Le mani di Dio

Assisi, basilica superiore. La scena in cui Francesco rinuncia ai beni paterni. Se si osserva bene, è tutta un dialogo di mani. Quelle giunte del santo. Quella chiusa a pugno e trattenuta a forza di Bernardone. E in alto quella benedicente, che per metonimia riassume la presenza di Dio, il “padre che è nei cieli”. Chissà se Giotto sapeva, come spiega don Giovanni Cesare Pagazzi, che “«’iniziale ebraica del nome di Dio YHWH, la lettera yod, è vicinissima al vocabolo yad, che vuol dire mano. E del resto la parola mano è una delle più ricorrenti dell’Antico Testamento, a cui possiamo aggiungere i riferimenti alla destra, spesso chiamata a racchiudere l’operato di Dio». […] L’azione di Dio, ricorda Pagazzi nel volume Fatte a mano. L’affetto di Cristo per le cose (Edizioni Dehoniane Bologna, pp. 128, euro 11, prefazione di Pierangelo Sequeri), lo porta a «sporcarsi le mani».
«Dire che Dio ha mani vuole dire che agisce con stile identificabile. È un’espressione che usiamo spesso per gli artisti: la mano di Caravaggio, la mano di Picasso. È la forma, la sua qualità. Dio stesso si stupisce della bellezza di quanto ha creato, è scritto nella prima pagina della Genesi». Ed è proprio nella mano la somiglianza tra Dio e uomo. «Entrambi entrano in contatto con il mondo attraverso le mani. Gli animali e le cose non hanno mani. Le mani sono la cifra dell’agire e come tali identificano la persona. Sembra un gioco di parole, ma non c’è umano senza mano». Le più grandi azioni umane, infatti, sottolinea Pagazzi, sono espresse attraverso la presa: «Il lessico è significativo: com-prendere, ap-prendere, intra-prendere, sor-prendere. In tedesco vocaboli come handlung, azione, e handeln, agire, derivano da hand, mano. Il tatto, a differenza degli altri sensi, è sempre acceso non può essere ingannato. È il senso che certifica inequivocabilmente la realtà di una cosa». […]
Anche il nome ebraico di Gesù, Yehošua, che significa “YHWH salva” comincia con la parola mano. «Per mezzo di lui tutte le cose sono state create, recita il Credo nicenocostantinopolitano. In Cristo si ricapitola il legame di Dio con le cose e si completa. Gesù dichiara puri tutti i cibi, le cose, cioè, che diventano parte di noi stessi. È un fatto unico nella storia delle religioni. Per Gesù le cose non sono semplici mediatrici: sono sorelle. Gesù è primogenito di ogni creatura. Disprezzare le cose vuol dire offendere il rapporto di fraternità tra Cristo e noi. È qui la radice della povertà cristiana: che esalta le cose e non le punisce. Il loro valore e il loro peso sono tali che ne bastano poche».
[…] Il gesto più importante compiuto da Gesù nel Vangelo, osserva Pagazzi, è quello di «prendere il pane. In greco il verbo lambano significa tanto prendere quando ricevere: e infatti l’eucaristia è ringraziamento. Quando sa prendere e ringraziare il cristiano, dunque, ha la mano di Gesù». Ma sono ancora la mano e le cose a testimoniare la verità della Resurrezione: «Il Gesù risorto tocca, prende, mangia. Solo così può dimostrare di non essere un fantasma. Cristo porta così a compimento la creazione dell’uomo dalla terra, perché la parentela mano/cosa dopo la sua Resurrezione diventa definitiva».

Incredulità di san Tommaso (Caravaggio)

Acquista così anche nuova luce l’episodio di Tommaso, la cui necessità di toccare con mano il risorto è sinonimo di mancanza di fede: «In realtà la richiesta di Tommaso è valida, e infatti Gesù la onora. Ma quando si parla dell’incredulità di Tommaso non si ricorda quasi mai il passo di Luca in cui Gesù appare ai discepoli e dice: “Guardate le mie mani” e poi, senza che nessuno glielo chieda, dice: “Toccatemi e guardate; uno spirito non ha carne e ossa”. La sua realtà è la stessa del mondo. No, non si può riconoscere Dio se non attraverso le cose».

Tratto da Alessandro Beltrami in Avvenire del 22 ottobre 2013

La vita è un insieme di interrelazioni

Come ulteriore contributo alla riflessione sull’essere comunità, vi propongo, cari ragazzi di seconda, questo pensiero di Martin Luther King, tratto dall’ omelia del Natale del 1967.
«La vita è un insieme di interrelazioni. Siamo legati ad una rete di comunità vestiti dello stesso abito del nostro destino. Tutto ciò che colpisce direttamente, colpisce tutti indirettamente. Siamo fatti per vivere insieme: la nostra realtà è intercomunicante. Non vi siete mai fermati a pensare che non potete neppure andare al lavoro al mattino senza dichiarare la vostra dipendenza da tutto il mondo?
Vi alzate, fate le vostre pulizie afferrando la spugna, e questa vi viene da un indigeno del Pacifico. Prendete il sapone e questo viene dato dalla mano di un francese. Passate in cucina a bere un caffè e vi viene versato nella tazzina da un sudamericano: o forse preferite il thè, e vi viene offerto da un cinese; o ancora desiderate cioccolato ed è un africano che ve lo offre. Allungate la mano per prendere il pane, e toccate le mani callose del contadino di lingua inglese o di un fornaio. Prima ancora di finire colazione, vi siete già messi in contatto con metà del mondo.
Il nostro universo è strutturato così: e non riusciremo a raggiungere la pace interna finché non avremo riconosciuto questo fatto basilare della struttura interdipendente di ogni realtà
».

Lo sviluppo dei popoli

La tragedia di Lampedusa ha scosso le coscienze. Spero di tutti.
Simili tragedie non possono lasciarci indifferenti; ma l’emozione che suscitano deve accompagnarsi ad un serio ripensamento del nostro stile di vita. Non è possibile che ci si scuota dall’indifferenza solo quando le tragedie accadono alle “porte di casa”. La miseria e la disperazione accompagnano la vita di tante persone. Dobbiamo farci carico del loro dolore e ripensare e costruire un mondo più umano, un mondo più giusto.
A scuola stiamo proprio parlando di comunità, di fraternità, di bene comune.
Se non ci riconosciamo fratelli e se continuiamo a vivere secondo la logica del più furbo e del più forte, non ci sarà un’evoluzione dell’umanità. Piuttosto diventeremo sempre più simili alle bestie, che non scelgono di essere così, ma anzi, molte volte, ci stupiscono per la solidarietà e l’accoglienza di cui sono capaci.
Per approndire ulteriormente la riflessione, vi propongo l’enciclica di Paolo VI, il papa della mia infanzia e di parte dell’adolescenza, sullo Sviluppo dei Popoli (Populorum Progressio). Provate a ricostruirne il testo.

Se dovessero esserci difficoltà nella corretta visione del gioco, cliccate qui.

I racconti della creazione

Quanto volte vi ho detto che di racconti della creazione ce ne sono due nella Bibbia? E quante altre volte vi ho ricordato che diversi sono gli autori del testo biblico?
Leggete cosa ha scritto Matteo Liut in Popotus del 10 ottobre 2013:
La prima volta viene ritratta nel racconto scandito in sette giorni, che viene letto ogni anno durante la Veglia pasquale del Sabato Santo. Questo brano ha un tono maestoso e descrive un Dio che sovrasta tutto il cosmo, mettendolo in ordine.
La «seconda creazione», invece, è contenuta in un brano che avrebbe un’origine più antica: la Genesi non è il prodotto di un unico scrittore, che ha realizzato il libro tutto di seguito come fa un autore moderno, ma è il frutto di un lavoro di raccolta di diversi racconti risalenti anche a epoche diverse. In questa «seconda creazione» Dio viene descritto come un attento costruttore che dà forma ad ogni cosa: assomiglia quasi a un artigiano. E quando si tratta di creare la donna la sua azione ricorda addirittura a quella di un chirurgo: addormenta Adamo, gli toglie una costola, richiude la carne e con la parte estratta dà vita a Eva.
Molti, forse, si sono contati e ricontati le ossa del costato per capire se è vera l’antica credenza popolare secondo la quale gli uomini hanno davvero una costola in meno. Alla fine, però, i dubbiosi si saranno sicuramente rivolti a qualcuno esperto di medicina, la cui riposta non può che essere una: no, non è vero che gli uomini hanno meno costole delle donne. Un verdetto che spazza via, quindi, ogni credenza popolare al riguardo e mette in dubbio il racconto della Bibbia. A prima vista sembrerebbe un evidente errore del testo sacro e spingerebbe a credere che in fondo tutto quello che è contenuto in esso non sia altro che un mito. Per anni gli interpreti si sono scontrati sul termine «costola», traduzione di una parola ebraica che in realtà, secondo alcuni, potrebbe essere intesa anche come «lato, metà, qualcosa di complementare». È stato anche ipotizzato che questa metà presa da Adamo altro non fosse che una parte dei geni contenuti nelle sue cellule e raddoppiata per generare la donna.
La teoria è affascinante e parrebbe conciliare scienza e fede. In realtà, però, non esiste linguaggio umano in grado di descrivere esattamente le azioni di Dio e quindi ogni parola è inadeguata. Le immagini usate dalla Bibbia servono a descrivere il senso delle cose e in questo caso vogliono indicare l’origine del legame profondo tra uomo e donna: pur essendo differenti e distinti, i due sono parte di un’unica cosa, condividono la stessa materia di cui sono fatti. Un bellissimo messaggio di unione, comunione e rispetto tra uomo e donna. Rispetto che, quindi, va esteso a tutti gli esseri umani in quanto parte di uno stesso grande progetto.

dettaglio della facciata del Duomo di Orvieto

Valorizzare il ruolo delle donne. Anche nella Chiesa

La maternità non è semplicemente un dato biologico, ma comporta una ricchezza di implicazioni sia per la donna stessa, per il suo modo di essere, sia per le sue relazioni, per il modo di porsi rispetto alla vita umana e alla vita in genere”. Lo ha detto il Papa aggiungendo che la maternità non va ridotta neppure solo a “un ruolo sociale”, e che “chiamando la donna alla maternità, Dio le ha affidato in una maniera del tutto speciale l’essere umano”.
Papa Bergoglio lo ha detto nella udienza ai partecipanti a un seminario sui 25 anni della Mulieris dignitatem. Il Papa si è soffermato in particolare sul punto della Lettera apostolica dedicata nel 1988 da Giovanni Paolo II alla figura della donna, in cui si parla dello “speciale affidamento dell’essere umano alla donna”, e si è chiesto cosa ciò significhi. “Mi pare evidente – ha osservato – che il mio predecessore si riferisca alla maternità. Tante cose – ha aggiunto – possono cambiare e sono cambiate nell’evoluzione culturale e sociale, ma rimane il fatto che è la donna che concepisce, porta in grembo e partorisce i figli degli uomini. E questo non è semplicemente un dato biologico, ma comporta una ricchezza di implicazioni sia per la donna stessa, per il suo modo di essere, sia per le sue relazioni, per il modo di porsi rispetto alla vita umana e alla vita in genere. Chiamando la donna alla maternità, Dio le ha affidato in una maniera del tutto speciale l’essere umano”.
Papa Francesco ha quindi segnalato “due pericoli sempre presenti, due estremi opposti che mortificano la donna e la sua vocazione”: “Ridurre la maternità ad un ruolo sociale, a un compito, anche se nobile, ma che di fatto mette in disparte la donna con le sue potenzialità, non la valorizza pienamente nella costruzione della comunità. Questo sia in ambito civile, sia in ambito ecclesiale”. L’altro pericolo, “come reazione a questo, in senso opposto”: “promuovere una specie di emancipazione che, per occupare gli spazi sottratti dal maschile, abbandona il femminile con i tratti preziosi che lo caratterizza. E qui – ha rimarcato – vorrei sottolineare come la donna abbia una sensibilità particolare per le “cose di Dio”, soprattutto nell’aiutarci a comprendere la misericordia, la tenerezza e l’amore che Dio ha per noi”.
​”Soffro, dico la verità, quando vedo nella Chiesa che il ruolo di servizio, che tutti dobbiamo avere per le donne scivola verso un ruolo di servitù e non di servizio”, ha confidato Papa Francesco nel suo discorso – in larga parte a braccio .
“A me – ha aggiunto – piace pensare che la Chiesa non è ‘il Chiesa’: è donna e madre, questo è bello”.

Da Avvenire del 12 ottobre 2013

Italiani, studiate di più!!!

Da Popotus del 10 ottobre 2013.

immagine tratta da Popotus del
10 ottobre 2013

Nella classifica dell’istruzione dei Paesi più industrializzati del mondo, l’Italia occupa le posizioni di coda. È penultima per quanto riguarda la matematica e addirittura ultima per la lettura e la comunicazione. L’allarme è stato lanciato dall’Ocse (sigla che sta per Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), che ha realizzato una ricerca sul livello di istruzione dei cittadini di 24 Stati. Per quanto riguarda le abilità alfabetiche (leggere e scrivere), gli italiani arrivano a un punteggio di 250, rispetto a un massimo di 500 e a una media Ocse di 273. Ai primi posti ci sono Paesi come il Giappone e la Finlandia.

Che ne dite, ragazzi? Ci diamo una mossa?!!!

Donne ebree in preghiera al Muro del pianto. Ad alta voce.

Un contributo al nostro lavoro di ricerca su “Donne nelle religioni”, tratto da Popotus del 10 ottobre 2013.

Litighiamo su tante cose, ma difficilmente penseremmo che qualcuno possa farlo persino sul modo in cui si prega. Invece capita anche questo. Ed è per tutti una buona notizia quando le persone interessate si mettono d’accordo. È quanto è successo in questi giorni a Gerusalemme dove sembra essere destinata a finire la disputa sulla preghiera delle donne al Muro del pianto, luogo veneratissimo da tutti gli ebrei. Come avviene in tante sinagoghe, anche al Muro maschi e femmine pregano in zone separate (sembra strano, ma pure nelle nostre chiese un tempo era così…). Solo che in questo posto di Gerusalemme finora alle donne era permesso di pregare solo individualmente e in silenzio. A differenza degli uomini che si ritrovano in gruppi e – soprattutto – leggono ad alta voce la Torah, la Bibbia ebraica.
Questa distinzione tra maschi e femmine nel modo di pregare esiste anche in molte comunità ebraiche nel mondo, che seguono in tal modo una tradizione millenaria. Ma non è così dappertutto. Da anni sono nate anche altre sinagoghe in cui uomini e donne pregano insieme. E in alcune una donna può diventare anche rabbino. Per questo motivo alcune donne hanno cominciato a dire: se il Muro del pianto è per tutti gli ebrei, perché noi non possiamo pregare ad alta voce? Ne è nato un gran parapiglia: quanti non erano d’accordo (e a Gerusalemme sono la maggioranza) hanno cominciato a cacciarle via quando si ritrovavano a pregare.
Poi – qualche mese fa – è intervenuto un tribunale per dire che, invece, avevano ragione. Ugualmente, però, ogni volta che arrivavano al Muro trovavano ad attenderle centinaia di altre donne delle comunità ebraiche più rigide, che impedivano loro di avvicinarsi. «Io ho ragione e tu torto»: si poteva andare avanti all’infinito a discuterne, come purtroppo spesso accade. Invece si è trovato un compromesso: le donne che vogliono pregare ad alta voce potranno farlo, ma in una zona a parte, un po’ defilata. Così chi resta legato al modo tradizionale ebraico di pregare non se ne sentirà offeso. Piuttosto che impuntarsi per l’affermazione di un diritto le donne hanno accettato la soluzione che tiene conto della sensibilità degli altri.
Perché in fondo la cosa veramente importante era poter pregare tutti liberamente al Muro del pianto. Così sarà.

Non opprimete i figli con l’idea della scuola

Proprio ieri si sono concluse le visite alla scuola da parte dei genitori degli alunni di prima. Grazie per la vostra partecipazione e perché credete, come noi insegnanti, che scuola e famiglia debbano essere unite per il bene dei bambini e dei ragazzi che ci vengono affidati.
Proprio per questo vorrei condividere con voi un brano della scrittrice Natalia Ginzburg, tratto da Le piccole virtù, pubblicato originariamente su “Nuovi Argomenti” nel 1960.

Al rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare un’importanza che è del tutto infondata. E anche questo non è se non rispetto per la piccola virtù del successo. Dovrebbe bastarci che non restassero troppo indietro agli altri, che non si facessero bocciare agli esami; ma noi non ci accontentiamo di questo; vogliamo, da loro, il successo, vogliamo che diano delle soddisfazioni al nostro orgoglio. Se vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come noi pretendiamo, subito innalziamo fra loro e noi la bandiera del malcontento costante; prendiamo con loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi lamenta un’offesa. Allora i nostri figli, tediati, s’allontanano da noi. Oppure li assecondiamo nelle loro proteste contro i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo, insieme con loro, a vittime d’una ingiustizia. E ogni giorno gli correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti, studiamo con loro le lezioni.
In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe esser chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e illusorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere che non c’è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d’esser continuamente incompresi e misconosciuti, e di essere vittime d’ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi. I successi o insuccessi dei nostri figli, noi li dividiamo con loro perché gli vogliamo bene, ma allo stesso modo e in egual misura come essi dividono, a mano a mano che diventano grandi, i nostri successi o insuccessi, le nostre contentezze o preoccupazioni.
È falso che essi abbiano il dovere, di fronte a noi, d’esser bravi a scuola e di dare allo studio il meglio del loro ingegno. Il loro dovere di fronte a noi è puramente quello, visto che li abbiamo avviati agli studi, di andare avanti. Se il meglio del loro ingegno vogliono spenderlo non nella scuola, ma in altra cosa che li appassioni, raccolta di coleotteri o studio della lingua turca, sono fatti loro e non abbiamo nessun diritto di rimproverarli, di mostrarci offesi nell’orgoglio, frustrati d’una soddisfazione. Se il meglio del loro ingegno non hanno l’aria di volerlo spendere per ora in nulla, e passano le giornate al tavolino masticando una penna, neppure in tal caso abbiamo il diritto di sgridarli molto: chissà, forse quello che a noi sembra ozio è in realtà fantasticheria e riflessione, che, domani, daranno frutti. Se il meglio delle loro energie e del loro ingegno sembra che lo sprechino, buttati in fondo a un divano a leggere romanzi stupidi, o scatenati in un prato a giocare a football, ancora una volta non possiamo sapere se veramente si tratti di spreco dell’energia e dell’impegno, o se anche questo, domani, in qualche forma che ora ignoriamo, darà frutti. Perché infinite sono le possibilità dello spirito.
Ma non dobbiamo lasciarci prendere, noi, i genitori, dal panico dell’insuccesso. I nostri rimproveri debbono essere come raffiche di vento o di temporale: violenti, ma subito dimenticati; nulla che possa oscurare la natura dei nostri rapporti coi nostri figli, intorbidarne la limpidità e la pace. I nostri figli, noi siamo là per consolarli, se un insuccesso li ha addolorati; siamo là per fargli coraggio, se un insuccesso li ha mortificati. Siamo anche là per fargli abbassare la cresta, se un successo li ha insuperbiti. Siamo per ridurre la scuola nei suoi umili ed angusti confini; nulla che possa ipotecare il futuro; una semplice offerta di strumenti, fra i quali forse è possibile sceglierne uno di cui giovarsi domani. Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore per la vita, né oppresso dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato d’attesa, intento a preparare se stesso alla propria vocazione. E che cos’è la vocazione di un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita?

Musulmani a difesa dei cristiani

Letto su http://www.missionline.org (7/10/2013)

«Una sola nazione, un solo sangue». Hanno scelto questo slogan ieri a Lahore un gruppo di musulmani pakistani per esprimere la loro solidarietà alla comunità cristiana colpita due settimane fa dalla gravissima strage di Peshawar, avvenuta proprio durante la Messa domenicale in una chiesa anglicana. Il gruppo ha formato una catena umana a protezione della locale chiesa di Sant’Antonio, replicando un’immagine già vista anche in altri contesti che hanno vissuto l’esperienza di attacchi violenti da parte di fondamentalisti musulmani ai danni delle comunità cristiane. A promuovere l’iniziativa – organizzata attraverso i social network – è stato l’imam Mohammad Farooq che ha recitato davanti ai presenti alcuni versi del Corano che invitano alla tolleranza. E un gesto analogo – riferisce la stampa pakistana – si era già tenuto la scorsa settimana a Karachi fuori dalla cattedrale di San Patrizio. «I terroristi ci hanno mostrato che cosa fanno loro di domenica – ha commentato Mohammad Jibran Nasir, un altro dei promotori -. Noi vogliamo far vedere loro che cosa facciamo noi: siamo uniti con i cristiani». Un altro cartello significativo durante la manifestazione recitava lo slogan: «Basta dialogo, solo fatti». Gesti di solidarietà da parte di musulmani che non cancellano evidentemente la gravità di quanto accaduto quindici giorni fa a Peshawar. Ma confermano ancora una volta come le generalizzazioni siano la risposta peggiore all’odio religioso. 



Grazie a tutte le persone di buona volontà che riescono a vedere negli altri, diversi per credo religioso, per cultura, o per qualunque altra cosa, dei fratelli.