenza personale. Se un uomo non cerca il Bosone della sua vita, tradisce se stesso. Lo deve cercare, come hanno fatto gli scienziati del Cern, impegnando tutto quello che sa, le risorse che può impiegare, in un’alternanza di lavoro solitario e sacrificio individuale e di lavoro di gruppo.> Naturalmente il Bosone della scienza si indaga e verifica con il metodo proprio della scienza, che è la misurazione. Mentre il Bosone della vita non è ‘misurabile’ con lo stesso metodo. La vita ha altri modi per giungere alle proprie certezze. Penso che il Bosone della vita sia in una speciale gioia. Che non è la semplice allegria che ci prende talvolta e nemmeno la spensieratezza leggera. Ma un nucleo per così dire durissimo e un po’ sfuggente. Un elemento primario, basilare. Quella gioia di cui abbiamo grandi maestri nei bambini e in quelli che ogni tradizione religiosa chiama santi. Non a caso il Vangelo – invitandoci a imitare i bambini e a guardare ogni giorno il volto dei santi – promette una «gioia piena». Perché stima la ricerca umana della gioia, del Bosone esistenziale. Come dire la forza che da quell’elemento primario si irradia a riempire tutta la vita. La esaltante e certo importante scoperta di questi scienziati che avvertiamo subito come compagni, ci richiama a vivere la vita per quello che è: una tensione che non finisce mai. Sbaglia infatti chi pensa che l’uomo sicuro dell’esistenza di Dio non sia ‘in ricerca’. Infatti, chi conosce l’esperienza della gioia (come quella dell’amore, altro nome del Bosone primordiale) sa che averla intravista ed essere certi della sua esistenza muove il desiderio di cercarla ancora, di conoscerla di più. Di non dargli scampo, e cercarla sempre.
FONTE: Davide Rondoni, Avvenire del 6 luglio 2012

Cosa vuol dire essere umani

‎”Non si dica più “ha mentito, è umano; ha rubato, è umano”. Questo non è il vero essere umani. Essere umani vuol dire esseri generosi, volere la giustizia, la prudenza, la saggezza, essere a immagine di Dio. Il peccato non è mai solidarietà, è sempre assenza di solidarietà.”
(Papa Benedetto XVI al clero di Roma, il 18 febbraio 2010)

Alla ricerca della pace

Periodo di vacanze. Tutti (per lo meno chi se lo può permettere) alla ricerca di un po’ di pace, lontani dalla frenesia della città, dei tempi troppo stretti, del correre. Non mi sembra che l’obiettivo si raggiunga sempre, quello della pace intendo. Che cos’è la pace? Come si può cercare qualcosa che non si sa definire? L’essere in pace con se stessi è davvero la pace?
Prendo in prestito alcuni pensieri di Roberta Vinerba, pubblicati su “Noi. Genitori & Figli”, supplemento di Avvenire del 24 giugno 2012.
«La pace del mondo è sinonimo di stare bene con se stessi, una sorta di mantra ripetuto dai cattivi maestri che vogliono farci credere che la misura del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto sia la sensazione di galleggiamento nel nulla, di assenza di problemi, di sospensione del tempo. La pace come assenza.
[…] la pace che dà il Signore è tutt’altro che svuotamento, è abitata dalla presenza di Dio e in Lui di tutta me stessa e di tutti i miei problemi, le mie preoccupazioni, le mie speranze, le mie attese. La pace del mondo mi chiude in me stesso, è un gorgo che mi spinge più giù e che quando finisce, quando finisce lo spinello, la bottiglia, la velocità forsennata, ti lascia mancante, privato di un pezzo di te e della tua vita. Non basta essere in pace con se stessi per dire che la strada intrapresa è giusta. Non mi devo stancare, non dobbiamo stancarci di dire ai nostri figli che l’idea di pace con se stessi è una roba inventata da un mondo che ti vuole narcotizzare e ti mangia la vita a morsi.
La vera pace ti inquieta, ti toglie il sonno, ti spinge ad agire, ti rende desto, pronto, fianchi cinti e occhi pronti per camminare a schiena dritta nella vita».

Oltre i limiti

Mi capita spesso di ricordare ai miei alunni che dobbiamo avere il coraggio di riconoscere i nostri limiti. Soltanto facendo i conti con essi possiamo aprirci alla possibilità che diventino occasione di crescita. Lo so, nessuno di noi ha piacere nel riconoscere le proprie incapacità, eppure i limiti fanno parte della nostra vita. Ci inventiamo mille e mille modi per sentirci onnipotenti e invincibili (pensate alla droga o all’alcool) e finiamo invece per ritrovarci nudi, come Adamo ed Eva dopo il peccato, cioè ancora più fragili e disperati. Voglio proporvi un video che può aiutare la riflessione: si può andare oltre i limiti a condizione che diventino occasione di pensare alla propria vita in modo diverso. Vedendo noi stessi come un miracolo, come un dono, come possibilità di bellezza;pensandoci come destinatari di un amore che ci supera e ci nobilita (quello di Dio, perché no?!!!), forse i limiti potrebbero non farci più paura. Buona visione!!!

La scrittura sta morendo

Così intitolava il quotidiano tedesco Bild che ha lanciato l’allarme per l’eccessivo uso di computer e sms che fa sì che quasi nessuno usi più la penna. Secondo uno studio inglese un adulto su tre negli ultimi sei mesi non ha scritto nulla a mano. “Ormai si comunica solo usando le tastiere”, lamenta Bild, “sia che si mandino sms o email”. Il giornale ha evidenziato che in Germania l’85% delle aziende lavora con il computer e il 79% dei tedeschi ne possiede uno mentre è sempre più diffuso l’uso dei sofisticati mezzi di comunicazione mobili a tastiera. Nel 2011 sono stati venduti in Germania 12 milioni di smartphone, con un aumento delle vendite del 31%. “Ormai la scrittura a mano viene utilizzata solo per firmare”, rileva il giornale, sottolineando che così facendo si diminuiscono le attività cerebrali. La massa cerebrale attivata quando si scrive a mano costituisce infatti un terzo del volume del cervello, spiega Bild, mentre la rinuncia alla scrittura manuale facilita con l’avanzare dell’età anche la perdita della memoria. Senza contare che secondo gli studiosi i bambini apprendono meglio e più rapidamente scrivendo a mano.
Io ho una passione per le penne stilografiche e per la scrittura a mano, fin da quando ero bambina. Sono molto esigente nella scelta delle penne che uso, rigorosamente a inchiostro nero e, se non ho a portata di mano la stilo, con punta sottile e inchiostro liquido. Mi piace che la scrittura sia curata e spesso inorridisco di fronte agli sgorbi che i miei alunni si ostinano a chiamare lettere.
La mia maestra delle elementari ci faceva scrivere in bella scrittura e ci dava anche il voto. Ricordo ancora le paginette di a, b, c, ecc…, ma non come un esercizio noioso. Mi piaceva la visione d’insieme di quelle pagine che mi lasciavano soddisfatta: l’incertezza dei primi tentativi si perdeva mano mano e il risultato finale era un bel 10!!!
Indubbiamente il computer è più veloce, ti permette di spostare parole, ricostruire frasi senza cancellature, ma volete mettere la magia del segno a mano sul foglio bianco! Quanta cura era necessaria perché quei fogli non si sgualcissero e non si riempissero di sbavature e macchie di inchiostro!
La scrittura a mano dovrebbe essere anche un esercizio di attenzione all’altro, a chi cioè dovrà leggere quanto abbiamo scritto. Se la nostra scrittura è illeggibile è perché poco ci curiamo degli altri, e questo è anche un po’ un segno della superficialità con cui siamo portati a gestire i rapporti.
Dovremmo riprendere ad apprezzare la cura che fu degli amanuensi. Penso che una vita più “slow” non possa che farci bene. Anche scrivere a mano potrebbe essere terapeutico!

Da Todmorden una proposta molto interessante

Letto su Popotus del 28 giugno 2012.

Vi occorrono i broccoli? Potete raccoglierli vicino alla stazione ferroviaria. Le patate, invece, sono in un’aiuola accanto al commissariato di polizia. E se avete bisogno di profumare le pietanze con menta, timo o rosmarino, li troverete senz’altro nei giardini dell’ospedale. Siamo a Todmorden (contea del West Yorkshire, Regno Unito), che oltre ad essere un delizioso borgo di epoca vittoriana con quindicimila abitanti, è un esempio straordinario di città­orto, dove frutta e verdura vengono seminati non solo nei terreni privati, ma soprattutto in quelli pubblici: dai parchi alle aiuole dei giardini, di qualsiasi dimensione siano. Chiunque può farlo e chiunque può approfittare, al momento del raccolto, dei doni della terra. Così, passeggiando per le vie con un paniere sotto il braccio, si può fare la spesa senza tirar fuori un centesimo, raccogliendo cavoli, carote, cipolle oppure ribes, fragole, mele e lamponi. È possibile perché tutti gli abitanti contribuiscono a seminare, piantare, innestare, annaffiare ed estirpare erbacce. Ognuno raccoglie quanto basta per sfamarsi, senza approfittare, rispettando il senso di bene collettivo degli orti cittadini. E nessuno getta cartacce, cicche o robaccia nelle aiuole, come accade in altre città, visto che bisogna proteggere le piantine che poi daranno ortaggi sani e saporiti. L’idea è venuta qualche anno fa a un gruppetto di abitanti, con la signora Pamela Warhurst in prima fila, che dopo aver coltivato il suo orticello, ha piazzato cartelli per invitare i passanti a servirsi del suo raccolto. Qualche mese dopo, Pam ha convinto un’amica, Mary Clear, poi altre persone, fino a trovare l’appoggio di tutta l’amministrazione comunale. Il progetto è diventato una solida realtà, sotto il nome di “Incredible edible” (si legge incrèdibol èdibol ed è un gioco di parole traducibile con “incredibile commestibile”) e con un obiettivo ambizioso: «Entro il 2018 la nostra cittadina vuole diventare completamente autosufficiente dal punto di vista alimentare», si propongono i fondatori. Intanto il contagio degli orti in città si è esteso ad altre 21 città del Regno Unito e sta per convincerne altre in Germania, in Spagna e perfino in Canada.

Uscire da se stessi per ritrovarsi

La logica umana  ricerca spes­so la realizzazione di se stessi nel po­tere, nel dominio, nei mezzi poten­ti. L’uomo continua a voler costrui­re con le proprie forze la torre di Ba­bele per raggiungere da se stesso l’altezza di Dio, per essere come Dio. L’Incarnazione e la Croce ci ricor­dano che la piena realizzazione sta nel conformare la propria volontà umana a quella del Padre, nello svuotarsi dal proprio egoismo, per riempirsi dell’amore, della carità di Dio e così diven­tare veramente capaci di amare gli altri. L’uomo non trova se stesso rimanen­do chiuso in sé, affermando se stesso. L’uomo si ritrova solo u­scendo da se stesso; solo se u­sciamo da noi stessi ci ritrovia­mo. E se Adamo voleva imitare Dio, questo di per sé non è male, ma ha sbagliato nell’idea di Dio. Dio non è uno che vuole solo grandez­za. Dio è amore che si dona già nel­la Trinità, e poi nella creazione. E i­mitare Dio vuol dire uscire da se stesso, darsi nell’amore. 
Benedetto XVI, udienza di mercoledì 27 giugno 2012