Cinque regole sull’arte di fare la cosa giusta

Ecco alcuni consigli pratici per fare la cosa giusta:

1. Non fare male a nessuno
Il danno che si può causare non è solo fisico, ma anche emotivo: è importante non fare e dire cose che possono ferire gli altri. Certo non è così semplice. A volte, si può solo limitare la sofferenza altrui. Quando si vuole, per esempio, lasciare la propria ragazza, è molto meglio dire quello che serve e basta, senza elencare nei dettagli cosa non si sopporta più.

2. Lascia il mondo un po’ meglio di come l’hai trovato
Questo vuol dire tirare fuori il meglio di se stessi. Il punto non è solo non fare male a nessuno ma vivere al pieno delle proprie potenzialità di essere umano. Aiutare una compagna nei compiti, ricordare il compleanno della mamma o del papà, per esempio, o ascoltare un amico che ha dei problemi aggiunge qualcosa alla vita degli altri e di chi lo fa.

3. Rispetta il prossimo
Un concetto quello del rispetto che l’autore semplifica affermando che “significa trattare le persone come essere desiderano essere trattate”. E non è una questione di preferenze personali perché tutti, alla fine, vogliono le stesse cose. Occorre mantenere, per esempio, la riservatezza sui fatti degli altri: se uno fa male una verifica, si aspetta che il professore non lo urli con il megafono! Con casi chiari, ispirati alla vita quotidiana dei ragazzi di questa età, l’autore spiega anche che è necessario dire sempre la verità (anche quando non è bella) e mantenere le promesse.

4 Sii giusto
“Che cosa penseresti se tu e un tuo amico aveste risposto tutti e due correttamente a un test, ma il tuo amico avesse preso 10 e tu 6?
Scommetto che diresti: ‘Ma non è giusto!’…
Trattare le persone in maniera ingiusta non è una questione di maleducazione: “non è etico”. Con questo primo esempio, l’esperto di etica invita a riflettere su come sia importante comportarsi secondo questo principio.

5. Sii amorevole
Sembra banale ma non è lo è affatto: per l’autore è il principio più difficile da applicare ogni giorno ma è anche quello che dà più soddisfazioni.
E per chiarire l’idea offre alcuni spunti ai giovani lettori, tra cui, per esempio:
Chiedi a mamma e papà se c’è qualcosa da fare, senza aspettarti niente in cambio. Quando qualcuno ti aiuta anche solo un po’, guardalo negli occhi e digli ‘grazie’
Fai amicizia con un nuovo compagno di classe
Manda una mail a qualcuno che per te è speciale, solo per dirgli che lo stai pensando.

Regole tratte da Bruce Weinstein,  “E se nessuno mi becca?”, Il Castoro

Diventare adulti, nel senso più nobile del termine, non ammette scorciatoie!!!
Meditate gente, meditate.

immagine tratta dal blog http://www.esenessunomibecca.it
che si ispira al libro di Bruce Weinstein

Buoni e cattivi compagni

Mi capita spesso, a scuola, di ricordare agli alunni che non è necessario essere amici dei propri compagni di classe. Ciò che a scuola conta veramente è essere pronti a collaborare; essere, insomma, dei buoni compagni.
Vi propongo questo articolo di Alessandro Zaccuri, pubblicato su Popotus del 2 gennaio 2014:

Tutta colpa delle cattive compagnie, si diceva una volta.
Per fortuna però ci sono anche le buone compagnie. Anzi, i buoni compagni d’avventura. Quelli che magari, per conto loro, non riuscirebbero a diventare eroi, però sono bravissimi nell’aiutare gli eroi a fare bene il loro dovere.
Il più famoso di tutti è Sancho Panza, un uomo come tanti, tranquillo e forse anche un po’ pauroso. Un bel giorno è chiamato a fare da scudiero a un cavaliere che gira il mondo in lungo e in largo, alla ricerca di torti da riparare e, più che altro, della meravigliosa fanciulla che ha rapito il suo cuore. Sarà vero? L’importante è che il cavaliere ci crede e, con lui, impara a crederci anche il bravo Sancho. Sono i personaggi di Don Chisciotte della Mancia, il romanzo che lo scrittore spagnolo Miguel de Cervantes pubblicò in due parti, rispettivamente nel 1605 e nel 1615. Don Chisciotte è un sognatore, Sancho un uomo concreto, ma piano piano, nel corso del loro lungo viaggio, uno impara dall’altro e insieme si accorgono di essere, a modo loro, imbattibili.
Formano una coppia formidabile anche Frodo Baggins e Sam Gangee, i due hobbit che troviamo al centro del Signore degli Anelli di J.R.R.Tolkien (i tre volumi che compongono il librone uscirono tra il 1954 e il 1955). Difficile stabilire chi tra loro sia il più coraggioso: Frodo accetta di portare a termine il compito che gli spetta in quanto custode dell’Unico Anello, ma è Sam che decide di accompagnarlo attraverso pericoli sempre più incalzanti. Per Frodo essere eroe è una necessità, mentre per Sam è una scelta, ed è proprio questo a rendercelo così simpatico. È la dimostrazione che a contare davvero non sono i difetti (ognuno di noi ne ha tantissimi…): basta avere un’unica virtù per trasformare la nostra vita in qualcosa di straordinario. Ed è questa, in fondo, l’impresa che Sam riesce a compiere. C’è un altro particolare che non va trascurato: un buon compagno non è per forza un amico. Al contrario, è uno che rispetta le distanze, si mette al servizio dell’eroe, preferisce restare nell’ombra.
Non è un caso che Lucignolo si presenti invece come un amicone, finendo così per procurare guai

terribili a se stesso e al malcapitato burattino che di lui si è fidato. Succede nelle Avventure di Pinocchio di Collodi (1883), uno dei libri più famosi di tutti i tempi. Lucignolo si rivela un cattivo compagno non perché sia veramente cattivo, ma perché non prende niente sul serio. Neppure l’amicizia, appunto.

Sconfiggere la cultura dei capricci

«Caro professore,
lei dovrà insegnare al mio ragazzo che non tutti gli uomini sono giusti, non tutti dicono la verità; ma la prego di dirgli pure che per ogni malvagio c’è un eroe, per ogni egoista c’è un leader generoso.
Gli insegni, per favore, che per ogni nemico ci sarà anche un amico e che vale molto più una moneta guadagnata con il lavoro che una moneta trovata.
Gli insegni a perdere, ma anche a saper godere della vittoria, lo allontani dall’invidia e gli faccia riconoscere l’allegria profonda di un sorriso silenzioso.
Lo lasci meravigliare del contenuto dei suoi libri, ma anche distrarsi con gli uccelli nel cielo, i fiori nei campi, le colline e le valli. Nel gioco con gli amici, gli spieghi che è meglio una sconfitta onorevole di una vergognosa vittoria, gli insegni a credere in se stesso, anche se si ritrova solo contro tutti.
Gli insegni ad essere gentile con i gentili e duro con i duri e a non accettare le cose solamente perché le hanno accettate anche gli altri.
Gli insegni ad ascoltare tutti ma, nel momento della verità, a decidere da solo.
Gli insegni a ridere quando è triste e gli spieghi che qualche volta anche i veri uomini piangono. Gli insegni ad ignorare le folle che chiedono sangue e a combattere anche da solo contro tutti, quando è convinto di aver ragione.
Lo tratti bene, ma non da bambino, perché solo con il fuoco si tempera l’acciaio.
Gli faccia conoscere il coraggio di essere impaziente e la pazienza di essere coraggioso.
Gli trasmetta una fede sublime nel Creatore ed anche in se stesso, perché solo così può avere fiducia negli uomini.
So che le chiedo molto, ma veda cosa può fare, caro maestro
».

Bella questa lettera, vero? D’altra parte è stata scritta da un grande uomo.
Come genitori siamo così disposti a chiedere per i nostri figli un po’ meno “comprensione” e più rigore?
Perché il compito di noi adulti è di aiutare i nostri ragazzi ad affrontare la vita superando i “capricci”.
Molte volte ce lo dimentichiamo e, sia come genitori che come insegnanti, non siamo proprio di aiuto.  Per non parlare poi delle incomprensioni tra la scuola e la famiglia, che non permettono certo quella sana alleanza educativa capace di far crescere bene bambini e ragazzi.
Per il nuovo anno vorrei rivolgere a tutti l’augurio che possa esserci più collaborazione tra genitori e docenti, che gli uni ascoltino gli altri senza preconcetti e principi (o pseudo-principi) da difendere.
Al centro dobbiamo mettere il ragazzo e la sua crescita positiva.


Le fonti su Gesù: attività per le classi prime

Gesù è esistito veramente? Diversi post del blog vi possono aiutare a rispondere a questa domanda: provate a guardare qui, ma date anche un’occhiata a “Lo spazio di profrel” cliccando qui.
Se pensate di esservi chiarite le idee, svolgete questa attività.


Se ci fossero problemi per la visualizzazione completa dell’esercizio, cliccate qui.

Il significato cristiano dell’albero di Natale

E’ opinione diffusa che, diversamente dal presepe, l’albero di natale sia un “segno” più laico del Natale. Ma è proprio così?
Riprendo l’articolo di Maria Gloria Riva pubblicato su Avvenire del 2 gennaio 2014.

Un celebre canto natalizio di matrice tedesca s’intitola Oh Tannembaum! Ovvero: Oh Albero! L’albero di Natale si è diffuso fra i cristiani d’oltralpe soprattutto in epoca romantica, grazie anche al celebre Wolfgang Goethe (1749 -1832) il quale, benché non fosse particolarmente religioso, aveva una predilezione per le tradizioni antiche, soprattutto per quella dell’albero.
La fortuna dell’albero di Natale tuttavia ha radici che precedono la divisione fra cattolici e protestanti e lo testimoniano diverse opere d’arte. In epoca medioevale, il 24 dicembre, si celebrava il gioco di Adamo ed Eva ( Adam und Eva Spiele) durante il quale, adornando alberi con frutta e dolci, si rendeva omaggio alla vita eterna perduta dai progenitori, ma riacquistataci da Cristo con la sua Incarnazione. Tra gli alberi l’abete in particolare, poiché sempre-verde, è diventato simbolo dell’albero di vita che riapre all’uomo il paradiso perduto. Del resto la parola a-bete (come alfa-beto) deriva dalle prime due lettere delle lingue principali della Bibbia (ebraico e greco): alef e beth; alfa e beta.
Lucas Cranach il vecchio, artista del XVI secolo, prima di aderire alla riforma protestante, diventando amico e confidente di Lutero, fu ripetutamente un cantore della Vergine Maria. Proprio a lui è attribuito un dipinto dal titolo ‘Madonna tra gli abeti’, dove la giovane Madre con i capelli sciolti, simbolo di verginità, guarda intensamente il divino Infante che regge un grappolo d’uva. Un velo trasparente, segno di purezza, avvolge tanto il capo della madre che il corpo del bambino. Alle spalle due alberi: la betulla, che per il biancore del suo tronco rimanda al latte materno, e l’abete. Con tali simboli il pittore designava Cristo quale nuovo Adamo che dispensa un cibo eterno, l’Eucaristia (=l’uva), e Maria la nuova Eva, per la quale si ha di nuovo l’accesso all’albero della vita (=l’abete). Per la sua forma triangolare, questa conifera fu presa quale simbolo della Trinità e, per significarne il carattere religioso, i suoi primi addobbi furono mele e ostie, vale a dire il frutto dell’eden e il pane di vita dispensato da Cristo. Cranach rappresentando l’abete in varie sue opere, intese significare la grazia dell’opera redentiva della Trinità. Dunque gli alberi natalizi non sono un prodotto consumistico opposto al vero Natale espresso dal Presepio; al contrario, essi completano il significato profondo dell’umiltà della grotta: è nato il Salvatore che riapre all’uomo l’accesso al paradiso.

Cranach il Vecchio, Madonna tra gli alberi

La fraternità radice della pace

Alcuni spunti di riflessione dal messaggio del Papa per la XLVII Giornata Mondiale della Pace:
[…] la fraternità è una dimensione es­senziale dell’uomo, il quale è un essere relazionale. La viva consapevolezza di questa relazionalità ci porta a vedere e trattare ogni persona come una vera so­rella e un vero fratello; senza di essa di­venta impossibile la costruzione di una società giusta, di una pace solida e du­ratura. E occorre subito ricordare che la fraternità si comincia ad imparare soli­tamente in seno alla famiglia, soprattut­to grazie ai ruoli responsabili e comple­mentari di tutti i suoi membri, in parti­colare del padre e della madre. La fami­glia è la sorgente di ogni fraternità, e per­ciò è anche il fondamento e la via pri­maria della pace, poiché, per vocazione, dovrebbe contagiare il mondo con il suo amore.
[…] Nei dina­mismi della storia, pur nella diversità delle etnie, delle società e delle culture, vediamo seminata così la vocazione a formare una comunità composta da fra­telli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri. Tale vocazione è però ancor oggi spesso con­trastata e smentita nei fatti, in un mon­do caratterizzato da quella “globalizza­zione dell’indifferenza” che ci fa lenta­mente “abituare” alla sofferenza dell’al­tro, chiudendoci in noi stessi.
[…] le molte si­tuazioni di spe­requazione, di povertà e di in­giustizia, segna­lano non solo una profonda carenza di fraternità, ma anche l’assenza di una cul­tura della solidarietà. Le nuove ideologie, caratterizzate da diffuso individualismo, egocentrismo e consumismo materiali­stico, indeboliscono i legami sociali, ali­mentando quella mentalità dello “scar­to”, che induce al disprezzo e all’abban­dono dei più deboli, di coloro che ven­gono considerati “inutili”.
Così la convi­venza umana diventa sempre più simi­le a un mero do ut des pragmatico ed egoista. In pari tempo appare chiaro che anche le etiche contemporanee risultano in­capaci di produrre vincoli autentici di fraternità, poiché una fraternità priva del riferimento ad un Padre comune, quale suo fondamento ultimo, non rie­sce a sussistere. Una vera fraternità tra gli uomini suppone ed esige una pa­ternità trascendente. A partire dal rico­noscimento di questa paternità, si con­solida la fraternità tra gli uomini, ovve­ro quel farsi “prossimo” che si prende cura dell’altro.
Per comprendere meglio questa vo­cazione dell’uomo alla fraternità, per ri­conoscere più adeguatamente gli osta­coli che si frappongono alla sua realiz­zazione e individuare le vie per il loro su­peramento, è fondamentale farsi guida­re dalla conoscenza del disegno di Dio, quale è presentato in maniera eminen­te nella Sacra Scrittura.
Secondo il racconto delle origini, tutti gli uomini derivano da genitori comuni, da Adamo ed Eva, coppia creata da Dio a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,26), da cui nascono Caino e Abele. Nel­la vicenda della famiglia primigenia leg­giamo la genesi della società, l’evoluzio­ne delle relazioni tra le persone e i po­poli. Abele è pastore, Caino è contadino. La lo­ro identità profonda e, insieme, la loro vocazione, è quella di essere fratelli , pur nella diversità della loro attività e cultu­ra, del loro modo di rapportarsi con Dio e con il creato. Ma l’uccisione di Abele da parte di Caino attesta tragicamente il ri­getto radicale della vocazione ad essere fratelli. La loro vicenda (cfr Gen 4,1-16) evidenzia il difficile compito a cui tutti gli uomini sono chiamati, di vivere uni­ti, prendendosi cura l’uno dell’altro. Cai­no, non accettando la predilezione di Dio per Abele, che gli offriva il meglio del suo gregge – «il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta» ( Gen 4,4-5) – uccide per in­vidia Abele. In questo modo rifiuta di ri­conoscersi fratello, di relazionarsi posi­tivamente con lui, di vivere davanti a Dio, assumendo le proprie responsabilità di cura e di protezione dell’altro. Alla do­manda «Dov’è tuo fratello?», con la qua­le Dio interpella Caino, chiedendogli conto del suo operato, egli risponde: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» ( Gen 4,9). Poi, ci dice la Ge­nesi, «Caino si allontanò dal Signore» (4,16).
Occorre interrogarsi sui motivi profon­di che hanno indotto Caino a miscono­scere il vincolo di fraternità e, assieme, il vincolo di reci­procità e di comu­nione che lo le­gava a suo fratel­lo Abele. Dio stesso denuncia e rimpro­vera a Caino una contiguità con il male: «il peccato è accovacciato alla tua por­ta » ( Gen 4,7). Caino, tuttavia, si rifiuta di opporsi al male e decide di alzare u­gualmente la sua «mano contro il fratel­lo Abele» ( Gen 4,8), disprezzando il pro­getto di Dio. Egli frustra così la sua ori­ginaria vocazione ad essere figlio di Dio e a vivere la fraternità. Il racconto di Caino e Abele insegna che l’umanità porta inscritta in sé una voca­zione alla fraternità, ma anche la possi­bilità drammatica del suo tradimento. Lo testimonia l’egoismo quotidiano, che è alla base di tante guerre e tante ingiu­stizie: molti uomini e donne muoiono infatti per mano di fratelli e di sorelle che non sanno riconoscersi tali, cioè come esseri fatti per la reciprocità, per la co­munione e per il dono.
[…] La radice della fraternità è con­tenuta nella paternità di Dio. Non si trat­ta di una paternità generica, indistinta e storicamente inefficace, bensì dell’a­more personale, puntuale e straordina­riamente concreto di Dio per ciascun uomo (cfr Mt 6,25-30). Una paternità, dunque, efficacemente generatrice di fraternità, perché l’amore di Dio, quan­do è accolto, diventa il più formidabile agente di trasformazione dell’esistenza e dei rapporti con l’altro, aprendo gli uo­mini alla solidarietà e alla condivisione operosa.
In particolare, la fraternità umana è ri­generata in e da Gesù Cristo con la sua morte e risurrezione. La croce è il “luo­go” definitivo di fondazione della frater­nità, che gli uomini non sono in grado di generare da soli. Gesù Cristo, che ha as­sunto la natura umana per redimerla, a­mando il Padre fino alla morte e alla mor­te di croce (cfr Fil 2,8), mediante la sua risurrezione ci costituisce co­me umanità nuova, in piena comunio­ne con la volontà di Dio, con il suo pro­getto, che comprende la piena realizza­zione della vocazione alla fraternità. Gesù riprende dal principio il progetto del Padre, riconoscendogli il primato su ogni cosa. Ma il Cristo, con il suo ab­bandono alla morte per amore del Padre, diventa principio nuovo e definitivo di tutti noi, chiamati a riconoscerci in Lui come fratelli perché figli dello stesso Pa­dre. Egli è l’Alleanza stessa, lo spazio per­sonale della riconciliazione dell’uomo con Dio e dei fratelli tra loro.
Nella mor­te in croce di Gesù c’è anche il supera­mento della separazione tra popoli, tra il popolo dell’Alleanza e il popolo dei Gentili, privo di speranza perché fino a quel momento rimasto estraneo ai pat­ti della Promessa. Come si legge nella Lettera agli Efesini, Gesù Cristo è colui che in sé riconcilia tutti gli uomini. Egli è la pace, poiché dei due popoli ne ha fatto uno solo, abbattendo il muro di se­parazione che li divideva, ovvero l’ini­micizia. Egli ha creato in se stesso un so­lo popolo, un solo uomo nuovo, una so­la nuova umanità (cfr 2,14-16).

Chi accetta la vi­ta di Cristo e vive in Lui, riconosce Dio come Padre e a Lui dona totalmente se stesso, amando­lo sopra ogni cosa. L’uomo riconciliato vede in Dio il Padre di tutti e, per conse­guenza, è sollecitato a vivere una frater­nità aperta a tutti. In Cristo, l’altro è ac­colto e amato come figlio o figlia di Dio, come fratello o sorella, non come un e­straneo, tantomeno come un antagoni­sta o addirittura un nemico.
Nella fami­glia di Dio, dove tutti sono figli di uno stesso Padre, e perché innestati in Cristo, figli nel Figlio , non vi sono “vite di scar­to”. Tutti godono di un’eguale ed intan­gibile dignità. Tutti sono amati da Dio, tutti sono stati riscattati dal sangue di Cristo, morto in croce e risorto per o­gnuno. È questa la ragione per cui non si può rimanere indifferenti davanti al­la sorte dei fratelli.