Una storia che parla incontro e non di scontro

Dall’articolo di MARCO ERBA L’imam “socratico” e l’insegnante che fa nascere idee senza imporre, in Avvenire del 17/03/2024 . 
In uno dei miei viaggi in Bosnia ho conosciuto una donna piena di luce. Quella donna, durante la guerra degli anni Novanta, ha vissuto dentro l’assedio di Sarajevo, con il marito a combattere al fronte per difendere la città e un bambino molto piccolo da accudire. Ho passeggiato a lungo con lei per la città. Mi ha portato vicino al mercato coperto, mi ha indicato il punto in cui si metteva a vendere i suoi regali di nozze, per procurare del cibo a suo figlio. Mi ha portato al tunnel di Sarajevo, sotto l’aeroporto, di cui restano pochi metri: è un budello claustrofobico, nel quale si deve stare chini per camminare. La donna, suo figlio e sua suocera lo hanno percorso per centinaia di metri, per sbucare nella terra di nessuno, rischiando la vita, alle spalle della linea dell’esercito serbo che assediava la città. 
Dopo un viaggio pazzesco, quella donna è arrivata prima in Germania e poi qui in Italia, dove è stata accolta e dove suo marito l’ha raggiunta una volta finita la guerra. 
La guerra per lei è un incubo che fatica ad andarsene. Ha perso molte persone. Un giorno mi ha indicato un ponte sulla Miljacka, il fiume di Sarajevo. Mi ha detto che una sera, su quel ponte, una sua amica si è data appuntamento col suo fidanzato: avrebbero dovuto sposarsi pochi giorni dopo. Ma il matrimonio non ci sarebbe mai stato: proprio quella sera, una bomba ha spazzato via le loro vite. Nonostante ciò che ha passato, la donna è tornata a vivere a Sarajevo con suo marito. 
«A volte mi chiedono chi me lo ha fatto fare», mi ha detto. «Molti, durante e dopo la guerra, da Sarajevo se ne sono andati per non tornare più. Altrove si vive meglio. Anche oggi c’è chi vorrebbe andarsene. Ma io mi guardo intorno, passeggio per il centro. Vedo il locale dove siamo stati io e mio marito la prima volta che siamo usciti insieme. Vedo la stradina dove abbiamo passeggiato la sera, tenendoci per mano. Vedo i luoghi dove ci incontravamo coi nostri amici, per far festa tutta la notte. Questa è la mia città, la nostra città. Se non la facciamo vivere noi, la nostra bella città, a chi dovrebbe toccare?». 
Ciò che di quella donna mi ha più colpito è stata la totale assenza di odio nelle sue parole. 
«L’esercito serbo ci ha attaccato, ci ha accerchiato, di ha bombardato; i cecchini non ci hanno dato tregua per anni. Io in guerra ho perso amici e parenti. Ma non odio nessuno». L’ho guardata stupito. «E come fai? Come ci riesci?». Lei mi ha indicato le montagne intorno a Sarajevo: «Io ho vissuto in un assedio, lo so cosa vuol dire stare in una prigione a cielo aperto. Per questo, adesso, non consento più a nessuno di imprigionarmi. Neanche al mio odio. Perché l’odio è la gabbia peggiore». 
Sono parole che mi hanno segnato profondamente. Mi sono chiesto quale percorso avesse alle spalle per essere arrivata fino a lì. Chiacchierando, ho scoperto che è figlia di una donna musulmana e di un uomo di etnia croata e di religione cattolica. Del resto, la Bosnia è un Paese meravigliosamente multietnico: nel centro di Sarajevo la moschea più importante dista pochi minuti a piedi dalla basilica ortodossa e dalla cattedrale cattolica. I matrimoni tra etnie e religioni diverse, soprattutto prima della guerra, erano all’ordine del giorno. La donna che in quel momento mi parlava era stata una bambina figlia di un matrimonio così: i due genitori pregavano ciascuno un Dio diverso. 
Ai tempi, quella bambina e la sua famiglia abitavano un paese tra le montagne. La bambina, curiosa e piena di domande come tutti alla sua età, cominciò a interrogarsi su quelle differenti religioni che erano presenti nella sua famiglia, dove tradizioni diverse si intrecciavano e le festività di entrambi i culti venivano celebrate. Così, un giorno, Dudu decise di andare dall’imam del suo paese. «Senti, signor Imam, devo farti una domanda». «Dimmi». «Signor imam, io ho un dubbio. Mi papà crede in Dio, in suo Figlio Gesù Cristo e nello Spirito Santo. Mia mamma invece dice che l’unico vero Dio è Allah, e Maometto è il suo profeta. Tu cosa ne pensi? Secondo te, dove dovrei pregare? In chiesa oppure in moschea?». L’imam sorrise benevolo. Le rispose con un’altra domanda, come fanno le persone sagge. «Nella tua classe, a scuola, non c’è qualcuno che gli altri prendono in giro?», le chiese. «Sì. Una mi compagna se ne sta spesso da sola». «Allora tu domani vai da lei, parlaci, state un po’ insieme, coinvolgila. E, senti, nella tua classe non c’è qualcuno che fa fatica in qualche materia?». «Sì. Il mio compagno di banco fa fatica in matematica. Dice che ci capisce molto poco». «Allora invitalo a studiare con te. E quando sei a casa, non litigare troppo con i tuoi fratelli. E dai una mano a tuo papà e a tua mamma senza troppo lamentarti, quando ti chiedono aiuto». «Va bene, signor imam». 
 «Ti lancio una sfida. Impara ad amare. Ma non con le parole, con le azioni: ama con la vita. Amare è una palestra. Se imparerai ad amare, Dio ti parlerà: sarà lui a dirti se pregare in una chiesa o in una moschea». 
Ascoltando questo racconto, ho capito il segreto di quella donna. Ho pensato a quanto è viziata la comunicazione in cui siamo immersi. L’11 settembre del 2001 avevo vent’anni: l’attacco alle Torri Gemelle ha segnato tutta l’epoca successiva. Mi sono reso conto, immaginando il dialogo tra quell’imam e quella bambina curiosa, di quanti messaggi che riceviamo descrivono le identità religiose più come fonte di divisione e di violenza che come strumento di dialogo: l’Islam contro l’Occidente, i cattolici conto i laici. Ma, più in generale, quanto spesso la propria identità viene affermata contro l’altro? Quanto spesso abbiamo bisogno di creare un nemico per affermare identità fragili, senza radici? Quella bambina e il suo imam mi hanno insegnato che l’identità è una ricchezza, ma che un’identità consapevole e ben sviluppata non ha mai paura delle altre identità, non si chiude al confronto, anzi, ne esce arricchita. Un’identità sana non esclude altre identità. Costruisce ponti, abbatte muri. 
Perché una identità può avere molte sfaccettature: non è un pezzo di granito, è un giardino accogliente che si espande e ospita germogli sempre nuovi. Io mi sento orgogliosamente milanese: amo il mio dialetto, amo la mia cucina, amo le mie favole e miei modi di dire. Ma sono anche orgogliosamente italiano, concittadino di Dante, Falcone e Borsellino. Ma sono anche fieramente europeo: tedeschi, francesi, spagnoli, polacchi sono miei fratelli. Ma mi sento anche cittadino del mondo: in Africa e in Sudamerica mi sono sentito a casa, ho incontrato persone con tradizioni diversissime dalle mie, ma che sentivo profondamente legate a me. Poi, certo, c’è chi gioca a dividere per affermare identità fragili: i terroristi, gli integralisti, gli estremisti nazionalisti. In mezzo però ci sono Papa Francesco, che afferma che un uomo può guardare un altro uomo dall’alto in basso solo quando lo aiuta a rialzarsi, e quell’imam, che lascia le risposte a Dio e non pretende di averle in tasca lui. 
Papa Francesco e quell’imam, se si conoscessero, sarebbero amici, ne sono convinto. Quell’imam è stato un grande educatore, ha avuto lo sguardo giusto. È sfuggito alla tentazione di imporre una verità per lui facile a una bambina, per scegliere il sentiero impervio del senso critico e della libertà. Un grande educatore non dà mai risposte preconfezionate, preferisce spingere l’interlocutore a riflettere. Un grande educatore non manipola, preferisce tenere aperte le discussioni. Un grande educatore non afferma certezze, ma dona strumenti utili ad acquisirne. Non costringe verso una meta, ma dona una bussola. Un po’ come faceva il filosofo Socrate, che spingeva le persone a trovare autonomamente la verità attraverso le sue domande. 
La verità è dentro di noi: non ci servono insegnanti narcisi che la calino dall’altro, ma insegnanti levatrici che ci aiutino a partorirla.


Dall’odio al perdono

Perdono, parola difficile da pronunciare e vivere. Basta vedere quello che sta accadendo in questo tempo così complicato, dove si parla di vendetta come se fosse un dovere morale. 
Lei prof, sarebbe capace di perdonare? Spesso me lo hanno chiesto gli studenti e rispondo in modo onesto: “Non so, ma so che non c’è alternativa, perché l’odio consuma”. Aggiungo sempre alla mia riflessione che ci sono stati uomini e donne che hanno saputo perdonare. La loro testimonianza è la riprova che si può perdonare. Come ha saputo fare Gemma Calabresi. 
I miei alunni, al contrario di me, non possono avere memoria del marito, il commissario Luigi Calabresi, che fu ucciso il 17 maggio 1972 a colpi di arma da fuoco dinanzi alla sua abitazione, per mano di un commando di due terroristi di Lotta Continua. Gemma si trovò vedova ad appena 26 anni con due bambini piccoli e un terzo in arrivo. Ho letto nella sua biografia che insegnando religione in una scuola elementare è arrivata a maturare il perdono. 
Riporto un articolo di DIEGO MOTTA pubblicato su Avvenire di lunedì 8 aprile 2024.

Il momento più bello negli incontri pubblici con Gemma Calabresi arriva alla fine, quando la tensione del racconto che commuove l’Italia ormai da mezzo secolo si scioglie, in una lunga processione di abbracci, carezze, lacrime. Sono soprattutto le donne a mettersi in fila. A tutte succede di immedesimarsi in quella ragazza ventiseienne che si svegliò una mattina, con due bimbi piccoli e il terzo in grembo, e si ritrovò improvvisamente da sola al mondo. Perduta. 
«Hanno sparato a un commissario» le disse quella mattina la signora delle pulizie. «Anche quella donna, che non ho mai più rivisto, fu fondamentale perché si prese cura dei miei bambini, in un momento drammatico. Gli sconosciuti ancora oggi mi danno tanta solidarietà, mi dicono: ho pregato per lei, l’ho pensata. Nella mia tragedia non mi sono mai sentita sola. Ho scoperto l’importanza degli altri. È come se, dopo il male, il bene avesse bussato alla mia porta» racconta oggi. 
La fine rappresenta sempre un nuovo inizio. Così come è stata la vita in mezzo: un continuo ricominciare, scalando spesso le pareti dell’odio e dell’ostilità, i pregiudizi, le paure. 
L’immagine degli Anni di Piombo è sempre stata nitida per Gemma Calabresi: i cortei, gli avvertimenti, le minacce, la vita blindata di una coppia appena sposata. L’omicidio del commissario pochi metri fuori da casa. 
« In quel momento, ero prima di tutto una madre che doveva proteggere i propri figli. Pesava molto la rabbia, pesava la necessità di togliere da Luigi il timbro di assassino». 
Odio e rancore rischiano di fare prigionieri, possono moltiplicare il dolore e le tragedie. Per Gemma Calabresi, «bisogna impedire che questo succeda, che il male ti divori. Quando vedo le guerre di oggi, quando vedo cos’è diventato il terrorismo, cioè distruggere l’altro fino a mostrarlo e a farne scempio, rabbrividisco… Aprite le braccia, liberatevi da questo male: lasciate che scompaia la voglia di sopraffazione e di prepotenza, accorgetevi che il prossimo per voi è importante…». 
Signora Gemma, tante donne hanno sfilato in questi mesi, dal Medioriente all’Est Europa, chiedendo una tregua, chiedendo verità e giustizia spesso in mezzo alle bombe. 
Mi capita di soffermarmi soprattutto sulle manifestazioni in cui a scendere in piazza, insieme, sono donne che arrivano da fronti opposti: ho visto donne palestinesi e donne israeliane collaborare, iniziando dalle piccole cose, per far smettere questo odio atavico. Se nell’altro vedi sempre il nemico da combattere, il nemico diventa un’ossessione. Se pensi che avrà anche lui dei figli, una moglie e degli affetti a cui rispondere, se riesci a ridargli un minimo di umanità, allora tutto cambia. Una persona non è soltanto il male che ha compiuto. Anche negli anni del terrorismo c’era un obiettivo indicato alla folla: tutti gridavano e nessuno pensava. Quando vado nelle scuole, lo dico sempre ai ragazzi: non andate dietro a chi urla più forte. 
Oggi le campagne di stampa di cui fu vittima suo marito si consumano in un battito di clic, tra una gogna social e l’altra. 
Prego tantissimo per i ragazzi di oggi, perché non si lascino schiacciare dalle logiche del mondo, perché non finiscano per averne paura. Quando li incontro, trovo studenti profondi e intelligenti. Lo leggo nelle loro domande. Non siate gregari, dico loro. Sanno benissimo che sui social oggi si verifica spesso lo stesso meccanismo ripetuto nelle manifestazioni di cinquant’anni fa: una bugia detta una volta, gridata in corteo mille altre volte, rischia di diventare una verità. Non dimentichiamoci di quella stagione. 
Gigi era il volto conosciuto della questura, il più dialogante: divenne ben presto il capro espiatorio. Ricordo una sera: avevamo invitato a cena la maestra e alla fine lei aveva detto a Gigi: “E’ un momento pericoloso, riguardati”. Mio marito era uomo di profonda fede e le aveva risposto così: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”. 
Lei ha confessato recentemente di aver avuto anche fantasie di vendetta. 
E’ vero. C’è stato un periodo, all’inizio, in cui mi sembrava che quei pensieri mi facessero stare bene, mi svegliavo con l’odio nel cuore. Dentro di me avevo la rabbia, lo scoraggiamento, il pianto, una cattiveria sconosciuta. Ma io non ero così e non potevo farmi divorare dal rancore. Avevo i miei figli e volevo educarli al bene, alla gioia di vivere. Dovevo farmi aiutare e ho trovato tanta gente, oltre alla mia famiglia, disposta a farlo. 
Poi si ricade, tante volte: bastava una scritta sui muri e tornavo a scivolare indietro, mi facevo catturare ancora dalla rabbia… Passare dall’odio alla pace, innanzitutto con se stessi, è stato difficilissimo. Però ho sempre avuto tanta solidarietà intorno a me, anche le persone sconosciute che mi riconoscono al supermercato. Il bene bussa spesso alla nostra porta, il problema è che non ce ne accorgiamo. 
Signora Gemma, che ruolo possono avere le donne oggi in questa società addormentata, dove l’individualismo si è trasformato in ritiro sociale e le ragioni per stare insieme, per fare comunità, paiono venire meno? 
Le donne possono fare molto, ne sono convinta. Non a caso Giorgio Napolitano volle dare un chiaro segnale di pacificazione nazionale, completando il percorso iniziato con la medaglia d’oro consegnataci da Carlo Azeglio Ciampi nel 2004. Nel 2009, il capo dello Stato aveva invitato al Quirinale due vedove. L’abbraccio con Licia Pinelli fu un gesto spontaneo: all’inizio mi era mancato il fiato, ma ero convinta che dovessimo salire un altro gradino in questo cammino di riconciliazione e ce l’abbiamo fatta. Siamo due donne legate dalla stessa sofferenza: anche in quella casa, un giorno, papà non è mai tornato. Quanto al ruolo delle donne nel mondo contemporaneo, penso si debba riconoscere che abbiamo un talento tutto nostro nel ricucire gli strappi, nell’aiutare il dialogo. Questo è importante. 
È un discorso che vale, a maggior ragione, per i genitori… 
Certo. I genitori sono chiamati, oggi più di ieri, a donarsi completamente ai figli. A loro direi: offrite voi stessi, parlate con loro, anche se vi spaventa il male di vivere delle nuove generazioni, la paura, la depressione, la violenza. Pregate per le vittime e per i carnefici. 
Per questo, credo molto nella giustizia riparativa, nel dialogo tra le parti. Quel che si è fatto negli ultimi anni ha aperto la via a una nuova stagione: l’importante è che si cominci un cammino, senza distinguere tra chi vuole mettersi in gioco e chi no. 
Che aiuto ha trovato, invece, dalla fede in Dio? 
Io nella preghiera mi affido e affido, sapesse quante persone mi passano per la mente… trovo conforto, mi sfogo, parlo col Padre eterno. Gli dico: ci devi aiutare, manda i doni dello Spirito Santo. Intorno a noi ci sono disegni terribili che noi non capiamo. Bisogna saper leggere i segni e sapere che Dio ci giudica per il bene compiuto, non per gli errori commessi. 
La fede non è altro dalla vita, il perdono è a disposizione di tutte le religioni ma è frutto di un cammino lungo. Se penso al mio, di percorso, posso dire che adesso mi sento meno giudicante di un tempo. La pace con se stessi si trova se si desidera il bene dell’altro. Va costruita da tutti, innanzitutto da chi continua a pagare un prezzo dovuto alla violenza della guerra. Dobbiamo crederci davvero e non fermarci alle prime difficoltà. 
Una volta ho detto a un sacerdote: “Sono un po’ stanca, vorrei tirare i remi in barca”. Lui mi ha risposto: “Non può farlo, lei ha una missione. Deve andare avanti”.





Beatitudini, la Magna Charta di Gesù

Primo giorno di scuola del maestro Gesù, all’aperto, sulla collina, il cielo come soffitto, l’erba per pavimento, l’abside del lago sullo sfondo. E il primo argomento che il giovane rabbi di Nazaret tratta nella sua prima lezione, è il tema della felicità: beati voi, ripete per otto volte. La prima rivelazione: Dio vuole figli felici. 
La vita è e non può che essere una ricerca di felicità. La felicità sempre provvisoria dei viandanti. E invece di un discorso alla Robin Williams, nel film L’attimo fuggente, uno di quei discorsi accattivanti e piacioni, fa una lezione drammatica e impopolare. Parla di poveri, di perseguitati, di piangenti, di affamati. Sceglie le ferite delle persone: le Beatitudini sono ferite che diventano feritoie, in cui si affaccia una terra nuova e felice. 
La genialità di Gesù: non imposta il suo progetto su di una morale umana, ma su di una lieta notizia: Dio regala gioia a chi produce amore, aggiunge vita a chi edifica pace. 
Le Beatitudini non raccolgono precetti o divieti, di cui rendere conto, ma sono la bella notizia che chi somiglia a Gesù, affamato di giustizia e di pace, cuore limpido e mite, vive meglio, umanizza il mondo, apre brecce nel muro della storia per sbirciare dentro il Regno, in una umanità nuova e migliore. Una differenza sostanziale rispetto alle dieci parole è il fatto di passare dall’ubbidire a degli ordini all’ubbidire solo alla felicità. 
La beatitudine posta in apertura al primo discorso di Gesù è la chiave di volta, la condizione perché esistano tutte le altre: beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli (Mt 5,3) […]. 
Ci saremmo aspettati: beati perché ci sarà un capovolgimento, la ricchezza passerà in mano vostra. Beati perché sarete i ricchi di domani. No. Il progetto di Dio è più profondo e più delicato. 
Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno, è con voi che Dio cambierà la storia, non con i potenti. Il Signore vuole vedere il mondo con gli occhi dei piccoli e dei poveri. Solo se proviamo anche noi a vedere il mondo così, con lo sguardo dei deboli e degli ultimi, solo allora potrà cambiare questa nostra storia. L’economia della piccolezza attraversa l’intera Bibbia e ne rappresenta un’anima profondissima. Quella di Abele, delle donne sterili e madri, di Giuseppe venduto, di Amos e Geremia, di Betlemme, delle Beatitudini, del Golgota. Dio si rivela a Elia come una sottile voce di silenzio, solo una voce, non si vede e non si tocca; si sceglie come alleato il più piccolo tra i popoli, diventa bambino e poi lascia suo figlio e i nostri figli appesi a una croce. Prendere sul serio l’economia della piccolezza e della povertà ci porta a guardare il mondo in altro modo, e anche le nostre ferite. A cercare i re di domani tra gli scartati e tra i poveri di oggi, a prendere molto sul serio i giovani e i bambini, a trovare meriti là ove l’economia della grandezza sa vedere solo demeriti
La prima beatitudine riemerge come prima motivazione nel discorso inaugurale di Gesù nella sinagoga di Nazaret (Luca 4,18): sono venuto a portare una lieta notizia ai poveri […]. «Il primo sguardo di Gesù nel Vangelo non si posa mai sul peccato dell’uomo, mai, ma sempre sul suo dolore o sul suo bisogno» (Johann Baptist Metz). Beati i poveri in spirito, specifica Matteo: davanti a Dio per l’anima non c’è nulla di meglio che essere nulla, pura trasparenza, come l’aria davanti al sole (Simone Weil). La preoccupazione dell’annunciatore è di essere infinitamente piccolo, solo così l’annuncio sarà infinitamente grande (Giovanni Vannucci). 
Le prime parole di Gesù dicono a tutti i disincantati di allora, a tutti i delusi di oggi: smettetela di essere tristi e sfiduciati, ascoltate, qualcuno ha una cosa bellissima da dirvi, così bella che appare incredibile...La notizia bellissima è questa: Dio è per i poveri, contro la povertà; è all’opera, qui tra le colline e il lago, per le strade di Cafarnao, in cammino su questi sentieri. Per umanizzare la vita e farla respirare. C’è polline divino nel mondo. Il Regno viene, è vicino, è qui, viene e fa fiorire la vita in tutte le sue forme. Beato, che ricorre più di cento volte nelle Scritture, ha un significato più vasto dell’immediata accezione di “felice, lieto, contento”. Possiamo intuirlo aprendo il libro dei salmi, il libro della nostra vita verticale, imbattendoci nel termine da subito, dalla prima parola del primo salmo: «beato l’uomo che non percorre la via dei malvagi». Il salmo collega beatitudine e cammino come nella illuminante ermeneutica di André Chouraqui: “beato” significa «in cammino, in piedi, in marcia, avanti, voi che non seguite la strada dei malvagi, non arrendetevi, non lasciate cadere le braccia». 
In cammino voi poveri; in piedi voi miti; avanti, in marcia, fate il primo passo, in piedi voi che siete a terra, rialzatevi, ricominciate. Dio cammina con voi. 
«La Provvidenza conosce solo uomini in cammino» (san Giovanni Calabria). 
Tratto da Avvenire del 3 marzo 2024

Tempo che divora o tempo che vola?

La parola tempo viene probabilmente da una radice che indicava «tagliare», così come per analogia alcune misure di tempo vengono dal verbo latino «secare» (tagliare): secondo e secolo. Coerentemente le lancette (diminutivo di lancia) cominciarono a tagliare il silenzio per ricordarci che moriremo.
Nella Genesi le lancette non erano però così cruente: «Dio disse: “Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra”. Dio fece la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. E Dio vide che era cosa buona». 
Nella cultura giudaico-cristiana lo scorrere del tempo è perciò il regolare trascorrere della luce sulle cose, non la violenta lotta del mito greco. In quest’ottica il tempo/luce potrebbe forse riconciliarci con l’incalzante tic tac delle lancette: se ogni rintocco sprigionasse luce, il tempo ci sarebbe meno nemico. La frattura tra luce e tempo è una ferita aperta nel corpo dell’uomo di oggi. Il consumismo frantuma l’esperienza del tempo come alternanza del giorno e della notte: le luci artificiali divorano il sonno. I primi a pagarne le conseguenze sono i ragazzi (da quando esistono gli smartphone, dormono in media un’ora in meno con conseguenze negative sulla loro salute psicofisica). 
Il sonno è vita, non un carica-batterie, né, ancora peggio, una malattia, a cui presto la chimica risponderà diminuendone le ore, per averne di più per «fare» e «consumare». Dopare il tempo è un’illusione tossica. 

Ogni volta che l’uomo si allontana dal ticchettare di luce e buio, Cronos torna a divorare i suoi figli. Espressioni come «ottimizzare» ci illudono di esser noi a misurare il tempo e non lui a misurare noi, così ci abbandoniamo all’umanissimo miraggio di «guadagnarlo» accelerando o aumentando le attività. Definire il tempo in termini di «denaro», «spreco», «perdita» tradisce il fatto che oggi pensiamo di fermarlo con la «produzione». In realtà ciò che è sprecato e perso è l’io: chi sa chi è e che senso ha la sua vita, trova il suo tempo, anche se ne sperimenta la scarsezza. Non sente la necessità di doverlo aumentare e accelerare, ma lo accoglie grazie all’esperienza della «durata». 
Viviamo in modo frenetico non perché ci manca tempo, ma perché ci manca senso: i clacson suonano allo scattare del verde, il passo veloce aggredisce la strada, come se da quei secondi dipendesse la salvezza. 
L’unico modo per non essere «tagliati» dalle lancette è sostare, che non è in-trattenersi, passare il tempo, ma in-dugiare, fare esperienza della durata: abitare il tempo. 
«Abitare» è la forma frequentativa del latino «habere» (avere): chi abita «continua ad avere», è padrone, non servo. Non ha tempo chi non lo abita. Ma come si può indugiare in un mondo frenetico? 
Il tempo acquisisce valore, non in base a ciò che facciamo, ma se siamo interiormente «servi» o «liberi» nel fare le cose. Per me preparare e offrire una lezione su Dante diventa tempo libero: faccio esperienza della durata, quelle ore aprono il tempo, lo vincono perché sono vive e piene di senso. L’«istante» diventa «stare in», indugiare e soggiornare, luminosa durata, e non ripetizione da cui fuggire. Qualsiasi cosa facciamo richiede tempo, e quel tempo è libero o servo in base al senso che gli diamo. 
Il tempo lo si vince «contemplando», cioè quando si ripara la separazione di corpo e spirito. L’azione senza contemplazione diventa schiavitù: non occupa, pre-occupa. Con-templare ha la stessa radice di tempo: significava osservare un ritaglio di cielo, da cui la parola «tempio» (recinto sacro). Se il tempo non è un limite che apre sull’infinito, ci dilania: la trasformazione della domenica, da giorno di relazioni a giorno di acquisti, è una vera e propria vivi-sezione. 
Luce e buio sono lancette per amare. Si guadagna tempo solo amando, perché amare rende il tempo «durata». Accade quando il (ri-)taglio di tempo che ci è assegnato, decidiamo «liberamente» di impegnarlo per qualcosa o qualcuno che ci fa uscire fuori da noi stessi (il tempo libero è quello «liberato per» non semplicemente «da»). 
Solo quando ci diamo anima e corpo, lo scorrere del tempo rallenta, anche se siamo impegnatissimi, perché a segnarlo non è il passo misurabile dagli orologi: il susseguirsi orizzontale dei secondi. L’amore apre la dimensione verticale del tempo, non misurabile, perché è durata: un secondo si dilata e diventa un secolo. Verticale è il tempo dell’artista impegnato nell’opera, verticale è il tempo della madre in attesa, verticale è il tempo delle relazioni vere, verticale è il tempo della preghiera, verticale è il tempo del lavoro appassionato, verticale è il tempo delle foglie più belle prima di cadere, verticale è il tempo delle carezze, verticale è il tempo del perdono, verticale è il tempo dato a un figlio o a un alunno anziché al cellulare…
Il tempo verticale non divora, ma vola: indugiando se ne perde il senso dello scorrere proprio perché se ne vive profondamente il senso dello scorrere, anima e corpo uniti. Diventa nostro, non ci può essere più strappato. 
Il tempo c’è, siamo noi a scegliere per chi è. Il tempo è taglio che, per chi sa abitarlo, diventa tempio, invece resta tomba, pancia di Cronos, per chi lo subisce. Se diamo tempo, cioè senso, al tempo, ci stupiremo di quanta luce può sprigionare ogni ora, il tic tac segnerà il ritmo di ciò che dà vita non di ciò che la toglie, come accade alla scrittrice nel suo studio, perché il tempo, per chi lo abita, cioè per chi ama, non passa: dura.

Liberamente tratto da Alessandro D’Avenia nella Rubrica “Letti da rifare” del Corriere della sera del 3 dicembre 2018 (testo integrale cliccando qui)

Sull’integrità morale

Nel post del 27 luglio sottolineavo che il gesto del campione andasse oltre il fair play, perché mi faceva pensare che c’è una possibilità di bene in ognuno di noi. E’ però anche vero che il bene va scelto; certo, a qualcuno può venire naturale, ma ci sono situazioni in cui non è così scontato agire per il bene. 
A scuola alcuni hanno criticato Vingegaard: l’altro (Pogacar) si sarebbe comportato nello stesso modo? e se ne avesse approfittato per vincere lui? prof, e se quel gesto era solo per farsi vedere?
Vi confesso che non so come è poi andata a finire la gara, però voglio credere che il bene può essere fatto al di là di ogni tornaconto personale, per sola fedeltà ai valori che nutriamo nel nostro cuore. 
Dicevo ai ragazzi che se credi nell’onestà e nella competizione leale (e penso che questi siano i valori che abbiamo mosso il campione), saresti un infame (questa espressione la prendo in prestito da alcuni alunni che me l’hanno suggerita) se ti comportassi in modo contrario. E’ quello in cui credi che fa la differenza.
Dice il Dalai Lama:
«All’origine di tutti i nostri guai c’è il comportamento individuale. Se i singoli membri della collettività mancano di valori e integrità morale, nessun sistema legislativo potrà mai dimostrarsi adeguato. E fin tanto che gli esseri umani continueranno a dare priorità ai beni materiali, persisteranno l’ingiustizia, le diseguaglianze, l’intolleranza e l’avidità, tutte manifestazioni esteriori del nostro trascurare le qualità interiori».
Non c’è da essere chissà quali scienziati per capire che ognuno di noi può fare la differenza, nel bene e, purtroppo, anche nel male. Tante “bruttezze” a cui assistiamo sono conseguenza di comportamenti individuali che non hanno alcun rispetto delle leggi, che possono anche essere fatte benissimo e giustissime.  
Se, come dice il Dalai Lama (e non solo lui 😉, ma qualcun altro prima di lui), quello in cui credi è solo il tuo interesse, il mondo sarà pieno di guai.
Ecco quindi che se vogliamo che le cose vadano meglio dobbiamo avere a cuore la nostra integrità morale.
Una cosa non integra è spezzettata, infranta, disintegrata. Anche noi umani rischiamo di diventare così abituandoci alla mediocrità, alle scelte facili e convenienti solo per noi.
 
Girando nel web ho trovato le caratteristiche delle persone integre:
 
1. Autenticità 
Prima di tutto le persone che hanno integrità morale sono autentiche, vere, non si nascondono dietro le formalità o le apparenze, e dicono quello che pensano senza mancare di rispetto. 
2. Riconoscenza 
Apprezzano il tuo tempo, il tuo impegno, riconoscono il tuo valore e non lo danno per scontato. 
3. Umiltà 
Rimangono umili, anche quando raggiungono il successo o si trovano in una posizione influente. Trattano le persone allo stesso modo a prescindere dal loro ruolo o posizione sociale. integrità morale 
4. Perdono 
Le persone che hanno integrità morale non sentono il bisogno di tenere il rancore dentro, non attuano ritorsioni quando subiscono un torto. Se riconoscono che qualcuno ha commesso un errore in buona fede sanno perdonare, e dimenticare. 
5. Fiducia 
Avendo già fiducia in sé stessi si fidano anche delle persone che li circondano, sanno concedere il beneficio del dubbio anche a chi sembra non meritarselo. 
6. Responsabilità 
Si assumono sempre la responsabilità delle loro azioni senza cercare di scaricarla sugli altri. Scelgono di fare la cosa giusta anche quando è quella più difficile. 
7. Pazienza 
Sanno controllare i loro impulsi e attendere il momento giusto. Per questo pensano a lungo termine più che a breve termine. Mantengono viva la prospettiva di insieme e non si fanno ingannare dall’attrattiva di soluzioni semplici e immediate ma controproducenti nel tempo. 
8. Determinazione 
Sono persone determinate, che non si scoraggiano facilmente e che perseguono i loro obiettivi nonostante le opposizioni o le difficoltà. 
9. Leadership 
Prima di essere leader per gli altri le persone con integrità morale sono leader di sé stessi. Sanno scegliere i propri obiettivi in modo autonomo e darsi delle tempistiche precise per raggiungerli. 
10. Coraggio 
Sono persone coraggiose, consapevoli delle loro paure e che scelgono di affrontarle nonostante tutto, che sanno rischiare, puntare all’impossibile per renderlo possibile. 
11. Cuore 
Forse la caratteristica principale. Le persone che hanno integrità morale sono persone dal cuore grande, che sanno amare, spendersi per il prossimo quando c’è bisogno. Per loro contano poco i riconoscimenti esterni, aiutano e rispettano perché è nella loro natura farlo, perché riconoscono la fragilità altrui e vogliono proteggerla invece che sfruttarla per il proprio vantaggio personale.

 

Non solo fairplay

Il ciclista prende larga una curva, proprio mentre procedeva appaiato al primo in classifica, e scivola a bassa velocità, senza farsi male. Il campione si volta e rallenta per aspettarlo. Io ci vedo molto di più che il fairplay. Gesti come questo mi riconciliano al mondo 😉.

Non bisogna guardare dall’altra parte se hai di fronte l’ingiustizia

Lascio questo editoriale di Michele Brambilla, pubblicato sul Resto del Carlino di mercoledì 16/03/2022, perché si collega con la tematica che stiamo affrontando a scuola. Perché la giornalista russa Marina Ovsyannikova ha interrotto il tg di Stato esibendo un cartello con scritto “No war, non credete alla propaganda, qui vi stanno ingannando”? Forse pensava che nel giro di poche ore una rivolta popolare o una congiura di palazzo avrebbe rovesciato Putin e fermato la guerra? O più semplicemente s’illudeva di cavarsela con una lettera di richiamo del direttore del personale? No, sapeva benissimo che il despota non sarebbe caduto. E sapeva benissimo a quali rischi (al di là della multa di trentamila rubli, che è fumo negli occhi) va ora incontro. Eppure, quel che ha fatto, l’ha fatto ugualmente, contro ogni speranza. Perché? Forse per lo stesso motivo per cui don Giovanni Fornasini, il parroco di Marzabotto ucciso dai nazisti a 29 anni il 13 ottobre del 1944, pedalò per chissà quanti chilometri per salvare la sua gente. Sapeva che non avrebbe potuto sconfiggere Hitler: ma quello che sentiva di fare, lo fece.
O forse Marina Ovsyannikova l’ha fatto per lo stesso motivo per cui il carabiniere Salvo D’Acquisto, il 23 settembre del 1943 alla periferia di Roma, confessò ai nazisti un attentato che non aveva commesso e si fece fucilare salvando la vita ai ventidue civili rastrellati per la rappresaglia. Aveva 23 anni e sapeva che il suo gesto non avrebbe cambiato le sorti della guerra. Ma lo fece.
O forse la giornalista russa ha fatto quello che ha fatto per lo stesso motivo per cui padre Massimiliano Kolbe, il 14 agosto del 1941, ad Auschwitz, si offrì di prendere il posto di un padre di famiglia destinato al bunker della fame. E morì a 47 anni.
O forse la Ovsyannikova ha pensato ai ragazzi della Rosa Bianca, decapitati nel 1943 su ordine di Goebbles per aver distribuito opuscoli e volantini contro la guerra di Hitler.
O forse ha pensato a quel cinese di cui neppure si conosce il nome – oltre che la sorte – che il 4 giugno 1989 si parò davanti ai carri armati del regime comunista cinese in piazza Tienanmen a Pechino.
Marina Ovsyannikova ci ricorda che esistono ancora donne e uomini capaci di un’eroica disobbedienza civile, e mostra – a chi sostiene che Zelens’kyj deve abdicare – ciò che più disturba i dittatori: l’esistenza di qualcuno che dice no. Il 20 luglio del 1944 l’ufficiale tedesco Claus Schenk von Stauffenberg cercò di uccidere Hitler per fermare la guerra. L’attentato fallì e lui fu fucilato alla schiena la sera stessa. Sua moglie Nina era incinta e partorì prigioniera della Gestapo. Nacque Konstanze, alla quale, molti anni dopo la fine della guerra, chiesero che cosa avesse imparato dalla storia di suo padre. Rispose: “Che non bisogna guardare dall’altra parte se hai di fronte l’ingiustizia”.

La responsabilità dei campioni dello sport

Mentre leggevo l’articolo ho pensato ai “miei” studenti dello Sportivo. I ragazzi lo sanno che ho un’idea sullo sport che sa di antico: il vero agonismo non è contro qualcuno, ma è esercitarsi alla disciplina, al sacrificio, alla lealtà. Certo che vincere è bello e dà soddisfazione, ma non può essere a tutti i costi. Ma anche perdere con dignità ha un grande valore. 

Visto il clamore di questi giorni che ha riguardato un grande campione, vi lascio queste righe di Mauro Berruto, pubblicate su Avvenire del 19/01/2022. 
 
Per tanti giorni si è discusso intorno a un’idea: un atleta, oltre a produrre una performance e offrire ai suoi tifosi, definiamola così, una dimensione estetica del gesto tecnico, deve essere un modello di comportamento? Deve ispirare? Deve trasmettere valori oltre che fare gol, canestri, schiacciate? O quanto meno deve sentire un senso di responsabilità, in quanto possessore di una piattaforma di visibilità e di un megafono che amplifica a dismisura la sua voce? 
Più volte mi sono espresso su questo tema attraverso questa rubrica settimanale, non voglio aggiungere il mio punto di vista. Così, nella stessa settimana in cui avremmo festeggiato l’ottantesimo compleanno di Muhammad Alì, l’atleta che forse più di tutti nella storia dello sport ci ha insegnato che uno sportivo, anche quando in attività, è chiamato a schierarsi e a dire come la pensa, lascio spazio alle parole scritte personalmente da Dan Carter, leggendario mediano d’apertura degli All Blacks, pubblicate sul sito “The Players Tribune” in occasione del suo ritiro nel febbraio del 2021. Eccole: 
«A vent’anni giocavo a rugby e lavoravo part-time, vivendo in casa con un gruppo di universitari. Avevo l’ambizione di diventare un professionista, ma a quel tempo il mio obiettivo principale era riuscire a pagare l’affitto. Un giorno venni fermato da un uomo per strada. Mi salutò e iniziò a parlare come se ci conoscessimo bene. Parlammo a lungo di rugby e durante l’intera chiacchierata continuai a chiedermi chi fosse. Un mio vecchio professore? Un amico di mio padre? Alla fine capii, non conoscevo quell’uomo. Era semplicemente qualcuno che mi aveva visto giocare nel weekend. Quell’uomo aveva dedicato 20 minuti del suo tempo a una conversazione con me, solo perché aveva apprezzato il mio modo di giocare, il mio modo di interpretare lo sport che tanto amavo. Per questo quando iniziai a ricevere molte lettere dai fans, decisi che avrei risposto a tutti. 
Ho sempre apprezzato e non ho mai dato per scontato il fatto che tanti tifosi convogliassero le loro emozioni nelle mie performance sportive. Ci sono tante cose che fanno faticare le persone, che le fanno lottare nella vita, cose che spesso quelle persone non possono controllare. Tutti abbiamo le nostre battaglie, ma sapere che per 80 minuti gli appassionati potevano guardarmi giocare e annullare il loro stress quotidiano è stato speciale per me. 
Mentre la mia carriera progrediva ho imparato molto riguardo al potere dello sport e di quanto una singola partita possa avere un impatto sugli altri. Il più grande esempio di tutto ciò l’ho vissuto nel 2011, quando Christchurch venne messa in ginocchio da un enorme terremoto. La comunità fu colpita duramente e per una grossa parte di essa il rugby divenne un modo per sfuggire al trauma che stava vivendo. Non ho mai fatto parte di una squadra in grado di lavorare più duramente di quella: il nostro obiettivo era regalare qualcosa per cui potersi sentire positivi a quelle persone che stavano soffrendo. Nel momento del ritiro, la mia più grande speranza è che le mie gesta abbiano acceso la scintilla in almeno un ragazzo, che quella scintilla lo motivi a dedicare tutto sé stesso a un sogno impossibile. E forse quel ragazzo, investendo cuore e fatica, potrà capire che i sogni impossibili, dopotutto, non sono così impossibili». 
 
Accendere una scintilla, far brillare gli occhi, lasciare una traccia, un segno, un marchio, un’eredità. Ecco la responsabilità dei campioni dello sport.
 

 

 

 

 

 

 

 

Una sola parola: Umanità

Mentre l’anno sta per concludersi, condivido questa riflessione: 

Finisce l’anno e arriva il momento di staccare gli ultimi ‘post it’ dalla bacheca dei giorni. Resta il panno verde o il compensato sottile, vuoto come la vecchia lavagna delle medie, appena pulita. Il gessetto bianco la dividerà in due, da una parte i buoni, cioè i ricordi da vetrina. Dall’altra i cattivi, le situazioni che vorresti non aver vissuto. 
Lutti e malattie a parte, sono gli amori deludenti, gli amici che senti lontani, le persone per cui credevi di essere importante e invece eri uno dei tanti. Perché il dolore può essere solitario, ma la felicità è plurale, si alimenta di pensieri condivisi, di sogni comuni, di complicità. E l’io da radice diventa pianta solo quando ha il coraggio di lasciare spazio al ‘noi’, di rallentare il passo, di gioire per un successo non suo. Guardandoci indietro appare chiaro: nel 2021 ai titoli di coda i momenti più belli sono stati quelli regalati agli altri, piccoli mattoni di una casa calda anche in pieno inverno. Più che di cose, di tecnologia, di macchine, infatti l’uomo ha bisogno di attenzione. 
E allora sul primo ‘post-it’ del nuovo anno, scriviamola in maiuscolo e poi non cancelliamola più, sarà un impegno da non dimenticare. Una parola sola: umanità. Che significa ascolto, empatia, perdono. Che, una volta di più, vuol dire speranza. 

(Riccardo Maccioni in Avvenire del 30 dicembre 2021)

 Che il nuovo anno ci trovi più attenti, gli uni verso gli altri. Più solidali. Più umani.