L’alloggio segreto di Anna Frank

Entriamo virtualmente nelle stanze in cui si nascosero per più di due anni Anna con la sua famiglia, Hermann e Auguste van Pels con il figlio Peter, e il dottor Fritz Pfeffer.
Il 4 agosto 1944, le SS entrarono nell’alloggio segreto e i clandestini vennero arrestati. Qualcuno li aveva traditi e mai si scoprì chi fosse stato.

Solo Otto Frank sopravvisse alla deportazione, tutti gli altri clandestini trovarono la morte nei campi di concentramento. Hermann van Pels venne ucciso nelle camere a gas, Auguste venne gettata sotto un treno durante un trasporto. Gli altri morirono di stenti e a causa delle malattie. Anne e Margot, sopravvissute ad Auschwitz,  morirono a Bergen-Belsen nel marzo del 1945. Anne aveva 15 anni.
Per la visita virtuale clicchiamo sull’immagine.

Giornata della memoria 2014: per non dimenticare

Di cosa è capace l’uomo quando si fa onnipotente, padrone del destino altrui?
Di cosa si è capaci quando l’ideologia prevale sulla ragione e sul cuore, tanto da non riconoscere più l’umanità comune?
Gli ebrei nei campi di concentramento erano stücke, pezzi, cose senza valore; si poteva forse provare pietà per una “cosa”?

La giornata di oggi è un monito per non dimenticare, per rimanere vigili perché nulla di quanto è accaduto possa ancora ripetersi.
Vi lascio alcune scene da un film che prova a rappresentare l’orrore che si videro davanti coloro che liberarono i campi di concentramento. E se quello che apparve ai loro occhi poteva sembrare l’inferno, pensate a coloro che in quell’inferno persero la vita, a quelli che vi sopravvissero e che per anni non trovarono le parole per raccontarlo.
Alcune scene appaiono in tutta la loro crudezza. Vi ricordo che questo è un film; la realtà fu molto peggio.

Tutto è grazia. Ma i ragazzi, lo sanno?

Andrea Monda in  Avvenire dell’8 gennaio 2014

Mi sto rendendo conto che l’episodio della ‘salvezza/salute’ era solo la punta dell’iceberg e vado sempre più confermandomi che non sono i valori che si sono persi, come tanti dicono stracciandosi anche le vesti, ma che piuttosto sono i significati ad essersi smarriti. C’è tutto un linguaggio, squisitamente religioso, che oggi ha abbandonato il campo, non è più usato nel discorso comune, un campo che deve essere dunque bonificato. Da dove partire? Dopo ‘salvezza’ mi è venuto spontaneo passare a ‘grazia’, ma il risultato non è cambiato. Grazia sembra non essere mai stata incontrata da nessuno dei miei studenti.
Almeno il verbo ‘salvare’ i ragazzi lo conoscono, non fosse altro che quando scrivono un testo sul computer il file lo devono appunto ‘salvare’. Spesso mi sono fatto aiutare dal linguaggio dell’informatica, che è pieno di riferimenti religiosi, per cui ad esempio quando si salva un file sul programma Word il titolo viene preso dalle prime parole del testo, proprio come generalmente avviene nella Bibbia e nelle encicliche del Papa e non è un caso che quando vogliamo dare un ordine grafico compatto al testo lo ‘giustifichiamo’, un ottimo aggancio per affrontare il tema impervio della ‘giustificazione per la fede’ in Paolo e Lutero passando magari per Agostino. Ma qui ora siamo in un campo limitrofo, quello della Grazia, un campo oscuro, dove non trovo alcun appiglio, nemmeno nella neolingua di Internet. Provo con il versante dello shopping e faccio scrivere a Cecilia queste parole, a mo’ di brain storming, in maniera disordinata sulla lavagna: grazia, grazie, gratis, gratuito, gratuità, grato, gratitudine… per vedere, come cantava Jannacci, l’effetto che fa. Effetto scarso.
«Di questa costellazione di parole – chiedo – quale vi colpisce maggiormente, quale stella brilla di più?». Gratis lo capiscono tutti, non sanno che è latino questi ragazzi di liceo classico, ma è una parola che hanno trovato spesso (non troppo spesso, qualcuno si lamenta) lungo la loro strada di adolescenti: «È quando nun se paga». Un altro ricorda che ‘gratuito’ è scritto a fianco alla parola ‘ingresso’, quando nelle discoteche le ragazze non pagano, non si sa perché solo le ragazze e qui si dovrebbe da parlare di cavalleria ma sarebbe una diramazione troppo lunga, ma in fondo le lezioni sono anche il risultato delle mille diramazioni in cui ti trasporta la discussione con gli studenti. È qualcosa da fare con ordine e rigore, una lezione di religione, ma anche con l’apertura all’imprevisto, perché Montale ci ricordava che «solo un imprevisto ci può salvare» e Bernanos, citando santa Teresina, rincarava la dose con il suo «Tutto è grazia».

I "NO" che fanno male a figli e alunni

Tratto da Guamodi  Scuola

Se è vero che un bambino che cresce senza freni e senza limiti apprenderà poco o per niente comportamenti adattivi nella vita sociale e relazionale, è vero anche che determinati “no”, formulati male, con un background emotivo e situazionale inadeguato, possono ferirlo seriamente e compromettere il successivo sviluppo.
Quali sono i “No”, per così dire, sbagliati?
Li elenchiamo di seguito:

1. Il NO come rifiuto emozionale
E’ il no del genitore che ha altro per la testa, che non lascia terminare al figlio nemmeno la richiesta e subito parte l’ “Adesso no!”. Questo NO sta a significare: “Adesso non posso prendermi cura di te, non voglio ascoltarti perché ho altro a cui pensare”. L’attenzione la disponibilità all’ascolto vanno sempre garantiti. E’ necessaria in ogni momento, anche quanto non si hanno sufficienti energie.
2. Il NO sottomesso
E’ un NO attivato dalla paura del conflitto con i figli: i genitori hanno paura di contrastare i figli e di perdere autorevolezza nei loro confronti.
Essere accettati dai figli è per loro molto importante, quindi non sono disposti a rischiare con NO perentori e decisi (assertivi è il termine migliore) in grado di solcare i recinti per i loro figli. I loro NO sono “a mezza bocca”, confusi, sussurrati. Alcuni adolescenti “ribelli” non vogliono altro che mettere alla prova i loro genitori, attraverso un atteggiamento di sfida con cui cercano di capire fin dove è possibile arrivare. Il NO sottomesso, a volte, è camuffato da frasi del tipo: “E’ vero che farai contenta la tua mamma e non farai questa cosa?”. Equivale a dire: “Anche se farai questa cosa non avrò la forza di metterti un argine”
3. Il NO ritardato
E’ il NO che tarda ad arrivare, quando ad esempio il figlio chiede: “Posso andare dal mio amico”. Il genitore è titubante, tergiversa, arriva al punto di non sapere più cosa rispondere e allora pronuncia il “NO”. Che porterà il ragazzino alla disubbidienza.
4. Il NO aggressivo
Spesso i genitori hanno paura dei loro figli, anche se in fondo sanno che così non dovrebbe essere. Allora il loro NO diventa una chiara manifestazione di aggressività, perché l’aggressività è la risposta fisiologica alla paura. “Ti ho detto no e te l’ho detto già altre volte!”
E’ necessario che il genitore faccia un lavoro serio su di sé, per trasformare quel sentimento di paura in coraggio e, via via, in serenità. E’ la base da cui partire per ponderare risposte e richieste.

La domanda, a questo punto, viene spontanea: “Com’è, dunque, che si risponde?”
Il modo giusto per rispondere ad un bambino potrebbe essere il seguente: “Questa cosa non la puoi fare per questo motivo”. Quindi, oltre al NO, che impedisce al bambino una certa azione, c’è anche la spiegazione di quel rifiuto, di quel diniego. Il ragazzino avrà così motivazioni, appigli cognitivi, con cui spiegarsi la risposta del genitore.
La spiegazione, naturalmente, deve essere ragionevole. Non serve a nulla spiegare qualcosa di irragionevole o immotivato! La spiegazione, in un intervento educativo, deve essere caratterizzata da semplicità e chiarezza.
I No, dunque, dovrebbero essere pochi, motivati, solidi, sempre gli stessi, coerenti quando le situazioni si somigliano (i bambini, già molto piccoli, sono bravissimi nel fare i loro paragoni tra circostanze e situazioni simili!).

Lo sguardo sulle fedi

Il mondo moderno, l’Europa come il Giappone, sembra avere dimenti­cato la dimensione spirituale, tra fi­nanza e sfrenato consumismo.
Ka­zuyoshi Nomachi, fotografo documentarista, testimonia in una mostra a Roma, dal titolo “Le vie del sacro“, come per mi­liardi di persone la religione sia anco­ra fondamentale.
«L’intensità della fede si sta diluendo. Ma la millenaria storia delle religioni contiene l’essenza dei saperi. E di fron­te ai problemi, l’uomo torna inevitabil­mente a confrontarsi con la dimensio­ne spirituale. Il mondo sta seguendo sempre più la legge della natura, inte­sa come legge della sopravvivenza. Ma come ha detto questo Papa, la miseri­cordia, la solidarietà, l’aiuto alle perso­ne non possono essere messe da parte. Oggi la popolazione mondiale sta au­mentando di giorno in giorno, il pro­blema delle materie prime e dell’ener­gia ci sta portando a un giorno non lon­tano in cui tutta l’umanità vorrà realiz­zare i suoi desideri materiali. La reli­gione può aiutare le persone a riflette­re e raggiungere la pace spirituale».
«Non penso che ci siano differenze profonde tra le religioni. Quando una persona si pone in preghiera di fronte a Dio, in piena comunione, si mette a nudo per incontrarlo. Io in questo ho trovato la più grande somiglianza tra le religioni. Ho catturato il momento in cui le persone si spogliano davanti al divino. La mia conversione è stata frutto di un percorso interiore conflit­tuale. Credo che per salire su una mon­tagna i sentieri possano essere diffe­renti: islam, cristianesimo, induismo. In cima c’è la pace, interiore e frater­na. Quello che non condivido nel mo­do più assoluto è la violenza motiva­ta dalla religione».
Cliccare qui per vedere alcuni scatti dalla mostra “Le vie del sacro”.

Sul dialogo

Cosa vuol dire dialogare? Quali sono le condizioni per un dialogo autentico?
Vi propongo alcune riflessioni lette su Avvenire del 22 dicembre 2013.

«Innan­zitutto è necessaria una disponibilità all’ascolto dell’altro e un’accettazione della sua diversità: non possiamo sce­gliere gli interlocutori a nostro piaci­mento ma dobbiamo fare i conti con chi ci sta concretamente di fronte. An­zi, è importante praticare il dialogo a cominciare dagli interlocutori più vici­ni, per poi allargarlo progressivamente: è questa una capacità rara ma indi­spensabile, unitamente alla pazienza che rifugge dal ricorso a facili scorcia­toie e ad avventurose corse in avanti, per accettare invece, con una buona do­se di umiltà, di ricominciare ogniqual­volta l’obiettivo della reciproca com­prensione, della civile convivenza e del­la pace lo richieda.
Possiamo allora fare a meno del dialo­go? Nella stagione che attraversa la so­cietà a livello planetario, la domanda non si pone nemmeno: rifiutare il dia­logo significa semplicemente scegliere il conflitto come linguaggio di scambio, lasciare che la parola passi alle armi. Le dimensioni globali del confronto etico, sociale, economico sono tali, infatti, che l’alternativa al dialogo non sia un rin­chiudersi nella propria autosufficien­za, ma il lasciare campo libero a quan­ti del dialogo non ne vogliono sapere e lo considerano un fastidioso protocol­lo da soddisfare formalmente per poter passare il più rapidamente possibile a strumenti più sbrigativi e violenti.
Allora, nella difficile stagione di dialogo che attende la nostra società, il ruolo che attende i cristiani non è solo quello di for­nire argomentazioni solide e motivate in difesa di principi e valori imprescin­dibilmente legati all’annuncio del van­gelo, ma è anche quello di sostenere ta­li affermazioni con una prassi concre­ta, quotidiana: saper ascoltare tutti è ciò che caratterizza uno spazio di autenti­ca libertà in cui è possibile il formarsi di un’opinione condivisa, il recupero di quella parresia, di quella onestà di pen­siero e franchezza di parola che fa par­te dello statuto cristiano e che resta ‘buona notizia’ per il mondo intero». (Enzo Bianchi)

«Chi crede che l’altro sia per definizione nel torto non ha chia­ramente alcun interesse ad ascoltare un punto di vista opposto al proprio. Un dialogo non è il faccia a faccia di un gruppo con­tro l’altro, in cui ognuno crede di dover dire noi e non io, e di avere la missione di difendere una volontà di potenza con­tro un’altra. Un dialogo diventa serio quando il rispetto re­ciproco va al di là della semplice civiltà, e quando, come diceva Paul Tillich, «il dialogo con l’altro è anche un dialogo con se stessi». Quando si è tanto genero­si o lucidi da capire che gli elementi che sono nel­l’altro sono, potrebbero o avrebbero potuto es­sere anche in noi stessi. Siamo lontani dal po­litical training , per cui agli indigeni del Sud e dell’Est hanno insegnato a pensare e parlare be­ne come nella metropoli. Niente a che vedere nemmeno con le intimazioni imprecatorie e ran­corose per le quali solo il Nord è colpevole, e di tutto. Qui siamo solidali e corresponsabili, per fare in modo di rendere questo mondo comune, nonostante e con tutte le nostre differenze, un po’ meno omicida di quanto non lo sia già».(Regis Debray)

L’arca simbolo della Chiesa

L’ex anchorman Evan Baxter, da poco eletto al Congresso degli Stati Uniti d’America, si ritrova la vita sconvolta, quando Dio gli appare per affidargli una missione: costruire una nuova Arca, proprio come fece Noè. Inizialmente Baxter fa di tutto per non arrendersi alla prospettiva di costruire un’arca, anche per colpa delle cose negative che avrebbe portato al suo lavoro al Congresso, ma finalmente cede. L’aspetto di Evan comincia a somigliare sempre più a quello del patriarca biblico, grazie ad una miracolosa ricrescita di barba e capelli (che rende vano tagliarli), e ad una tunica proprio come quella di Noè. Nonostante i problemi sul lavoro e con la famiglia causatigli dalla costruzione dell’Arca, Evan continua fino al giorno in cui Dio gli ha predetto l’alluvione. La polizia, sobillata dal capo del Congresso, che ha interessi nello sfruttamento economico di tipo illegale dei parchi e delle riserve naturali, arriva a casa di Evan per distruggere l’Arca. Dopo un breve temporale, tutti tornano a credere che Evan sia un pazzo, finché un’enorme diga, situata all’imbocco della valle, cede, inondando la valle e trasportando l’Arca fin davanti al Congresso; qui Evan parla dello sfruttamento delle riserve naturali ai giornalisti, ed il capo del Congresso risulta infine indagato. Il film si conclude con la gita di famiglia in collina, dove Dio saluta Evan, tornato normale nell’aspetto. (tratto da Wikipedia)
Alcune scene del film.

Sapevate che nella tradizione cristiana l’arca di Noè è stata intesa come simbolo della Chiesa?
L’arca, infatti, trasporta dei passeggeri (cioè i fedeli), e al suo interno custodisce un bagaglio di inestimabile valore, costituito in primo luogo dagli insegnamenti di Cristo, e anche da una grande dottrina, da antichi simboli e riti.
La navigazione dell’arca non è ovviamente sempre facile o esente da pericoli, e così anche la Chiesa è vista come “viandante in questo fluire di tempi malvagi, simile a un diluvio” (Agostino, La Città di Dio, XV, 26). A volte la tempesta all’esterno può farsi molto violenta, ma non per questo il tesoro che viene custodito all’interno diminuisce di valore.
Anche le singole parti dell’arca vengono prese in esame ed accostate ad elementi della Chiesa.
Così i tre livelli di cui è composta l’imbarcazione possono simboleggiare le tre virtù teologali (Fede, Speranza e Carità). La porta d’entrata, presente sul lato dell’arca, rappresenta invece il battesimo, tramite il quale la persona entra nella Chiesa; ma essa simboleggia anche “la ferita con cui fu trafitto il costato del Crocifisso… perché da lì sgorgano i sacramenti con cui sono iniziati i credenti (Agostino, La Città di Dio, XV, 26)”.
Secondo la Bibbia (Gn 6, 15) l’arca è anche alta trenta cubiti, così come trenta erano gli anni di Cristo quando cominciò a predicare il Suo Vangelo (Agostino, Contro Fausto Manicheo, XII, 14).
L’arca è inoltre uno strumento di salvezza, anche perchè secondo la narrazione della Genesi solo chi si trovava al suo interno sopravvisse al diluvio universale; allo stesso modo la Chiesa ha da sempre ribadito come solo in essa l’uomo possa trovare la salvezza spirituale (la famosa frase che sintetizza questo concetto è “nulla salus extra Ecclesiam, nessuna salvezza fuori dalla Chiesa“).

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo:
845 Proprio per riunire di nuovo tutti i suoi figli, dispersi e sviati dal peccato, il Padre ha voluto convocare l’intera umanità nella Chiesa del Figlio suo. La Chiesa è il luogo in cui l’umanità deve ritrovare l’unità e la salvezza. È il «mondo riconciliato».
È la nave che, «pleno dominicae crucis velo Sancti Spiritus flatu in hoc bene navigat mundo – spiegate le vele della croce del Signore al soffio dello Spirito Santo, naviga sicura in questo mondo»; secondo un’altra immagine, cara ai Padri della Chiesa, è l’arca di Noè che, sola, salva dal diluvio .