Musulmani digiunano con i cristiani

Ho letto che è partita sui social network una campagna di solidarietà e di dialogo interreligioso che vede impegnate centinaia di musulmani di tutto il mondo a rispettare il digiuno durante la Quaresima.
La campagna, che mira a mostrare fratellanza e vicinanza con i cristiani, è stata lanciata su Twitter da un musulmano americano, Bassel Richie.
Con l’hashtag #Muslims4Lent (Musulmani per la Quaresima), Richie e tanti altri come lui hanno postato foto che li traggono con un cartello in cui annunciano che rispetteranno i 40 giorni di digiuno che precedono la Pasqua cristiana. “Lent” in inglese è la parola che identifica la quaresima cristiana, che comincia con il mercoledì delle ceneri e che prosegue fino a Pasqua. I fedeli cristiani in questi 40 giorni fanno opera di rinuncia di qualche cosa di abituale come segno di pentimento. Ognuno sceglie il modo più opportuno, rinunciando a cibi troppo elaborati, alla televisione, alle sigarette, come segno di contrizione e povertà.
Gli islamici che aderiscono all’iniziativa promossa su twitter accettano anche loro di rinunciare a qualcosa.”La reazione di musulmani e cristiani – ha raccontato Richie all’edizione americana dell’Huffington Post – è stata straordinaria e assolutamente positiva”. “Sembra che oggi – ha affermato Richie – l’odio possa diffondersi molto più velocemente dell’amore”. Con questo gesto invece, ha spiegato il promotore, si vogliono “ringraziare i cristiani che hanno sempre mostrato amore e rispetto per l’Islam mostrando loro che anche noi abbiamo il massimo rispetto per la loro religione e che l’Islam non è quello dei terroristi di Isis”.

Molte sono le foto che vedono musulmani ritratti con cartelli in cui dichiarano di rinunciare  ai biscotti, alla cioccolata, alle patatine fritte, e altro ancora.

collage realizzato con http://www.pizap.com/pizap

Mi sento di dire: “Grazie per il bel gesto di amicizia”.

Ragazzi terribili condannati a custodire il paese

Una storia esemplare come tentativo di dare radici al senso civico, troppo spesso fragile e intermittente.

Sette ragazzini di Dorgali, tutti sotto i 14 anni, nei giorni scorsi hanno distrutto i lampioni della marina di Cala Gonone, nota località turistica della costa nuorese. Il sindaco, Angelo Carta, che ha ricevuto le madri presentatesi in Comune per autodenunciarsi, ha deciso di nominare i sette ragazzi terribili “amministratori” della località, affidando loro la cura ed il decoro della frazione balneare. Lo stesso primo cittadino ha parlato di una scelta in funzione pedagogica piuttosto che coercitiva, e non ha fissato la data finale per il compito assegnato ai ragazzi.
Ecco le regole della “punizione”. «Li ho nominati amministratori di Calagonone – scrive Carta – e in quanto tali devono guardare il loro paese con responsabilità e attenzione, per individuare le cose che non vanno e quelle che devono essere fatte per migliorarlo; entro ogni venerdì devono inviare alla mia email il programma degli interventi della settimana successiva; io approvo o modifico il programma di lavoro per la settimana, aspettando il nuovo programma per il venerdì seguente, facendo verificare che quello in corso sia stato eseguito a regola d’arte».
Una scelta che ha trovato d’accordo le stesse madri, indicate dal sindaco come esempio da seguire. Troppo spesso, infatti, la difesa a spada tratta dei propri figli rischia di danneggiare non poco il percorso di crescita e responsabilizzazione dei giovani.

«Ho voluto sapere – spiega il sindaco – il perché del loro gesto. Mi hanno risposto “boh, e chi lo sa?”. Poi mi hanno chiesto quando finirà la punizione». E quando finirà? «Boh, e chi lo sa?»…

Tratto da Avvenire del 15 febbraio 2014 e Popotus del 17 febbraio 2015

Morire pregando Gesù

Un occidentale non esperto non avrebbe potuto accorgersene. Ma Antonios Aziz Mina, vescovo copto di Giza, cittadina egiziana, nel guardare il video della esecuzione dei ventuno lavoratori cristiani copti uccisi dall’Is ha osservato le labbra dei condannati negli ultimi istanti, e dal labiale ha letto che invocavano il nome di Gesù Cristo.
Il vescovo lo ha dichiarato ieri alla Agenzia Fides, ma forse, nell’incendio che si va allargando sulla Libia, e nell’angoscia che da quel Paese riverbera sul Mediterraneo e l’Europa, a qualcuno potrà apparire una notizia minore.Le “vere” notizie non sono forse i bombardamenti, le città conquistate e perdute, le cupe minacce lanciate dall’Is? E quel labiale invece, solo poche parole afone, subito travolte nel torrente di sangue che sale dal povero corpo di un uomo trucidato.Eppure a volte proprio nelle parole dette piano sta qualcosa di molto grande.Non sarebbe stato umanamente più comprensibile, in quell’ultimo istante, supplicare pietà, o maledire gli assassini? Per noi europei, nati in una Chiesa non fisicamente minacciata, è ragione quasi di uno sbalordimento quell’estremo invocare Cristo, nell’ultimo istante. Noi, che, quanto alla morte, ci preoccupiamo che sia “dignitosa” e “dolce”, e magari convocata quando noi riteniamo che sia l’ora.Questa morte dei ventuno giovani copti, non “dignitosa” e atroce, ci colpisce per la statura che assumono le vittime, morendo nell’atto di domandare Cristo.

Statura, anche questo particolare era stato previsto dall’attento regista dell’Is, nel girare quel video sulla riva del mare. Mentre carnefici e vittime camminano verso il luogo dell’esecuzione infatti è evidente come i boia siano stati scelti fra uomini molto alti, e come bassi, accanto a loro, appaiano i prigionieri.Quasi a evocare tacitamente l’idea che i terroristi siano “grandi”, e le vittime solo “piccoli” uomini; dentro a un mondo sconvolto, giacché non è il nostro Mediterraneo solare, quella spiaggia livida su cui si frangono onde arrossate dal sangue.

Ogni dettaglio, quindi, era stato previsto dagli assassini per evocare un mondo “altro”, in cui dominano i boia intabarrati di nero, a cancellarne perfino le umane sembianze. Ma quell’ultimo labiale non lo avevano previsto, e non sono riusciti a censurarlo. Ostinato come il «no» di Asia Bibi all’abiura, fermo come il «no» di Meriam Ibrahim, in Sudan, quando era in prigione, in catene, con un figlio in grembo, e la prospettiva della impiccagione davanti a sé.
Noi cristiani del mondo finora in pace fatichiamo a capire. Ci paiono giganti quelli che muoiono, come ha detto il Papa dei ventuno copti, da martiri. Eppure se guardiamo le facce di quegli stessi prigionieri nel giorno della cattura, in fila, i tratti mediterranei che li fanno non così diversi da molti ragazzi nel nostro Sud, ci paiono uomini come noi, con gli occhi sbarrati di paura.
E allora che cosa determina, nell’ultima ora, quella irriducibile fedeltà a Cristo?

Una grazia, forse, e insieme il riconoscere, con assoluta evidenza, nell’ultimo istante, il nome in cui, perfino nella morte, nulla è perduto: famiglia, figli, madri e padri e amori, non annientati ma ritrovati e salvati. Pronunciano davanti alla morte quel nome come un irriducibile «no» al nulla, in cui i boia credono di averli cancellati.

Marina Corradi, in Avvenire del 18 febbraio 2014

Convertiti alla carità

La carità cristiana, tradotta nei termini concreti della solidarietà, dell’assistenza, dell’accoglienza, costituì un potente fattore di conversione e di diffusione della nuova fede. Per cogliere adeguatamente questo aspetto dello sviluppo storico del cristianesimo, bisogna tenere nel massimo conto il fatto che le Chiese cristiane si affermarono tutte e quasi esclusivamente, tra I e IV secolo, in ambiente urbano: anzi, soprattutto in quelli che nell’impero romano si potevano considerare i centri urbani più grandi – quella trentina circa che toccavano o superavano i 30.000 abitanti, quasi tutti ubicati nell’area orientale del Mediterraneo –, e prima degli altri i centri portuali quali Alessandria, Antiochia, Cesarea Marittima, Atene, Corinto, Efeso, Smirne, Tessalonica; e, in Africa occidentale – per gli antichi l’Egitto e la Cirenaica appartenevano piuttosto all’Asia –, Cartagine e Leptis Magna.
Si è spesso affermato e si continua ad affermare che il segreto della diffusione della nuova fede consisteva anzitutto nella speranza di una beata vita futura, una vita dopo la morte o addirittura una risurrezione fisica, che i fedeli del Risorto appunto proponevano. Ma tutto ciò appare poco convincente. Molti erano i culti orfici, iniziatici, ermetici, misterici che promettevano varie forme di sopravvivenza o di salvezza dell’anima dopo la morte.
Il fatto è che le comunità cristiane, oltre a propagare questa speranza, offrivano concretamente aiuto e sostegno ai meno abbienti o ai miseri – i poveri, gli ammalati, le vedove, gli orfani – per affrontare e alleviare gli aspetti più duri e spietati di un’esistenza individuale e collettiva che, specie a partire dalla seconda metà del II secolo, si era andata facendo sempre più difficile tra crisi economiche, periodi di carestia, crescente insicurezza.

La solidarietà dei cristiani tra loro e la carità anche nei confronti di coloro che non appartenevano alle loro comunità – qualcosa rispetto alla quale i sodalizi pagani erano assenti o inadeguati – fu un potente fattore di conversione.
La carità fu esercitata con molta dedizione anche nei duri momenti delle persecuzioni, com’è testimoniato ad esempio dall’attività del vescovo Cipriano di Cartagine al tempo dell’epidemia di peste del 252, e da quanto Eusebio ci racconta a proposito dell’impegno di presbiteri, diaconi e semplici fedeli durante un’altra crisi epidemica, stavolta di tifo, scoppiata ad Alessandria nel 268.

Fra tutte le opere di carità, una delle più rischiose, raccomandate e seguite era la visita a coloro i quali a causa della fede erano stati incarcerati. Cipriano di Cartagine resta comunque un modello di carità si può dire insuperabile: è rimasta memorabile la lettera con la quale egli accompagna nel 283 il dono di 100.000 sesterzi ai vescovi di Numidia, esaltando commosso i meriti della carità.
Con la vittoria del cristianesimo, con il ruolo pubblico già da Costantino attribuito ai vescovi nell’amministrazione delle riserve alimentari a vedove e orfani e poi la decisione teodosiana di proclamare la fede in Gesù Redentore unica licita religio dell’impero, le iniziative caritatevoli si moltiplicarono. Fin dai primi tempi della vita libera della chiesa si affermò la concreta prassi della carità nei confronti dei bisognosi e degli ammalati, come insegnano testi quali la Didaché e le Costituzioni apostoliche. Le offerte venivano raccolte in una cassa comune e si tenevano accurati elenchi dei poveri da mantenere.

La storia delle opere di carità del tempo si può ovviamente ricostruire, dato lo stato delle fonti, in modo alquanto rapsodico: non mancano tuttavia ragguagli significativi. Basilio di Cesarea (vissuto nel IV secolo) fondò immediatamente fuori della cinta muraria della sua città un vero e proprio ospedale, la Basileide. Nelle opere di carità si distinsero Giovanni Crisostomo, Epifanio di Pavia, Cesario d’Arles, Massimo di Torino. A Roma, ormai non più sede imperiale, la tradizione delle antiche frumentationes fu mantenuta dalle frequenti elargizioni di derrate alimentari da parte di veri e propri difensori della città e padri dei poveri come Leone Magno e Gregorio Magno. Era questa ferma convinzione di Gregorio, il quale impiegava costantemente e intensamente le proprietà della sua gens Anicia per alleviare le pene dei meno fortunati e considerava tutte le sue risorse utilitates pauperum, al servizio degli indigenti.

Tratto da Franco Cardini, ‘Il pane donato. Piccola storia della carità‘, Emi,  in Avvenire del 10 febbraio 2015.

Custodi e non padroni della terra

Dinanzi ai beni della terra siamo chiamati a «non perdere mai di vista né l’origine, né la finalità di tali beni, in modo da realizzare un mondo equo e solidale», così dice la dottrina sociale della Chiesa (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 174). La terra ci è stata affidata perché possa essere per noi madre, capace di dare quanto necessario a ciascuno per vivere.

Una volta, ho sentito una cosa bella: la Terra non è un’eredità che noi abbiamo ricevuto dai nostri genitori, ma un prestito che fanno i nostri figli a noi, perché noi la custodiamo e la facciamo andare avanti e riportarla a loro. La terra è generosa e non fa mancare nulla a chi la custodisce. La terra, che è madre per tutti, chiede rispetto e non violenza o peggio ancora arroganza da padroni. Dobbiamo riportarla ai nostri figli migliorata, custodita, perché è stato un prestito che loro hanno fatto a noi.
L’atteggiamento della custodia non è un impegno esclusivo dei cristiani, riguarda tutti.

Affido a voi quanto ho detto durante la Messa d’inizio del mio ministero come Vescovo di Roma: «Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo custodi della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! Ma per custodire dobbiamo anche avere cura di noi stessi! […] Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi della tenerezza». Custodire la terra non solo con bontà, ma anche con tenerezza.

(dal videomessaggio che Papa Francesco ha inviato in occasione dell’evento «Le Idee di Expo 2015 – Verso la Carta di Milano», Hangar Bicocca di Milano, sabato 7 febbraio 2015) .

 

Oscar Romero sarà beato

Vorrei offrirvi, cari alunni di seconda, un ulteriore contributo alla nostra riflessione su cosa sia la fede. Vi propongo una figura dei nostri giorni, Oscar Romero, di cui è stato riconosciuto il martirio per fede.
Proprio a proposito della parola “martirio”, vorrei farvi notare che non possono definirsi martiri coloro che in nome di un ideale o di una religione si lasciano esplodere o seminano morte e distruzione. Il martire è tutt’altra cosa.
Il martire è sempre disarmato. Ama, non odia. È incapace di qualsiasi violenza. Non cerca il martirio ma, se costretto, è disposto a subirlo. La sua testimonianza è mite e pacifica.
Proprio come quella di Oscar Arnulfo Romero che sarà presto beato.
Lo ha deciso Papa Francesco, sulla base delle ricerche e delle testimonianze raccolte nel “processo” sulla sua vita, che ne hanno riconosciuto proprio il “martirio”. Significa che l’arcivescovo di San Salvador, in America Latina, fu assassinato per la sua fedeltà al Vangelo, per la fede eroica che non venne meno neanche di fronte al rischio di perdere la vita. E Romero in effetti fu ucciso, il 24 marzo 1980, mentre stava celebrando la Messa nella cappella della Divina Provvidenza.
Ad armare l’assassino fu la dittatura militare che guidava il Salvador e di cui Romero denunciava le violenze. Un impegno di verità, portato avanti fino all’ultimo.
Nell’omelia del giorno prima di morire, infatti, disse: «In nome di Dio, dunque, e in nome di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono al cielo sempre più tumultuosi, vi supplico, vi prego, vi ordino: basta con la repressione!».
(da Popotus del 5/02/2014)