Beatitudini, la Magna Charta di Gesù

Primo giorno di scuola del maestro Gesù, all’aperto, sulla collina, il cielo come soffitto, l’erba per pavimento, l’abside del lago sullo sfondo. E il primo argomento che il giovane rabbi di Nazaret tratta nella sua prima lezione, è il tema della felicità: beati voi, ripete per otto volte. La prima rivelazione: Dio vuole figli felici. 
La vita è e non può che essere una ricerca di felicità. La felicità sempre provvisoria dei viandanti. E invece di un discorso alla Robin Williams, nel film L’attimo fuggente, uno di quei discorsi accattivanti e piacioni, fa una lezione drammatica e impopolare. Parla di poveri, di perseguitati, di piangenti, di affamati. Sceglie le ferite delle persone: le Beatitudini sono ferite che diventano feritoie, in cui si affaccia una terra nuova e felice. 
La genialità di Gesù: non imposta il suo progetto su di una morale umana, ma su di una lieta notizia: Dio regala gioia a chi produce amore, aggiunge vita a chi edifica pace. 
Le Beatitudini non raccolgono precetti o divieti, di cui rendere conto, ma sono la bella notizia che chi somiglia a Gesù, affamato di giustizia e di pace, cuore limpido e mite, vive meglio, umanizza il mondo, apre brecce nel muro della storia per sbirciare dentro il Regno, in una umanità nuova e migliore. Una differenza sostanziale rispetto alle dieci parole è il fatto di passare dall’ubbidire a degli ordini all’ubbidire solo alla felicità. 
La beatitudine posta in apertura al primo discorso di Gesù è la chiave di volta, la condizione perché esistano tutte le altre: beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli (Mt 5,3) […]. 
Ci saremmo aspettati: beati perché ci sarà un capovolgimento, la ricchezza passerà in mano vostra. Beati perché sarete i ricchi di domani. No. Il progetto di Dio è più profondo e più delicato. 
Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno, è con voi che Dio cambierà la storia, non con i potenti. Il Signore vuole vedere il mondo con gli occhi dei piccoli e dei poveri. Solo se proviamo anche noi a vedere il mondo così, con lo sguardo dei deboli e degli ultimi, solo allora potrà cambiare questa nostra storia. L’economia della piccolezza attraversa l’intera Bibbia e ne rappresenta un’anima profondissima. Quella di Abele, delle donne sterili e madri, di Giuseppe venduto, di Amos e Geremia, di Betlemme, delle Beatitudini, del Golgota. Dio si rivela a Elia come una sottile voce di silenzio, solo una voce, non si vede e non si tocca; si sceglie come alleato il più piccolo tra i popoli, diventa bambino e poi lascia suo figlio e i nostri figli appesi a una croce. Prendere sul serio l’economia della piccolezza e della povertà ci porta a guardare il mondo in altro modo, e anche le nostre ferite. A cercare i re di domani tra gli scartati e tra i poveri di oggi, a prendere molto sul serio i giovani e i bambini, a trovare meriti là ove l’economia della grandezza sa vedere solo demeriti
La prima beatitudine riemerge come prima motivazione nel discorso inaugurale di Gesù nella sinagoga di Nazaret (Luca 4,18): sono venuto a portare una lieta notizia ai poveri […]. «Il primo sguardo di Gesù nel Vangelo non si posa mai sul peccato dell’uomo, mai, ma sempre sul suo dolore o sul suo bisogno» (Johann Baptist Metz). Beati i poveri in spirito, specifica Matteo: davanti a Dio per l’anima non c’è nulla di meglio che essere nulla, pura trasparenza, come l’aria davanti al sole (Simone Weil). La preoccupazione dell’annunciatore è di essere infinitamente piccolo, solo così l’annuncio sarà infinitamente grande (Giovanni Vannucci). 
Le prime parole di Gesù dicono a tutti i disincantati di allora, a tutti i delusi di oggi: smettetela di essere tristi e sfiduciati, ascoltate, qualcuno ha una cosa bellissima da dirvi, così bella che appare incredibile...La notizia bellissima è questa: Dio è per i poveri, contro la povertà; è all’opera, qui tra le colline e il lago, per le strade di Cafarnao, in cammino su questi sentieri. Per umanizzare la vita e farla respirare. C’è polline divino nel mondo. Il Regno viene, è vicino, è qui, viene e fa fiorire la vita in tutte le sue forme. Beato, che ricorre più di cento volte nelle Scritture, ha un significato più vasto dell’immediata accezione di “felice, lieto, contento”. Possiamo intuirlo aprendo il libro dei salmi, il libro della nostra vita verticale, imbattendoci nel termine da subito, dalla prima parola del primo salmo: «beato l’uomo che non percorre la via dei malvagi». Il salmo collega beatitudine e cammino come nella illuminante ermeneutica di André Chouraqui: “beato” significa «in cammino, in piedi, in marcia, avanti, voi che non seguite la strada dei malvagi, non arrendetevi, non lasciate cadere le braccia». 
In cammino voi poveri; in piedi voi miti; avanti, in marcia, fate il primo passo, in piedi voi che siete a terra, rialzatevi, ricominciate. Dio cammina con voi. 
«La Provvidenza conosce solo uomini in cammino» (san Giovanni Calabria). 
Tratto da Avvenire del 3 marzo 2024

NESSUNO SI SALVA DA SOLO

Venerdì 20 marzo del 2020, in una piazza San Pietro incredibilmente vuota, papa Francesco pregava Dio perché ci aiutasse contro la pandemia. In quell’occasione, richiamando l’immagine degli apostoli nella tempesta, ci ricordava che non potevano andare ciascuno per conto proprio, ma che solo insieme potevano farcela, perché “Nessuno si salva da solo”. 
Non so che ne pensiate voi, ma a me sembra che invece di aprirci agli altri ci siamo chiusi in noi stessi, o meglio, il post covid ci ha reso affamati di vita e di relazioni che tendiamo a vivere, però, nella frenesia e nella superficialità. Fondamentalmente, pur cercando di stare con gli altri, siamo concentrati solo su noi stessi e sull’appagamento dei nostri bisogni. Ho l’impressione (condivisa con molti colleghi) che sempre di più siano gli alunni che fanno tanta difficoltà a comprendere gli stati d’animo degli altri, a regolare i propri comportamenti a seconda del contesto e dei momenti, a sostenere il confronto con un no o con un’opinione che contrasta con la propria, o anche a chiedere aiuto senza dover immancabilmente accusare gli altri del proprio malessere. 
Vogliamo parlare anche dei genitori? La fragilità dei figli è sempre colpa della Scuola, con la quale non è possibile collaborare, ma alla quale invece si rivolge la pretesa che non crei problemi e si adegui agli orari, agli svaghi e agli impegni familiari. Ma questo è un altro discorso😉. 
Con gli studenti di prima media ho creato una caccia al tesoro sulla Bibbia (che ho inserita in un post precedente) che, tra i vari giochi e proposte di attività ne conteneva una che portava proprio alla costruzione della frase “Nessuno si salva da solo”. Ma cosa c’entra questa frase con la Bibbia? 
Gregorio Magno definì la Bibbia come una lettera d’amore che Dio ha scritto a noi esseri umani per aiutarci a comprendere il senso di noi stessi, della vita, della ricerca di felicità. La Bibbia non è tanto un libro che racconta la storia di Dio, ma casomai la storia di un Dio che le fa tutte (perdonate l’espressione) per entrare in relazione con noi, perché, come dice la Dei Verbum, Egli vuole renderci partecipi della sua vita divina. La Bibbia allora ci presenta la storia umana come manifestazione della volontà salvifica di Dio, che ci coinvolge tutti e tutti siamo chiamati, così come Dio si prende cura di noi, a prenderci cura gli uni degli altri. 
Gesù ci ha insegnato come l’amore verso Dio non è autentico se non è unito all’amore per gli altri e che nel giorno del Giudizio verremo chiamati a rendere conto della cura che avremo avuto verso i più bisognosi. Nessuno si salva da solo perché non ci auto-salviamo ma abbiamo bisogno di rimanere nella relazione con Dio, ma anche perché siamo chiamati a “incarnare” questa relazione nell’amore verso il prossimo. 
Attraverso la Bibbia Dio ci dice il suo amore e ci invita a vedere il mondo con i suoi occhi, che sanno andare oltre l’apparenza e sanno cogliere quanto di vero e buono ci può essere in ognuno di noi. Soltanto con quello sguardo possiamo accostarci agli altri, vedendo in ciascuno la possibilità che ci viene offerta per contribuire alla costruzione di un mondo più umano. 
Quando ci crediamo onnipotenti tradiamo la nostra umanità, diventiamo nemici gli uni gli altri, facciamo del Mondo un Inferno 😔.



NO, LA MELA NO😒

Il racconto del peccato originale non identifica il frutto proibito con la mela. Lo dico e ridico, ma tanto qualcuno ci casca sempre (anche la pubblicità🙄). 
Leggete cosa ho travato nella pagina Facebbok della Comunità ebraica di Roma (ndr il testo è adattato)

La Torà non rivela l’identità del frutto proibito nel Giardino dell’Eden – dicono i nostri Maestri – per timore che si potesse pensare: “Questa è la specie di frutta che portò la morte nel mondo”. 
I commentatori hanno formulato diverse opinioni su questo tema basate su vari indizi che si trovano nella Torà. Forse era grano, oppure uva (secondo lo Zohar – “Il libro dello Splendore”, testo scritto in un fiorito aramaico classico nella Spagna del XIII secolo – Noè piantò dell’uva appena uscì dall’Arca come riparazione del peccato del frutto proibito), fichi (secondo alcuni commentatori c’è un legame perché il fico servì come vestiario perché usato da Adamo ed Eva per coprirsi: “Tramite ciò con cui sono caduti in basso,sono stati rettificati”). Oppure ancora, il cedro, che in ebraico è chiamato “perì etz hadar” (il frutto dell’albero bello) collegato con l’albero della conoscenza del bene e del male che era di bel aspetto, oppure le noci.
Ma allora perché si è sempre detto che fosse la mela? Forse trae origine dalla parola latina malum, che significa “malvagio”, collegata all’altro termine latino malum preso in prestito dal greco che significa mela. 


Come leggere la Bibbia

Devo dire che tali e tanti sono gli impegni scolastici e di altro genere, che faccio sempre più fatica a tenere aggiornato il mio blog. Nel frattempo non è che non abbia fatto nulla 😁. Condivido una infografica che proporrò agli studenti di prima media, per un percorso di scoperta della Bibbia.

Durante l’ora di religione ho sempre, orgogliosamente, fatto altro

Alcuni spunti interessanti dalle pagine di questo libro E. FuksasAma e fai quello che vuoi, Marsilio 2020, pp. 41- 43.
Offriranno un’occasione di confronto, una volta ritornati a scuola.

«Amazon mi recapita la Bibbia di Gerusalemme, e i quattro Vangeli commentati dai migliori filologi in circolazione. […] 
Scopro con profonda vergogna che i Vangeli sono la Bibbia. Come lo sono le Lettere degli Apostoli, la Genesi…. Mi sconvolgo definitivamente quando capisco che anche il Cantico dei Cantici è la Bibbia. Cioè quel libricino beige Adelphi che avevo letto al liceo e dedicato ai grandi amori dell’epoca! Cose dell’altro mondo. La mia ignoranza è una cosa dell’altro mondo. […] 
E’ vero, ammetto: a scuola, in qualunque classe, a qualunque età, durante l’ora di religione ho sempre fatto, orgogliosamente, altro. 
Alle elementari al posto del “catechismo” seguivo “materia alternativa” con una bambina musulmana e un albanese, musulmano pure lui: mitologia greca con la maestra di sostegno del solo ragazzino handicappato della scuola. Credere o non credere (è poi davvero questo il “problema” della religione?) era una questione che poteva spettare. 
Intanto gli anni sono passati. 
Studia filosofia, altre che che Dio. E’ il tuo mondo, i libri che la tua famiglia ha in casa. Quella sì che è importante. La famiglia. La tua appartenenza. 
I classici, la storia, il pensiero, la matematica; formati. Ancora con queste storielle! Sì, certo, la Vergine che partorisce, l’uomo che risorge, i miracoli. 
Ancora non hai capito che la religione è servita per evitare che ci ammazzassimo troppo in fretta gli uni con altri. Glu uni contro gli altri. Ci ha dato, allora, un po’ di speranza. Ha evitato l’estinzione, è stata utile. Forse, neanche è detto, magari invece era meglio se ci estinguevamo. Ha dato leggi e regole a uomini cattivi e selvatici. Ma ormai….Siamo evoluti e non ci accoltelliamo più per nulla (insomma, non proprio: c’è ancora chi si accoltella per un parcheggio) e non servono più i dieci comandamenti. 
Abbiamo governi nazionali e sovranazionali.
Abbiamo tutto. Abbiamo troppo. 
Tempo fa ho ritrovato un mio bigliettino scritto su carta marrone – della pizza, anche unta! – per la maestra dell’asilo di mia sorella Bianca, la più piccola di oltre dieci anni. 
Mi raccomandavo di non farle fare l’ora di religione perché la bambina non era stata battezzata. Firmato da me e controfirmato dalla maestra della povera ignara bambina. […] »



La Bibbia e la voce delle donne: il Libro di Rut (e Noemi)

Prof la Bibbia racconta la storia di Dio? Ni 
Prof, conosciamo Abramo, Giacobbe, Mosè…….e le donne, a parte la mamma di Gesù? 
Proprio per questo vi ho presentato, vero ragazzi?, la storia di Lia e Rachele. Oggi aggiungo un’altra storia ed una riflessione. Mi faccio aiutare da L. Bruni che su Avvenire del 28 marzo propone un percorso di conoscenza di un libro che racconta la storia di una donna, anzi deu, Rut e Noemi. 

«Il piccolo libro di Rut è tra i libri più belli della Bibbia, se non il più bello dal punto di vista narrativo. Contiene molti messaggi etici, sociali, economici e religiosi, ma prima e soprattutto è una storia meravigliosa, una stupenda novella. È una storia familiare, nuziale, è un brano della storia di Israele; ma prima ancora è una storia di donne, la storia di due donne co-protagoniste, tanto che potremmo anche chiamarlo Libro di Rut e Noemi. Perché se Rut emerge come una donna semplicemente splendida, non meno grande e affascinante è la figura di sua suocera Noemi, e il rapporto tra di loro. La storia di due donne sole, donne straniere, donne migranti, donne in cammino, donne amiche (una etimologia del nome ebraico Rut è ‘la compagna’). Una storia che si svolge lungo la strada, nei campi, nell’aia di casa, quasi interamente all’aria aperta. 
Non è storia di palazzo né di tempio. Tutto ruota attorno a quel rapporto speciale, tenace e unico con la vita che è tipico delle donne. Un libro che non solo parla di donne, ma è attraversato da uno sguardo tutto femminile. Ci sono espressioni, scene, dettagli grammaticali che sembrano provenire direttamente dal repertorio linguistico e intimo delle donne. Tanto che qualche autore e autrice ha azzardato (l’improbabile) ipotesi che l’autore del libro sia una donna: «Se c’è un libro della Bibbia per il quale possiamo assumere che è stato scritto da una donna, questo è il libro di Rut» (Irmtraud Fisher, Il libro di Rut come letteratura esegetica). 
In realtà della storia di questo libro – come di tutti i libri biblici – sappiamo molto poco. Di certo chi l’ha scritto era un maestro delle tradizioni spirituali (e non solo ebraica) e della lingua che usa in tutte le sue potenzialità e sfumature, un conoscitore dell’animo umano, in particolare dell’anima delle donne. Sebbene sia ambientato in una fase arcaica della storia di Israele (attorno al XIXII secolo a.C., al tempo dei giudici, un tempo tremendo), oggi sappiamo che con ogni probabilità il libro risale al V secolo a.C., anche se non si può escludere che alcune tradizioni orali su Rut e Noemi (forse distinte in origine) circolassero già prima e durante l’esilio babilonese. […] 
Nella Bibbia greca dei Settanta il libro di Rut occupa un posto importante. Lo troviamo incastonato tra i Giudici e i libri di Samuele. Nella tradizione ebraica (testo masoretico) Rut è invece una delle Cinque Megillot o rotoli, un libro liturgico. Lo si legge nella ‘festa delle settimane’ ( shavuot), in greco Pentecoste, in origine una festa delle messi, celebrata sette settimane dopo l’offerta del primo covone di orzo nel giorno dopo Pasqua. […] 
Dove sta Dio in questo libro? In Rut, Dio si fa da parte per lasciar parlare l’uomo e soprattutto per dare spazio alle donne, alle loro parole, ai loro gesti, alla loro anima. È questo, forse, il messaggio teologico più importante del libro: quando la Bibbia incontra le parole umane più grandi fa tacere Dio e fa parlare gli uomini e, qualche volta, le donne. Rut è un libro fatto di parole di donne e di uomini – su 85 versi totali, 55 sono dialoghi –, alle quali è affidata la rivelazione di alcune dimensioni essenziali del Dio biblico: amore ( hesed),fedeltà, giustizia, riscatto dei poveri. 
Perché se è vero che la Bibbia contiene una rivelazione di Dio, a dirci chi è il suo Dio sono soprattutto gli esseri umani. E non lo fanno soltanto quando pregano nei salmi, né soltanto nelle parole della Legge e dei profeti; gli uomini e le donne bibliche ci dicono chi è Dio anche quando ci parlano semplicemente di azioni umane. 
Sta anche qui la natura reciproca dell’«immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1,27): se noi gli somigliamo, anche Dio somiglia a noi. Se quindi vuoi conoscere il Dio biblico, non cercarlo soltanto nel creato, nei profeti e nel roveto ardente; cercalo anche nelle parole e nei gesti di Noemi, Rut e Boaz. Sta anche qui l’infinita, meravigliosa laicità vera della Bibbia, che è una grande epifania di Dio tramite epifanie di uomini e di donne, che nell’esercizio ordinario della loro umanità ci hanno detto qualcosa di importante su Dio – e continuano a dircelo ancora». 

Capite allora il mio Ni alla domanda iniziale? E’ riduttivo dire che la Bibbia racconta la storia di Dio, perché la Bibbia racconta di uomini e donne che, nelle loro azioni umane (nel senso di bella umanità) ci rivelano l’immagine di Dio (concetto che abbiamo spiegato in tantissimi modi, vero?). 
Riprendiamo le parole del nostro esperto. 

«C ’è, infine, nel libro di Rut una nota tutta umana che spicca sulle altre. La Bibbia è piena di voci, di vocazioni, di uomini che ricevono una chiamata, che dialogano con Dio e poi quasi sempre partono per eseguire il compito ricevuto. Potremmo anche raccontare la Bibbia come il susseguirsi e l’intreccio di queste voci e questi dialoghi. Nel Libro di Rut, invece, queste voci divine non ci sono. Non ci sono gli angeli né Elohim a chiamare le sue protagoniste, non ci sono manifestazioni di Dio, non c’è quasi neanche il suo nome. Noemi e Rut si ‘alzano’ e si mettono in cammino non come risposta a una voce esterna. La voce che le chiama, le fa alzare, camminare e tornare è tutta interna, e quindi noi lettori non la udiamo, ne vediamo solo gli effetti. 
Forse perché le voci che muovono le donne sono sussurri incarnati, sono gemiti di vita, sono segni scritti nell’invincibile vocazione alla vita. Noemi e Rut cercano e inseguono la vita, e così vivono la loro vocazione. Il Dio della vita vede queste azioni tutte umane, le riconosce come sue, vi appone il suo crisma. E poi ci dice: ‘Vuoi capire chi sono? Guarda Rut e Noemi’. 
Gli uomini biblici per muoversi sembra abbiamo bisogno di udire la voce di Dio che li chiama per nome. Le donne bibliche, quasi sempre, partono e basta, quasi sempre partono sole, in una solitudine tutta loro anche quando è ricoperta di compagnia e sororità – partono per vivere, per far vivere altri. Rut e le sue sorelle – Abigail, Anna, Rispa, Elisabetta, Maria. E in questo c’è, forse, qualcosa del modo femminile di vivere le vocazioni – provo sempre un profondo imbarazzo quando si deve parlare dell’anima delle donne. 
Quando le donne raccontano le loro storie vocazionali dicono, spesso, storie diverse. La chiamata, l’incontro solenne e chiaro con la voce divina, non ci sono sempre; per mettersi in cammino con la loro tipica tenacia e fedeltà sono importanti le voci umane e gli incontri diversi con persone in carne e ossa, magari con il guardiano di un sepolcro vuoto. Hanno la rara capacità di intercettare il carattere divino dentro le voci umane, sanno, per un misterioso istinto spirituale, trovare l’infinito nel dettaglio, sanno riconoscere l’eterno in un bambino. Portano in sé la vita per donarla, e il Dio della vita ha fatto loro il dono di sentirlo e toccarlo dentro la vita – le religioni e i dogmi sarebbero stati molto diversi se li avessero raccontati le donne». 

Interessante questo passaggio. Non ne abbiate a male, giovanotti delle “mie” classi, ma il maschile e il femminile hanno un modo diverso, tutto loro, di rapportarsi al Mistero.

Ragionando di fede, accompagnati dal Salmo 91

Vorrei proporvi una riflessione sulla fede. In primo luogo mi rivolgo agli studenti più grandi ma, attraverso la mia mediazione, potrei provare a “punzecchiare” anche gli studenti delle medie.

La fiducia e la fede sono parole sorelle. Senza l’una non c’è l’altra, e la fede è un rapporto segnato dalla vulnerabilità. 
Mi faccio aiutare da Luigino Bruni che su Avvenire del 23 agosto ci accompagna in questa riflessione prendendo spunti preziosi dal Salmo 91. 
La fiducia è una relazione radicalmente vulnerabile. Quando una persona si fida di un’altra, mette nelle sue mani qualcosa di proprio di cui l’altro può disporre e persino abusare. Sta in questa esposizione di colui che dà fiducia la radice di quella gioia speciale che proviamo quando qualcuno ripone in noi la sua fiducia, perché sentiamo che ci ha chiesto di custodire qualcosa di prezioso che riguarda la sua persona, la sua intimità, il suo mistero, anche quando passa attraverso semplici cose materiali. […] 
Se allora chi compie un atto di affidamento fa di tutto per ridurre e possibilmente annullare il rischio di abuso e tradimento intrinseco alla fiducia, finisce per ridurre e azzerare il valore di quel bene relazionale. Se, ad esempio, nello scrivere un contratto ne definisco i dettagli fino a includere tutte le possibili situazioni future al fine di prevenirmi da ogni possibile uso scorretto di quella relazione fiduciaria, sto dando alla controparte un messaggio di sfiducia che cambia la natura del rapporto che stiamo costruendo. […] La fiducia invulnerabile non è un bene. […] 
La fede biblica ha essenzialmente una natura ternaria. Tra il fedele e il suo Dio c’è qualcuno che gli dice che si può fidare. Questo qualcuno è un profeta, è Abramo o Mosè, è la Torah, ma è anche il fratello o la sorella nella fede. […] Non tutti abbiamo un profeta accanto a insegnarci la fede, ma tutti abbiamo una persona che ci può insegnare a credere e a fidarci. Una persona che ci dice: «Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste che distrugge. Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio; la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Non temerai il terrore della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, l’epidemia che devasta a mezzogiorno» (Salmo 91,3-6). E noi rispondiamo: «Sì, mio rifugio sei tu, o Signore!» (91,9): è il secondo movimento della fede, quando dopo aver creduto a chi gli ha insegnato la fede-fiducia, il credente fa la sua dichiarazione di fede. Questo movimento è secondo, perché prima c’è qualcuno che mi dona la fede – la fede finirà sulla terra quando l’ultimo credente smetterà di donarla a qualcuno. […] 
La fede biblica è credere in Dio credendo alle persone che ci parlano in suo nome mettendoci la faccia. È sempre esperienza comunitaria, un evento che accade in mezzo al popolo, è un rapporto di fiducia. A volte non siamo capaci di credere perché non siamo capaci di fidarci, e l’allenamento alla fiducia inter- umana è un’ottima preparazione alla fede. Chi non si fida di nessuno non crede neanche in Dio, chi si fida poco degli uomini si fida poco anche di Dio, e la fede diventa un atto cognitivo che non cambia la vita. 
Infine il terzo movimento. Entra in scena Dio: «Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e io gli darò risposta; nell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso. Lo sazierò di lunghi giorni e gli farò vedere la mia salvezza » (91,13-16). Nel formulare la sua promessa, Dio si espone alla possibilità del non avveramento di queste parole, perché la storia è un continuo spettacolo di persone fedeli e giuste che invocano e non hanno risposta, che non sono resi gloriosi, che conoscono il fallimento. E questo perché la fede biblica condivide la stessa vulnerabilità inscritta in ogni rapporto di fiducia vera, che è vera perché vulnerabile. Perché non abbiamo conoscenza diretta di colui di cui ci fidiamo, lo conosciamo solo ‘per sentito dire’ (Giobbe), lo conosciamo perché lo abbiamo ‘sentito dire’ da chi ci siamo fidati. Perché sia noi sia Dio cambiamo in continuazione, ogni mattina dobbiamo ricredere a quello che avevamo creduto fino a ieri notte – la fede è un atto di fiducia coniugato al presente. 
Una tappa decisiva della fede matura consiste nel prendere un giorno coscienza che quando pronunciamo la parola ‘Dio’, la parola più bella, famigliare e intima, non sappiamo cosa stiamo dicendo – ma continuiamo a dirla, perché queste parole possono solo essere amate. Ecco perché all’inizio di alcune grandi vocazioni bibliche c’è un affidamento complicato: Mosè non vuole tornare in Egitto, Geremia recalcitra, Giona fugge, Samuele ha bisogno di quattro chiamate per dire ‘eccomi’, Elia per rialzarsi e continuare il cammino dovette imparare a udire il silenzio e YHWH dovette imparare a sussurrare. Se l’affidamento della fede non fosse rischioso e vulnerabile la fede non sarebbe un’esperienza autenticamente umana, e diventando credenti diventeremmo meno umani. E chi nella vita ha incontrato una voce che lo/la chiamava e ha risposto, sa che quel rischio è reale ed effettivo, perché sa che qualche volta anche le vocazioni autentiche vanno a male, si smarriscono, si perdono nell’immenso dolore (loro e di Dio). Non sappiamo perché anche le vocazione vere finiscono male. Il fallimento fa parte della condizione umana, e una vocazione infallibile sarebbe semplicemente disumana. 
Ed è questa possibilità che la fede-fiducia riposta in un mistero possa andar male che la rende esperienza umanissima, simile in dignità alla maternità, al nascere e al morire. La nostra fede è esperienza interamente umana per la sua dimensione tragica. Si può essere pienamente umani senza stimare la fede e chi crede, ma non si può credere senza stimare l’umanità, tutta, senza lasciare fuori nulla nel tragitto che porta dall’inferno al paradiso, e ritorno. 
 Questo Salmo fu citato da Satana, nell’episodio delle tentazioni di Cristo: «Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: ‘Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra’» (Mt 4,5-6). Satana qui cita il versetto 12 del Salmo 91. E Gesù risponde a Satana ribadendo la natura di affidamento della fede biblica: «Sta scritto anche: ‘Non metterai alla prova il Signore Dio tuo’» (Mt 4,7). Un messaggio importante di questo splendido versetto che finisce sulla bocca di Satana è l’eccedenza della Bibbia rispetto ai suoi soli usi buoni. Anche il diavolo conosce bene e usa la stessa scrittura conosciuta e usata dagli evangelisti, a dirci che conoscere e citare la Bibbia non offre nessuna garanzia di vita, né di autenticità di dottrina. C’è un uso diabolico della scrittura, persino dei Salmi e della preghiera, al punto che Satana prende una delle preghiere più sublimi e alte del Salterio per tentare Gesù. L’uso della Bibbia di Gesù e quello di Satana coesistono dentro di noi ne fossimo almeno coscienti! Sta anche qui la vulnerabilità della Bibbia: le sue parole sono lì, esposte nella pubblica piazza del mondo, e chiunque le può usare per pregare, per amare meglio, per imparare a vivere; ma tutti le possiamo usare anche per maledire, per condannare, per tentare, per manipolare gli uomini e Dio, per bestemmiare. Anche Dio si fida di noi, ripone nel nostro cuore le sue parole, e noi possiamo tradirle. Nell’inferno non c’è soltanto ‘pape satàn pape satàn aleppe’, ci saranno forse anche parole bibliche abusate e violentate. 
Dio, scegliendo di farsi parola, di parlarci in parole umane, ha scelto di condividere la nostra fragilità. Anche in questo ci somiglia. È il quarto movimento della fede. 

Abigail, l’accoglienza che costruisce la pace

Se pensiamo ai personaggi della Bibbia possono venirci in mente alcuni nomi. Difficilmente saranno di donne. Peccato che la Storia in generale racconti tanto di uomini e poco di donne. Le donne sono sempre rimaste in ombra, oppure, nella storia scritta dagli uomini, hanno rivestito ruoli ambigui o poco edificanti.
La Bibbia sembrerebbe in linea con questa posizione, ma solo per chi ne avesse una conoscenza scarsa o frammentaria.
Leggiamo cosa ha scritto in proposito Matteo Liut in Popotus del 17 ottobre 2019.
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Nelle Scritture le donne hanno un posto rilevante e molto spesso sono loro, attraverso le scelte che fanno, a permettere al progetto di Dio di realizzarsi. L’elenco dei personaggi femminili nei racconti biblici è molto lungo e contiene circa 150 nomi (senza contare le numerose donne che vengono citate solo nel loro ruolo, per esempio, di mogli) e tra di esse alcune sono protagoniste di storie affascinanti, che ancora oggi hanno molto da insegnare sulla bellezza e sulla complessità del genere umano, di quell’umanità che Dio, che è un padre saggio, ama infinitamente come solo una madre sa fare. Se pensiamo alle donne della Bibbia, ci vengono subito in mente Maria, Eva, le donne che appartenevano al gruppo dei discepoli di Gesù, oppure alle antiche progenitrici del popolo di Israele come Sara. In realtà esistono numerose storie meno conosciute, ma altrettanto preziose, come quella di Abigail, donna saggia e delicata, che evitò al futuro re di Israele, Davide, di compiere un atto violento in cui avrebbero perso la vita molti uomini.
Abigail era la moglie di Nabal, un uomo molto ricco grazie soprattutto alle sue greggi, ma che era un presuntuoso a cui piaceva ubriacarsi troppo spesso. Mentre si trovava nel deserto, in difficoltà a causa dello scontro aperto con il re Saul, Davide mandò alcuni suoi servi da Nabal, che in passato aveva ricevuto aiuto e protezione dal futuro re, per chiedergli delle provviste. L’uomo, però, li cacciò via in malo modo e quindi Davide, offeso dall’inatteso rifiuto, decise di andare da Nabal con 400 uomini e uccidere tutti i maschi della sua famiglia.
Per fortuna, però, uno dei servi avvisò Abigail, che comprese subito l’enorme pericolo e, senza indugio, decise di agire per il bene dell’intero gruppo familiare.
Aiutata dai domestici, caricò su degli asini molto pane, due otri di vino, cinque pecore e poi ancora grano, uva, fichi secchi e andò incontro a Davide. Quando lo raggiunse gli disse più o meno: «Ti prego di perdonare mio marito, che è inaffidabile, io non sapevo che c’erano i tuoi uomini altrimenti li avrei accolti come si deve». Davide rimase colpito a tal punto che decise di non attaccare Nabal e, quando Abigail poco dopo rimase vedova, la sposò: aveva riconosciuto in lei la capacità di costruire la pace curando l’accoglienza.