Dall’odio al perdono

Perdono, parola difficile da pronunciare e vivere. Basta vedere quello che sta accadendo in questo tempo così complicato, dove si parla di vendetta come se fosse un dovere morale. 
Lei prof, sarebbe capace di perdonare? Spesso me lo hanno chiesto gli studenti e rispondo in modo onesto: “Non so, ma so che non c’è alternativa, perché l’odio consuma”. Aggiungo sempre alla mia riflessione che ci sono stati uomini e donne che hanno saputo perdonare. La loro testimonianza è la riprova che si può perdonare. Come ha saputo fare Gemma Calabresi. 
I miei alunni, al contrario di me, non possono avere memoria del marito, il commissario Luigi Calabresi, che fu ucciso il 17 maggio 1972 a colpi di arma da fuoco dinanzi alla sua abitazione, per mano di un commando di due terroristi di Lotta Continua. Gemma si trovò vedova ad appena 26 anni con due bambini piccoli e un terzo in arrivo. Ho letto nella sua biografia che insegnando religione in una scuola elementare è arrivata a maturare il perdono. 
Riporto un articolo di DIEGO MOTTA pubblicato su Avvenire di lunedì 8 aprile 2024.

Il momento più bello negli incontri pubblici con Gemma Calabresi arriva alla fine, quando la tensione del racconto che commuove l’Italia ormai da mezzo secolo si scioglie, in una lunga processione di abbracci, carezze, lacrime. Sono soprattutto le donne a mettersi in fila. A tutte succede di immedesimarsi in quella ragazza ventiseienne che si svegliò una mattina, con due bimbi piccoli e il terzo in grembo, e si ritrovò improvvisamente da sola al mondo. Perduta. 
«Hanno sparato a un commissario» le disse quella mattina la signora delle pulizie. «Anche quella donna, che non ho mai più rivisto, fu fondamentale perché si prese cura dei miei bambini, in un momento drammatico. Gli sconosciuti ancora oggi mi danno tanta solidarietà, mi dicono: ho pregato per lei, l’ho pensata. Nella mia tragedia non mi sono mai sentita sola. Ho scoperto l’importanza degli altri. È come se, dopo il male, il bene avesse bussato alla mia porta» racconta oggi. 
La fine rappresenta sempre un nuovo inizio. Così come è stata la vita in mezzo: un continuo ricominciare, scalando spesso le pareti dell’odio e dell’ostilità, i pregiudizi, le paure. 
L’immagine degli Anni di Piombo è sempre stata nitida per Gemma Calabresi: i cortei, gli avvertimenti, le minacce, la vita blindata di una coppia appena sposata. L’omicidio del commissario pochi metri fuori da casa. 
« In quel momento, ero prima di tutto una madre che doveva proteggere i propri figli. Pesava molto la rabbia, pesava la necessità di togliere da Luigi il timbro di assassino». 
Odio e rancore rischiano di fare prigionieri, possono moltiplicare il dolore e le tragedie. Per Gemma Calabresi, «bisogna impedire che questo succeda, che il male ti divori. Quando vedo le guerre di oggi, quando vedo cos’è diventato il terrorismo, cioè distruggere l’altro fino a mostrarlo e a farne scempio, rabbrividisco… Aprite le braccia, liberatevi da questo male: lasciate che scompaia la voglia di sopraffazione e di prepotenza, accorgetevi che il prossimo per voi è importante…». 
Signora Gemma, tante donne hanno sfilato in questi mesi, dal Medioriente all’Est Europa, chiedendo una tregua, chiedendo verità e giustizia spesso in mezzo alle bombe. 
Mi capita di soffermarmi soprattutto sulle manifestazioni in cui a scendere in piazza, insieme, sono donne che arrivano da fronti opposti: ho visto donne palestinesi e donne israeliane collaborare, iniziando dalle piccole cose, per far smettere questo odio atavico. Se nell’altro vedi sempre il nemico da combattere, il nemico diventa un’ossessione. Se pensi che avrà anche lui dei figli, una moglie e degli affetti a cui rispondere, se riesci a ridargli un minimo di umanità, allora tutto cambia. Una persona non è soltanto il male che ha compiuto. Anche negli anni del terrorismo c’era un obiettivo indicato alla folla: tutti gridavano e nessuno pensava. Quando vado nelle scuole, lo dico sempre ai ragazzi: non andate dietro a chi urla più forte. 
Oggi le campagne di stampa di cui fu vittima suo marito si consumano in un battito di clic, tra una gogna social e l’altra. 
Prego tantissimo per i ragazzi di oggi, perché non si lascino schiacciare dalle logiche del mondo, perché non finiscano per averne paura. Quando li incontro, trovo studenti profondi e intelligenti. Lo leggo nelle loro domande. Non siate gregari, dico loro. Sanno benissimo che sui social oggi si verifica spesso lo stesso meccanismo ripetuto nelle manifestazioni di cinquant’anni fa: una bugia detta una volta, gridata in corteo mille altre volte, rischia di diventare una verità. Non dimentichiamoci di quella stagione. 
Gigi era il volto conosciuto della questura, il più dialogante: divenne ben presto il capro espiatorio. Ricordo una sera: avevamo invitato a cena la maestra e alla fine lei aveva detto a Gigi: “E’ un momento pericoloso, riguardati”. Mio marito era uomo di profonda fede e le aveva risposto così: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”. 
Lei ha confessato recentemente di aver avuto anche fantasie di vendetta. 
E’ vero. C’è stato un periodo, all’inizio, in cui mi sembrava che quei pensieri mi facessero stare bene, mi svegliavo con l’odio nel cuore. Dentro di me avevo la rabbia, lo scoraggiamento, il pianto, una cattiveria sconosciuta. Ma io non ero così e non potevo farmi divorare dal rancore. Avevo i miei figli e volevo educarli al bene, alla gioia di vivere. Dovevo farmi aiutare e ho trovato tanta gente, oltre alla mia famiglia, disposta a farlo. 
Poi si ricade, tante volte: bastava una scritta sui muri e tornavo a scivolare indietro, mi facevo catturare ancora dalla rabbia… Passare dall’odio alla pace, innanzitutto con se stessi, è stato difficilissimo. Però ho sempre avuto tanta solidarietà intorno a me, anche le persone sconosciute che mi riconoscono al supermercato. Il bene bussa spesso alla nostra porta, il problema è che non ce ne accorgiamo. 
Signora Gemma, che ruolo possono avere le donne oggi in questa società addormentata, dove l’individualismo si è trasformato in ritiro sociale e le ragioni per stare insieme, per fare comunità, paiono venire meno? 
Le donne possono fare molto, ne sono convinta. Non a caso Giorgio Napolitano volle dare un chiaro segnale di pacificazione nazionale, completando il percorso iniziato con la medaglia d’oro consegnataci da Carlo Azeglio Ciampi nel 2004. Nel 2009, il capo dello Stato aveva invitato al Quirinale due vedove. L’abbraccio con Licia Pinelli fu un gesto spontaneo: all’inizio mi era mancato il fiato, ma ero convinta che dovessimo salire un altro gradino in questo cammino di riconciliazione e ce l’abbiamo fatta. Siamo due donne legate dalla stessa sofferenza: anche in quella casa, un giorno, papà non è mai tornato. Quanto al ruolo delle donne nel mondo contemporaneo, penso si debba riconoscere che abbiamo un talento tutto nostro nel ricucire gli strappi, nell’aiutare il dialogo. Questo è importante. 
È un discorso che vale, a maggior ragione, per i genitori… 
Certo. I genitori sono chiamati, oggi più di ieri, a donarsi completamente ai figli. A loro direi: offrite voi stessi, parlate con loro, anche se vi spaventa il male di vivere delle nuove generazioni, la paura, la depressione, la violenza. Pregate per le vittime e per i carnefici. 
Per questo, credo molto nella giustizia riparativa, nel dialogo tra le parti. Quel che si è fatto negli ultimi anni ha aperto la via a una nuova stagione: l’importante è che si cominci un cammino, senza distinguere tra chi vuole mettersi in gioco e chi no. 
Che aiuto ha trovato, invece, dalla fede in Dio? 
Io nella preghiera mi affido e affido, sapesse quante persone mi passano per la mente… trovo conforto, mi sfogo, parlo col Padre eterno. Gli dico: ci devi aiutare, manda i doni dello Spirito Santo. Intorno a noi ci sono disegni terribili che noi non capiamo. Bisogna saper leggere i segni e sapere che Dio ci giudica per il bene compiuto, non per gli errori commessi. 
La fede non è altro dalla vita, il perdono è a disposizione di tutte le religioni ma è frutto di un cammino lungo. Se penso al mio, di percorso, posso dire che adesso mi sento meno giudicante di un tempo. La pace con se stessi si trova se si desidera il bene dell’altro. Va costruita da tutti, innanzitutto da chi continua a pagare un prezzo dovuto alla violenza della guerra. Dobbiamo crederci davvero e non fermarci alle prime difficoltà. 
Una volta ho detto a un sacerdote: “Sono un po’ stanca, vorrei tirare i remi in barca”. Lui mi ha risposto: “Non può farlo, lei ha una missione. Deve andare avanti”.





Quando tutto crolla

Ho seguito con commozione il monologo di Allevi all’Ariston di Sanremo. In questo momento sono molto sensibile a certi argomenti 😄. La fragilità, che Allevi non ha avuto alcuna remora a nascondere, diventa la vera forza dell’essere umano, quando non si chiude in se stesso ma si apre al Tutto. Bellissime parole, le sue, che vi consegno integralmente. 
 “All’improvviso mi è crollato tutto. Non suono più il pianoforte davanti ad un pubblico da quasi due anni. Nel mio ultimo concerto, alla Konzerthaus di Vienna, il dolore alla schiena era talmente forte che sull’applauso finale non riuscivo ad alzarmi dallo sgabello. E non sapevo ancora di essere malato. Poi è arrivata la diagnosi, pesantissima. Ho guardato il soffitto con la sensazione di avere la febbre a 39 per un anno consecutivo.Ho perso molto, il mio lavoro, ho perso i miei capelli, le mie certezze, ma non la speranza e la voglia di immaginare. Era come se la malattia mi porgesse, assieme al dolore, degli inaspettati doni. Quali? Vi faccio un esempio.… Non molto tempo fa, prima che accadesse tutto questo, durante un concerto in un teatro pieno, ho notato una poltrona vuota. Come una poltrona vuota?! Mi sono sentito mancare! Eppure, quando ero agli inizi, per molto tempo ho fatto concerti davanti ad un pubblico di quindici, venti persone ed ero felicissimo! Oggi….dopo la malattia, non so cosa darei per suonare davanti a quindici persone. I numeri…non contano! Sembra paradossale detto da qui. Perché ogni individuo, ognuno di noi, ognuno di voi, è unico, irripetibile e a suo modo infinito. Un altro dono! La gratitudine nei confronti della bellezza del Creato. Non si contano le albe e i tramonti che ho ammirato da quelle stanze d’ospedale. Un altro dono. La riconoscenza per il talento dei medici, degli infermieri, di tutto il personale ospedaliero. Per la ricerca scientifica, senza la quale non sarei qui a parlarvi. La riconoscenza per l’affetto, la forza, l’esempio che ricevo dagli altri pazienti, i guerrieri, così li chiamo. E lo sono anche i loro familiari, e lo sono anche i genitori dei piccoli guerrieri. Quando tutto crolla e resta in piedi solo l’essenziale, il giudizio che riceviamo dall’esterno non conta più. Io sono quel che sono, noi siamo quel che siamo. E come intuisce Kant alla fine della Critica della Ragion Pratica, il cielo stellato può continuare a volteggiare nelle sue orbite perfette, io posso essere immerso in una condizione di continuo mutamento, eppure sento che in me c’è qualcosa che permane! Ed è ragionevole pensare che permarrà in eterno. Io sono quel che sono. Voglio andare fino in fondo con questo pensiero. Se le cose stanno davvero così, cosa mai sarà un giudizio dall’esterno? Voglio accettare il nuovo Giovanni. Come dissi in quell’ultimo concerto a Vienna, non potendo più contare sul mio corpo, suonerò con tutta l’anima. Il brano si intitola Tomorrow, perché domani, per tutti noi, ci sia sempre ad attenderci un giorno più bello!”



Carlo e Alberto: storia di un’amicizia stra-ordinaria

Alberto Michelotti e Carlo Grisolia sono due ragazzi genovesi che hanno vissuto, fra di loro e con i loro coetanei, una storia di amicizia, aperta ed alimentata da un obiettivo comune: portare a tutti il dono dell’ideale evangelico del mondo unito, della fraternità universale. 
Per una veloce conoscenza:

   
Il trailer del documentario che è stato realizzato:

    

Per chi volesse vederlo per intero, cliccare qui.

Non bisogna guardare dall’altra parte se hai di fronte l’ingiustizia

Lascio questo editoriale di Michele Brambilla, pubblicato sul Resto del Carlino di mercoledì 16/03/2022, perché si collega con la tematica che stiamo affrontando a scuola. Perché la giornalista russa Marina Ovsyannikova ha interrotto il tg di Stato esibendo un cartello con scritto “No war, non credete alla propaganda, qui vi stanno ingannando”? Forse pensava che nel giro di poche ore una rivolta popolare o una congiura di palazzo avrebbe rovesciato Putin e fermato la guerra? O più semplicemente s’illudeva di cavarsela con una lettera di richiamo del direttore del personale? No, sapeva benissimo che il despota non sarebbe caduto. E sapeva benissimo a quali rischi (al di là della multa di trentamila rubli, che è fumo negli occhi) va ora incontro. Eppure, quel che ha fatto, l’ha fatto ugualmente, contro ogni speranza. Perché? Forse per lo stesso motivo per cui don Giovanni Fornasini, il parroco di Marzabotto ucciso dai nazisti a 29 anni il 13 ottobre del 1944, pedalò per chissà quanti chilometri per salvare la sua gente. Sapeva che non avrebbe potuto sconfiggere Hitler: ma quello che sentiva di fare, lo fece.
O forse Marina Ovsyannikova l’ha fatto per lo stesso motivo per cui il carabiniere Salvo D’Acquisto, il 23 settembre del 1943 alla periferia di Roma, confessò ai nazisti un attentato che non aveva commesso e si fece fucilare salvando la vita ai ventidue civili rastrellati per la rappresaglia. Aveva 23 anni e sapeva che il suo gesto non avrebbe cambiato le sorti della guerra. Ma lo fece.
O forse la giornalista russa ha fatto quello che ha fatto per lo stesso motivo per cui padre Massimiliano Kolbe, il 14 agosto del 1941, ad Auschwitz, si offrì di prendere il posto di un padre di famiglia destinato al bunker della fame. E morì a 47 anni.
O forse la Ovsyannikova ha pensato ai ragazzi della Rosa Bianca, decapitati nel 1943 su ordine di Goebbles per aver distribuito opuscoli e volantini contro la guerra di Hitler.
O forse ha pensato a quel cinese di cui neppure si conosce il nome – oltre che la sorte – che il 4 giugno 1989 si parò davanti ai carri armati del regime comunista cinese in piazza Tienanmen a Pechino.
Marina Ovsyannikova ci ricorda che esistono ancora donne e uomini capaci di un’eroica disobbedienza civile, e mostra – a chi sostiene che Zelens’kyj deve abdicare – ciò che più disturba i dittatori: l’esistenza di qualcuno che dice no. Il 20 luglio del 1944 l’ufficiale tedesco Claus Schenk von Stauffenberg cercò di uccidere Hitler per fermare la guerra. L’attentato fallì e lui fu fucilato alla schiena la sera stessa. Sua moglie Nina era incinta e partorì prigioniera della Gestapo. Nacque Konstanze, alla quale, molti anni dopo la fine della guerra, chiesero che cosa avesse imparato dalla storia di suo padre. Rispose: “Che non bisogna guardare dall’altra parte se hai di fronte l’ingiustizia”.

BILANCIARE IL MALE CON IL DONO DI SE’

A scuola, in questi giorni, non si riesce ad ignorare quello che sta accadendo. I ragazzi fanno domande, esprimono dubbi e paure, prendono posizione. Su una cosa sono un po’ tutti d’accordo, che rispondere al male con il male è una strada che può rivelarsi pericolosa. Ma cosa si può fare? Le catene del male sono sconfitte dai segni di pace che ognuno di noi può realizzare. 
Riporto un servizio pubblicato su Avvenire di ieri che traduce in fatti concreti quanto vado dicendo da giorni agli studenti. 

È primo pomeriggio: nell’atrio dell’Arsenale della Pace del Sermig di Torino è un continuo arrivare di aiuti che partiranno per l’Ucraina: c’è chi raccoglie, chi divide, chi inscatola… 
Centinaia di giovani proseguiranno fino a sera, senza sosta, ed è così da giorni. Tra loro Vanessa, 16 anni, frequenta la terza liceo classico. «Vengo qui al Sermig a fare servizio ogni sabato, ma vista la situazione di emergenza, ora sono qui quasi tutti i giorni». La pace? «Per me è questo: fare qualcosa per gli altri, qualunque aiuto è un gesto di pace, anche riempire degli scatoloni…». Un’idea maturata a poco a poco: «Fino a qualche anno fa quando sentivo persone che dicevano che ‘fare del bene ti torna indietro’ pensavo fosse una frase fatta, poi sono venuta qui un’estate e ho capito che è davvero così, nel senso che il fare il bene è come piantare un seme di pace, di giustizia: tutti poi godranno di quello che cresce, anche tu stesso ». Un esempio? «Qualche giorno fa sono arrivati due ragazzi che litigavano, sono stati accolti, si sono messi anche loro a inscatolare e a poco a poco, facendo per gli altri il loro astio si è dissolto. Credere e costruire la pace è spostare lo sguardo sugli altri, ciascuno con le proprie capacità, attitudini… Parlando in questi giorni con i miei coetanei nessuno di noi si sarebbe aspettato di venire qui per una guerra, siamo sconvolti da quello che sta accadendo in Europa, ma non per questo ci scoraggiamo: continuiamo a impegnarci con il nostro servizio per la pace, e non per la pace di un popolo, ma di tutti. Credere nella pace significa volere che tutti ne possano godere». 
Accanto a Vanessa Marta, 27 anni, da 7 mesi volontaria al Sermig: «Pace è il frutto del mettersi in gioco, del donarsi. Tutti abbiamola possibilità di contribuire alla giustizia e alla pace perché tutti abbiamo la possibilità di donare qualcosa e qui lo vedi spesso. Arrivano le persone a portare aiuti e chiedono di dare una mano a loro volta. Questo è un grande segno di speranza per noi giovani, un invito a continuare su questa strada. Pace per me è soprattutto relazione di accoglienza verso chi si incontra: anche un sorriso è uno strumento di pace». 
Mattia fa parte della Fraternità, con un megafono richiama l’attenzione su come procedere a inscatolare, poi anche lui si ferma un attimo: «Pace? È restituzione, è ridare a tutti la dignità di cui hanno diritto. Qui siamo a migliaia a cercare di non subire passivamente la guerra, bilanciando il tanto male con il bene del dono di sé e della condivisione». (articolo di Federica Bello)

Un esempio che ci risveglia dalla superficialità

Un uomo che prendeva sul serio il suo lavoro, ma soprattutto la sua vita. Questa vicenda si inserisce perfettamente nella riflessione sulla superficialità che sto proponendo ai miei studenti. 

Arricchisco la proposta con l’articolo di Davive Rondoni, pubblicato su Quotidiano.net del 24 febbraio. 
 
Molti giovani ora guardino a Luca. Ora che un evento micidiale lo ha fatto conoscere a tutta Italia. 
Un ambasciatore, un uomo delle Istituzioni, una carriera molto ambita, considerata carica di onori. 
Ma un uomo che stava vivendo il suo ruolo come una missione, come narra da chi gli era a fianco. 
Era stato a messa da Padre Bordignon in quella missione che sentiva come “casa”, animato da una simile volontà di bene. In questo momento in cui molti giovani pensano con preoccupazione al loro futuro, la figura di Luca Attanasio, padre di tre bambini piccoli che aveva portato con sé in Africa, arde di forza speciale. 
Perché certo è importante avere un mestiere, il più bello possibile, sognato e per cui si fanno sacrifici. Ma non basta. 

Occorre animare il mestiere con una volontà di bene che non nasce dallo stipendio, dalla posizione, dal senso del dovere. 
Occorre un sovrappiù di bene, di senso, diciamo la parola che nessuno usa quasi più, di speranza. 
La figura di Luca Attanasio, che non meritava di morire così, invita a immaginare il proprio impegno animandolo con una potente volontà di bene. 
Si può fare l’ambasciatore, il runner o il barista o il geometra in molti modi. 
Non si tratta solo di quelle che oggi vengono chiamate skills, attitudini che rendono il lavoro migliore, come l’empatia o la proattività o altre cose che si insegnano nei corsi. 
C’è qualcosa d’altro, un fuoco che nasce dall’anima. 
Non basta fare il proprio dovere per essere a posto. È una idea povera della vita, e figure come quella di Luca Attanasio richiamano, anche facendo salire le lacrime agli occhi, che in fondo desideriamo una vita che si spenda per un ideale più grande che la propria sistemazione o gratificazione. 
Ma come si alimenta tale fuoco che ti fa fare il mestiere di ambasciatore o di barista, con una attenzione positiva al mondo, agli altri ? 
Senza ideale non c’è vita umana autentica. E l’ideale non è un sogno fumoso, ma la cosa più reale che alberga in fondo al nostro cuore, e che figure come Luca Attanasio risvegliano. 
Uno può decidere di non farsi scuotere più da nulla, restare inerte e giustificato da lamenti senza fine, e rubricare la notizia tra le tante. 
Oppure può dare credito a questo ultrasuono, a questo richiamo che attraversa la cronaca e ci chiede: “Tu per cosa lavori? Per cosa dai la vita, la unica vita che hai?”

 

Uno sguardo può cambiarti la vita

C’era una volta un ragazzo cattivo, che si chiamava Daniel. Pensava di non dover studiare, o lavorare, per poter vivere, e che contasse solo esser ricchi. Così – aveva sì e no 15 anni – cominciò a minacciare e a picchiare i suoi coetanei, a rubare le borsette per strada e la merce nei negozi, finché divenne uno dei bulli più temuti del suo quartiere, alla periferia di Milano.Violento e spietato. Nemmeno quando fu arrestato, Daniel capì che doveva cambiare: anzi, continuava a comportarsi male e a prendere punizioni. Finché per la prima volta nella sua vita incontrò qualcuno – don Claudio, il cappellano del carcere minorile Beccaria – che non lo guardò come un ragazzo cattivo: «Sei migliore di così» disse don Claudio, e si prese Daniel nella sua comunità di recupero. Era il 2015.
Già dopo un anno il ragazzo cattivo non esisteva più: Daniel capì che aveva sbagliato e che la vita doveva avere tutto un altro senso. Cominciò a studiare, dall’Inferno di Dante Alighieri, un librone che gli aveva messo in mano un’anziana professoressa in carcere, che come don Claudio aveva visto qualcosa in lui. E con quelle storie di cattiveria e di dolore, con la poesia, con le regole di condivisione della vita in comunità e il sostegno della sua famiglia, Daniel ricominciò a camminare. Qualche giorno fa questo ragazzo si è laureato brillantemente all’Università Cattolica di Milano in Scienze della formazione. Da bullo che era, oggi, da educatore, vuole spiegare ai ragazzi come si può diventare grandi nonostante gli sbagli, o forse anche grazie a quelli.
Ad assistere alla sua tesi di laurea, oltre a don Claudio e alla professoressa dell’Inferno di Dante, c’era anche il giudice del Tribunale per i minorenni di Milano che lo fece condannare tante volte, fino a costringerlo al carcere: «È una grande vittoria di tutti noi, questa» ha detto stringendolo fra le braccia come una seconda mamma. La pm, insieme a Daniel, gira le scuole e incontra gli studenti raccontando che si può «non cedere alla tentazione del lato oscuro della forza. Lui è riuscito a trovare dentro di sé la forza del cavaliere Jedi e in questo è un esempio per i ragazzi».
Il primo ragazzo affidato a Daniel si chiama Bragan, ha 17 anni. Era un ragazzo cattivo, finché Daniel non l’ha guardato come don Claudio ha fatto con lui.
Adattato da Popotus del 18 febbraio 2020


Metti Dio al primo posto

Un famoso attore invita a guardare alla propria vita in una prospettiva diversa.

   

Discorso di Denzel Washington tenuto in occasione della consegna dei diplomi di laurea a 247 studenti della Dillard University di New Orleans (Louisiana, Stati Uniti).
Alcuni punti chiave.
“Numero uno: mettete Dio al primo posto”, ha detto loro. “Mettete Dio al primo posto in tutto ciò che che fate”. 
 “Tutto ciò che ho è per grazia di Dio. È un dono”, ha riconosciuto l’attore. “Ho tenuto Dio nella mia vita e questo mi ha mantenuto umile. Non sono rimasto sempre accanto a lui, ma lui è rimasto sempre accanto a me. State vicini a Dio, in tutto ciò che fate. Se pensate di voler fare quello che pensate abbia fatto io, allora fate quello che ho fatto: state vicini a Dio”. 
Washington ha offerto ai laureati altri due consigli. 
“Numero due”: “vivete una sola volta, e allora fate ciò che vi appassiona, cogliete le opportunità a livello professionale, non abbiate paura di fallire”. 
“Non abbiate paura di uscire dagli schemi prestabiliti, non abbiate paura di pensare al di fuori degli schemi prestabiliti, (…) di sognare in grande. Ma ricordate: i sogni senza obiettivi sono solo sogni, e alla fin fine provocano delusione. Abbiate sogni ma abbiate anche obiettivi, obiettivi di vita, (…), obiettivi mensili, obiettivi giornalieri. Io cerco di darmi obiettivi ogni giorno”. 
L’attore ha quindi ricordato ai ragazzi che per raggiungere quegli obiettivi servono “disciplina e coerenza”: “Lavorare funziona. Lavorare sodo è quello che fa la gente di successo. Ma ricordate che il fatto che voi facciate molto di più non significa che otterrete molto di più”. 
Il terzo consiglio è stato quello di fare attenzione a non attaccarsi troppo alle cose materiali. 
“Non importa quanto denaro farete, non lo potrete portare con voi. (…) Non conta tanto ciò che avete, ma ciò che fate con quello che avete”. 
E ha aggiunto un pensiero interessante: 
“La cosa più egoista che potete fare in questo mondo è aiutare qualcun altro (…) per i buoni sentimenti che suscita in voi”. 
Fonte: https://it.aleteia.org/

Il cristianesimo è verità, così percepisco l’amore di Dio

Dall’intervista di Famiglia Cristiana a Eugenio Campagna rivelazione del talent show X Factor.

Dalla selezione delle canzoni scelte per X Factor, sembra che lei non disdegni i temi delicati, come la depressione, la dipendenza da farmaci, i disturbi alimentari…
 «In una recente canzone, Luca Carboni diceva che non si può parlare della morte in una canzone pop. Ha ragione: anche se suona assurdo, è difficile affrontare certi temi quando ci si rivolge a un pubblico mainstream… Al massimo si canta la sofferenza per essere stati lasciati. Ecco, personalmente mi piacerebbe andare un po’ più a fondo, esplorare meglio la vita in tutte le sue emozioni. Lo farei con leggerezza, di certo senza propormi come guida spirituale o mental coach!»
Si terrà dunque alla larga da testi espliciti sulla fede?
 «Il cristianesimo non è nient’ altro che la verità. Non a caso ci sono delle canzoni, scritte da atei, che sono profondamente cristiane. In famiglia sono sempre stato visto come quello “bravo” che va in Chiesa. Ma bravo in cosa? Conosco molte persone, lontane dalla religione, di gran lunga più cristiane di me. A volte penso che Dio si sia avvicinato a me solo perché mi doveva riprendere, altrimenti avrei fatto una brutta fine. Da giovane ero molto turbolento. La fede mi ha indirizzato. Non ho un innato senso di comunità, carità e solidarietà che trovo invece in altri».
Quando ha iniziato a frequentare la Chiesa?
«Da subito. Sono figlio di genitori divorziati, non particolarmente credenti, ma fin da piccolo mi affascinava l’ idea che in Chiesa si suonasse. Ho iniziato così, unendomi al coro parrocchiale, per poi continuare. Tra l’ altro la mia catechista era bravissima: se a scuola facevo dei gran macelli, a catechismo ero diligente perché mi interessava quello che si diceva. Il “dopo Cresima” è stata un’ esperienza altrettanto esaltante: ho vissuto esperienze bellissime nella mia parrocchia». 
Per esempio?
 «La Giornata mondiale della gioventù di Madrid, nel 2011, con papa Benedetto XVI. Però l’ esperienza che ha inciso maggiormente è stata la malattia di Chiara: una ragazza che era il collante del nostro gruppo parrocchiale. È morta di tumore, nel giro di pochissimo tempo. Quando succede una cosa così, c’ è chi si sente tradito da Dio. Lei no: era serena, fino alla fine. Tutto il nostro gruppo ha vissuto la malattia insieme a lei, pregando e tenendole compagnia. È impressionante come la sua scomparsa ci abbia unito, riportandoci all’essenza delle cose. Dopo che è morta, eravamo tutti più attaccati alla vita: alcuni si sono sposati, io ho chiuso un rapporto sentimentale che non funzionava». Quanto è importante avere dei riferimenti spirituali lungo il cammino di fede? 
«Negli ultimi anni si è un po’ persa la figura del prete o del padre spirituale, eppure all’interno della Chiesa ci sono persone, anche giovani, preparate e profonde, che sono pronti ad accogliere il dolore umano e a tradurlo con l’ amore di Dio».
Cosa cambia?
«Non allevia necessariamente il dolore, ma gli dà un nome. Solo così si può accettare la propria storia personale, che non sempre è chiara. Io mi confronto molto con un prete, si chiama padre Dominic».
Cosa replica a chi sostiene che la fede è un rifugio per le persone deboli che non riescono a reggere l’ urto della vita? 
«Esistono davvero persone forti nel mondo? Non penso. Una volta, ero andato a confessarmi da padre Antonio, un altro prete molto bravo e molto empatico, e ammisi che era da tempo che non pregavo. Mi ha chiesto: “Ah, e allora per cosa stai vivendo?”. È una domanda importante, che ora mi rifaccio spesso: per cosa stai vivendo? Dov’è il tuo cuore? Se non è con Dio, se non guardi verso l’ alto, dove stai guardando? In basso? Ricordo ancora il confronto con don Antonio. Parlando con lui capii che il mio cuore era chiuso nelle cose, nell’ambizione. Mi chiese: “Come stai?”. La mia risposta fu: “Male”. Non fu necessario aggiungere altro: come le dicevo, è tutto molto semplice per certi versi… Per me la fede è questo: farmi tornare con i piedi per terra, farmi tornare alle priorità vere».
Non deve essere stato facile farlo durante X Factor.
«Invece è stata un’ esperienza formativa, oltre che professionalmente decisiva. Finché sei in gara, vivi nel loft: da solo, senza famiglia, fidanzata, cellulare. Tanto per incominciare mi sono disintossicato dal telefono: non è poco. Ho inoltre letto I racconti del pellegrino russo, una bella storia di fede sul tema della preghiera continua. Infine credo di essere stato il primo concorrente ad aver fatto aggiungere all’ordine del giorno di X Factor la Messa alla domenica. Ci andavo insieme ad altri ed è stato come prendere una ventata d’ aria fresca. Lì in chiesa, tra le panche e i bambini, eri solo Eugenio. Così, alla fine, i giorni più attesi erano due: giovedì, il giorno della diretta, e la domenica.