La dottrina sociale della Chiesa

Cos’è la dottrina sociale della Chiesa?
L’enciclopedia Treccani la definisce come l’insieme di principi, teorie, insegnamenti e direttive emanate dalla Chiesa cattolica in relazione ai problemi di natura sociale ed economica del mondo contemporaneo.

Papa Francesco ci dice che «la Dottrina Sociale contiene un patrimonio di riflessioni e di speranza che è in grado anche oggi di orientare le persone e di conservarle libere» (dal video messaggio che trovate cliccando qui). Libere da cosa? Dal diventare schiave del denaro, dal mettere il profitto al primo posto, dalle ingiustizie sociali. La Dottrina sociale insegna che la dignità della persona umana deve essere messa al primo posto, e questo non si traduce in una perdita, neanche economica, bensì, sostiene sempre Papa Francesco, «porta un grande guadagno, perché è in grado di creare sviluppo proprio in quanto – nella sua visione complessiva – richiede di farsi carico dei disoccupati, delle fragilità, delle ingiustizie sociali e non sottostà alle distorsioni di una visione economicistica».

Leggo sempre nell’enciclopedia Treccani che l’espressione Dottrina Sociale della Chiesa (DSC) fu coniata nel 1941 da Pio XII,  e poi sistematicamente utilizzata, salvo una breve parentesi, dai pontefici successivi. Leone XIII preferiva parlare di ‘filosofia cristiana’ e Pio XI di ‘dottrina sociale ed economica’.
In Cathopedia trovo che la DSC non è stata pensata da principio come un sistema organico, ma si è formata nel corso del tempo, attraverso numerosi interventi del Magistero, soprattutto le famose encicliche sociali dei Pontefici, fra cui la Rerum Novarum (1891) di Leone XIII, Quadragesimo Anno (1931) di Pio XI, Mater et Magistra (1961) di Giovanni XXIII, Octogesima Adveniens (1971) di Paolo VI, Laborem Exercens (1981), e Centesimus Annus (1991) di Giovanni Paolo II, tutte scritte in anniversari decennali della prima.
Tra i principali documenti del Magistero che hanno plasmato la Dottrina sociale della Chiesa c’è anche l’enciclica Sollicitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II. Ricordo che era il 1987 (il mio primo anno di insegnamento) quando uscì  e proposi ai ragazzi di una terza media di leggerne alcuni passi. Saranno stati i tempi e i ragazzi diversi, ma ho ancora viva la memoria dei cartelloni che crearono con un entusiasmo che, sinceramente, a fatica trovo negli alunni di oggi.
Anche per i ricordi personali legati a questo documento, ne ho preparata una sintesi da proporre agli alunni.

Il bambino di ghiaccio

Avete sentito di quel bambino cinese di 10 anni che ha fatto 4 chilometri a piedi per andare a scuola, ad una temperatura di meno 9 gradi?

foto trovata su http://news.joins.com/article/22277279

Vi riporto alcuni passi dell’editoriale di Fernando Camon su Avvenire del 14 gennaio 2018.
«A me, che ho passato la vita a insegnare, la nota che mi sorprende di più è un’altra: quel giorno, per quel bambino, c’era compito in classe. E lui non voleva mancare.

Il compito in classe è un evento importante, fa vedere al tuo insegnante che cosa hai imparato, come migliori, dove sei forte. Ed è un documento: resta agli atti. Non so come vadano le cose in Cina, ma da noi i compiti vengono conservati e possono essere consultati, un compito è per sempre. Ragion per cui anche da noi gli studenti per fare il compito in classe affrontano freddo e gelo (o, altrove un solo a picco e chilometri e chilometri in percorsi aridi)? No, al contrario: nel giorno del compito in classe gli alunni deboli non vogliono che la loro debolezza venga misurata, che resti agli atti, perciò se trovano un minimo appiglio (e 9 gradi sotto zero sono appiglio formidabile), stanno a casa volentieri.

Per questo la notizia mi è sembrata mirabolante. E mi ha commosso. Per questo ne parlo. È questo che spiega, meglio di tanti altri ragionamenti, la crescita annuale a due cifre della grande Cina: questo bambino s’impegna come s’impegna il popolo a cui appartiene, ce la mette tutta, se lo Stato (il maestro, la famiglia, i parenti…) gli fan capire che una cosa va fatta, lui la fa.
Possediamo una foto di questo ragazzino, in cui lui sta dritto in piedi, guance paonazze, orecchie rosse, occhi seri: un ometto di massimo affidamento. Nella foto non si vedono le mani, che si vedono però in un’altra foto, tutta per loro, in cui sono posate sui fogli di un quaderno, a dita aperte, e le dita sono straordinariamente grosse, come per una malattia. Sono i geloni. Nella camminata gli si son gelate le dita, a questo povero ragazzo. Le dita gelate si screpolano e tra i crepetti escono goccioline di sangue. Niente di grave, ma è molto patetico. Il sangue gela subito. È una caratteristica della mani dei bambini poveri, cioè senza guanti. Evidentemente, questo bambino ha marciato per 4 chilometri dalla poverissima capanna dove vive coi nonni (la madre è morta, il padre e lontano per poter lavorare) con le mani all’aperto, non in tasca. Per fare il compito in classe. Per non far mancare al maestro questo documento per la sua completa valutazione».
Condivido in pieno questa riflessione.
Forse è il caso che tutti noi, genitori, insegnanti, alunni, si faccia una seria riflessione su quello che stiamo perdendo.

I Magi, testimoni di un cammino di ricerca

L’omelia di Papa Francesco in occasione dell’Epifania, offre spunti di riflessione che vorrei condividere con voi, ragazzi di terza media in procinto di scegliere la scuola superiore. Il cammino dei Magi è un cammino alla ricerca di un senso da dare alla vita, come lo è il vostro, proprio in questo momento. La loro testimonianza ci aiuta a capire che possiamo e dobbiamo aspirare a qualcosa di grande, che non è il solo successo scolastico o lavorativo. Ben accetti anche questi, e ben venga l’impegno che possiamo e dobbiamo mettere per arrivarci. La vita è però qualcosa di più. A ognuno di voi il proprio percorso di crescita, ma attenzione: che abbiamo deciso di metterci o non metterci Gesù in questo cammino, i tre verbi che il Papa ha utilizzato per descriverci il percorso dei Magi, li possiamo applicare anche alla nostra vita.
Ecco questi verbi su cui sollecito la vostra riflessione.


Vedere la stella. È il punto di partenza. Ma perché, potremmo chiederci, solo i Magi hanno visto la stella? Forse perché in pochi avevano alzato lo sguardo al cielo. Spesso, infatti, nella vita ci si accontenta di guardare per terra: bastano la salute, qualche soldo e un po’ di divertimento. E mi domando: noi, sappiamo ancora alzare lo sguardo al cielo? Sappiamo sognare, desiderare Dio, attendere la sua novità, o ci lasciamo trasportare dalla vita come un ramo secco dal vento?
I Magi non si sono accontentati di vivacchiare, di galleggiare. Hanno intuito che, per vivere davvero, serve una meta alta e perciò bisogna tenere alto lo sguardo. […]
Possiamo chiederci quale stella scegliamo nella vita. Ci sono stelle abbaglianti, che suscitano emozioni forti, ma che non orientano il cammino. Così è per il successo, il denaro, la carriera, gli onori, i piaceri ricercati come scopo dell’esistenza. Sono meteore: brillano per un po’, ma si schiantano presto e il loro bagliore svanisce. Sono stelle cadenti, che depistano anziché orientare. La stella del Signore, invece, non è sempre folgorante, ma sempre presente; è mite; ti prende per mano nella vita, ti accompagna. Non promette ricompense materiali, ma garantisce la pace e dona, come ai Magi, «una gioia grandissima» (Mt 2,10). Chiede, però, di camminare.
Camminare, la seconda azione dei Magi, è essenziale per trovare Gesù. La sua stella, infatti, domanda la decisione del cammino, la fatica quotidiana della marcia; chiede di liberarsi da pesi inutili e da fastosità ingombranti, che intralciano, e di accettare gli imprevisti che non compaiono sulla mappa del quieto vivere. […] Mettersi in cammino non è facile. Il Vangelo ce lo mostra attraverso i vari personaggi. C’è Erode, turbato dal timore che la nascita di un re minacci il suo potere. Perciò organizza riunioni e manda altri a raccogliere informazioni; ma lui non si muove, sta chiuso nel suo palazzo. Anche «tutta Gerusalemme» (v. 3) ha paura: paura delle novità di Dio. Preferisce che tutto resti come prima – “si è sempre fatto così” – e nessuno ha il coraggio di andare. Più sottile è la tentazione dei sacerdoti e degli scribi. Essi conoscono il luogo esatto e lo segnalano a Erode, citando anche la profezia antica. Sanno, ma non fanno un passo verso Betlemme. Può essere la tentazione di chi è credente da tempo: si disquisisce di fede, come di qualcosa che si sa già, ma non ci si mette in gioco personalmente per il Signore. Si parla, ma non si prega; ci si lamenta, ma non si fa il bene. I Magi, invece, parlano poco e camminano molto. Pur ignari delle verità di fede, sono desiderosi e in cammino, come evidenziano i verbi del Vangelo: «venuti ad adorarlo» (v. 2), «partirono; entrati, si prostrarono; fecero ritorno» (vv. 9.11.12): sempre in movimento.
Offrire. Arrivati da Gesù, dopo il lungo viaggio, i Magi fanno come Lui: donano. Gesù è lì per offrire la vita, essi offrono i loro beni preziosi: oro, incenso e mirra. Il Vangelo si realizza quando il cammino della vita giunge al dono. Donare gratuitamente, per il Signore, senza aspettarsi qualcosa in cambio: questo è segno certo di aver trovato Gesù, che dice: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). Fare il bene senza calcoli, anche se nessuno ce lo chiede, anche se non ci fa guadagnare nulla, anche se non ci fa piacere. Dio questo desidera. Egli, fattosi piccolo per noi, ci chiede di offrire qualcosa per i suoi fratelli più piccoli. Chi sono? Sono proprio quelli che non hanno da ricambiare, come il bisognoso, l’affamato, il forestiero, il carcerato, il povero (cfr Mt 25,31-46). Offrire un dono gradito a Gesù è accudire un malato, dedicare tempo a una persona difficile, aiutare qualcuno che non ci suscita interesse, offrire il perdono a chi ci ha offeso. Sono doni gratuiti, non possono mancare nella vita cristiana. Altrimenti, ci ricorda Gesù, se amiamo quelli che ci amano, facciamo come i pagani (cfr Mt 5,46-47).
Guardiamo le nostre mani, spesso vuote di amore, e proviamo oggi a pensare a un dono gratuito, senza contraccambio, che possiamo offrire. Sarà gradito al Signore. E chiediamo a Lui: “Signore, fammi riscoprire la gioia di donare”.

Samuele: una voce che chiama nella notte

Che spavento sentire una voce nella notte che pronuncia il nostro nome: tutti dovrebbero dormire, ma c’è qualcuno che chiama e allora bisogna scoprire chi è.
Ed è proprio quello che fece il giovane Samuele, che viveva nel tempio di Gerusalemme assieme al suo maestro, l’anziano sacerdote Eli. Il ragazzo era stato un vero e proprio dono per sua madre, che pensava di non potere avere figli, e per questo fu affidato alle cure di Eli. In quel periodo (all’incirca nell’XI secolo prima di Cristo) il popolo di Israele viveva con fatica la fede e quindi servivano voci autorevoli in grado di ristabilire un legame forte con Dio.

per stampare e colorare l’immagine cliccare qui

E Samuele quella notte dimostrò di avere tutte le qualità per svolgere un compito così impegnativo: era un vero e proprio “ragazzo di Parola”. Forse proprio la sua giovane età gli permise di non stupirsi quando sentì che qualcuno lo chiamava nell’ora in cui a illuminare la sua stanza erano solo le tenue luci delle lampade. Corse subito da Eli: era un ragazzo sveglio e sapeva che quando il maestro chiamava bisognava essere pronti. Ma l’anziano sacerdote, forse un po’ scocciato per il fatto di essere stato disturbato di notte, lo rimandò a letto.
Poco dopo Samuele sentì la stessa voce che lo chiamava una seconda volta e con la stessa prontezza della prima corse dal maestro, che lo rispedì a dormire. Solo la terza volta Eli capì che a chiamare Samuele era il Signore e che quella chiamata avrebbe cambiato la vita del ragazzo. Così gli disse di rispondere dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!». E fu così che Dio parlò a Samuele dopo averlo chiamato per la quarta volta.
Il messaggio che gli diede non era semplice ed era un avviso per Eli e la sua gente: chi dimentica Dio rischia di perdere la strada giusta, di rovinarsi. Il ragazzo riferì controvoglia questo richiamo al maestro, diventando in quel momento un vero “profeta”, cioè un uomo in grado di guardare al mondo con gli occhi di Dio.
L’entusiasmo di Samuele è lo stesso di tutti i bambini e la sua capacità di ascoltare il cuore, di sentire la voce della verità, è ciò che gli adulti dovrebbero far crescere nei loro ragazzi, proprio come ha fatto Eli, anche se con qualche difficoltà iniziale.
Samuele diventò un’importante guida per Israele; era stato fortunato: aveva trovato il maestro giusto che aveva creduto in lui.
Matteo Liut in Popotus del 31 ottobre 2017

Ci sono persone che hanno bisogno e che aspettano me

Mi sembra, a volte, di notare un certa rassegnazione, se non cinismo, nei ragazzi di oggi. Alla loro età io sognavo e desideravo fare qualcosa per migliorare il mondo; invece i miei alunni mi dicono: «Prof, è tutto inutile, tanto il mondo non cambia e non cambierà».
Un detto dice che “una foresta che cresce non fa rumore”, come a significare che “il bene non fa rumore”. In effetti fa più clamore il fatto di sangue o il mal costume. Del bene non si parla, eppure è proprio il bene che può cambiare il mondo.
«I peccati di omissione? Che razza di roba sono, prof?»  Pensate, proprio su quelli saremo giudicati. Ricordate?
ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato… (Mt 25,42-43).
Non dobbiamo rinunciare al bene che possiamo fare, anche se servirà a poco e non cambierà il mondo. Diceva madre Teresa di Calcutta: «Sappiamo bene che ciò che facciamo non è che una goccia nell’oceano. Ma se questa goccia non ci fosse, all’oceano mancherebbe…». Il mondo certamente non cambierà per quel po’ di buono che posso fare, ma come posso stare in pace con me stesso se non faccio quel bene che il mondo si aspetta da me?
La storia che ho letto su Avvenire del 31 dicembre 2017, raccontata da Danilo Poggio è una storia che merita di essere diffusa. Ha per protagonisti una bicicletta ed una signora vicina all’ottantina. Non è l’età che ci fa giovani, ma la voglia di fare qualcosa di buono per questo nostro mondo.

Una bicicletta è progettata per trasportare una persona e non certo decine di chili di cibo. Eppure, la bici della signora Marta ormai ci è abituata, grazie a un cestello davanti al manubrio, una cassetta appoggiata sulla ruota posteriore e un sellino ben appiattito.

Da anni viene caricata quasi come un camioncino e spinta a mano da una donna forte, determinata e che semplicemente ha voglia di fare del bene.
Marta ha 79 anni (saranno 80 a luglio) e ogni mattina, insieme all’inseparabile due ruote di un bel colore verde acceso, percorre il consueto itinerario nel quartiere Santa Rita di Torino, la zona in cui vive da molti anni. Intorno alle 9 passa davanti a tre diversi supermercati e, guardando nei cassonetti dell’immondizia all’esterno, cerca ciò che viene quotidianamente gettato, ma che resta ancora perfettamente commestibile. Raccoglie tutto il possibile e se ne va a casa con la sua bicicletta smisuratamente carica, con oltre 40 chilogrammi di generi alimentari ogni giorno.
 «È incredibile – racconta – quanto spreco ci sia ancora oggi. Viene gettato il cibo prossimo alla scadenza oppure quello contenuto in confezioni non più perfette, magari a causa di un urto durante il trasporto. In questo periodo, ad esempio, ci sono le arance: se una è andata a male, buttano via intero l’intero sacchetto da 5 chili. È vergognoso». Ma la signora Marta è tenace: di origine contadina, per molti anni ha intervistato la gente in tutto il Piemonte per le indagini di mercato. Oggi è in pensione, vive con il marito, ha un figlio medico e una figlia biologa e tre nipoti iscritti a Medicina. Non si vergogna, però, a rovistare nella spazzatura, anche se viene guardata continuamente con sospetto dai passanti e di certo senza particolare simpatia neppure dai responsabili dei supermercati: «Non mi interessa. Lo faccio perché so che ci sono persone che hanno bisogno e che mi aspettano ».
Tre volte alla settimana, infatti, carica la sua auto di tutte le provviste raccolte e va a distribuirle a chi ha bisogno a Casalborgone, un paese di duemila persone a circa 30 chilometri da Torino. «Ho iniziato quasi per caso, portando qualche genere alimentare a una famiglia che, a causa della crisi economica, si era ritrovata a perdere tutto. In poco tempo, poi, il giro si è allargato e continuavano ad arrivarmi segnalazioni di nuove situazioni di disagio. Adesso seguo 8 famiglie, per un totale di oltre venti persone. Mi accolgono sempre a braccia aperte e con grande dignità. Non mi hanno mai chiesto nulla e riescono a non sprecare mai nulla. Con la farina si fanno il pane, con il latte producono da soli le formaggette. Ciò che avanza (quando avanza) viene portato in una sorta di scuola popolare che ospita gratuitamente anche a dormire persone in grave indigenza».
A scoprire il motivo della frenetica attività della signora Marta è stato un diacono torinese, Benito Cutellè, della parrocchia Natale del Signore, che racconta: «Quando l’ho vista, affaticata nel trascinare la sua bici piena di scatolami e borse, l’ho scambiata per un’indigente e l’ho invitata a venire nella nostra parrocchia, dove avremmo provveduto a darle ciò che le serviva attraverso la San Vincenzo. Mi sbagliavo: non stava rovistando nei cassonetti per se stessa, ma per chi non ha nulla da mangiare. Sono rimasto davvero sorpreso. Alla sua età presta con estrema modestia un servizio importante a favore dei fratelli più poveri. E il suo rammarico è che, quando lei sarà troppo stanca, non ci sia più nessuno ad aiutarli».
 Per ora, però, la signora Marta è ancora energica e molto risoluta: «Soprattutto i politici e i decisori pubblici dovrebbero rendersi conto della situazione reale e di quanta povertà esista ancora oggi. C’è chi veste alla moda e mangia a crepapelle e chi non ha più nulla. Tutti dovremmo darci da fare e, invece, siamo troppo insensibili ai bisogni del prossimo».