Il perdono contro l’odio e la vendetta

Si sta avvicinando il momento della proclamazione della santità di Camilla Varano.
E’ di alcuni giorni fa la notizia di una lettera spedita in occasione della canonizzazione della beata Camilla Battista da Varano a suor Chiara Laura Serboli, abbadessa del Monastero Santa Chiara di Camerino,  da monsignor Padovese, nunzio apostolico in Anatolia, che sarebbe stato ucciso alcuni mesi dopo in Turchia da uno squilibrato, forse esaltato dall’islam fondamentalista.
Nella sua lettera mons. Padovese chiede alla comunità delle clarisse di Camerino di pregare perché nelle terre dove i cristiani vengono perseguitati, il dolore possa trasformarsi in invocazione di pace e annuncio di perdono. Il vescovo ricorda Camilla Varano che trovò la forza interiore di  pregare per i suoi nemici che le avevano sterminato la famiglia e l’avevano esiliata, fino a trasformare l’odio di cui era stata fatta oggetto in occasione di perdono e di amore eroico. Per mons. Padovese, “queste stesse virtù, oggi, a distanza di 500 anni, ne fanno un modello per tutta la Chiesa e per tutti gli uomini. Per questo mi sento di dire che, anche per i cristiani delle nostre comunità vessate dalla persecuzione e dalla violenza, la beata Camilla Battista può diventare un esempio di riconciliazione e un’occasione per ritrovare speranza attingendo alla sorgente della Passione di Cristo”. La lettera è stata pubblicata integralmente nella rivista delle Clarisse “Forma Sororum, Lo sguardo di Chiara d’Assisi oggi”, ed è datata 3 aprile 2010, 2 mesi prima della morte di questo eroico cristiano, molto impegnato nell’ecumenismo e nel dialogo con l’Islam.
In occasione della morte di don Andrea Santoro, sacerdote ucciso nel 2006 in Turchia da un fanatico musulmano, aveva detto: “Noi perdoniamo chi ha compiuto questo gesto. Non è annientando chi la pensa in modo diverso che si risolvono i conflitti. L’unica strada che si deve percorrere è quella del dialogo, della conoscenza reciproca, della vicinanza e della simpatia (…)”.

Preghiera per Roma e l’Italia

Il 20 settembre 1870 i bersaglieri aprono la breccia di Porta Pia. Questa porta, costruita per ordine di papa Pio IV su disegno di Michelangelo tra il 1561 e il 1565, fu il punto scelto dalle truppe italiane per conquistare Roma.
Dopo cinque ore di cannoneggiamenti, l’artiglieria aprì una breccia di circa 30 metri nelle Mura che consentì ai bersaglieri e ad altri reparti di fanteria di entrare in città. L’ingresso delle truppe italiane a Roma,che apparteneva allo Stato Pontificio, segnò anche la frattura nei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, di cui i libri di storia ci parlano come della “Questione romana”.  Sono passati 140 anni e questa storia è ormai morta e sepolta, come testimonia la presenza del cardinale Bertone alla celebrazione che evocava questo evento. Il cardinale Bertone, che è il Segretario di Stato vaticano, quindi uno dei più stretti collaboratori del Papa, ha voluto anche rivolgere una preghiera all’Italia.

Ve la riporto:
Dio onnipotente ed eterno, a Te salga la lode ed il ringraziamento perché sempre guidi gli eventi della storia degli uomini verso traguardi di salvezza e di pace. Noi contempliamo l’opera della Tua Provvidenza che si è dispiegata mirabilmente anche in questa Città e in questa terra d’Italia per ridonare concordia di intenti dove aveva prevalso il contrasto. In quest’Urbe, dove per Tua disposizione predicò e morì l’Apostolo Pietro, il suo Successore possa continuare a svolgere in piena libertà la sua missione universale. Tu che hai dato agli abitanti d’Italia il grande dono della fede in Cristo Gesù, conserva e accresci questa preziosa eredità per le generazioni future. Riecheggia nei nostri cuori l’invocazione del Beato Pontefice Pio IX: ‘Gran Dio, benedite l’Italia!’: Sì, Signore, benedici oggi e sempre questa Nazione; assisti ed illumina i suoi Governanti affinché operino instancabilmente per il bene comune. Dona l’eterna pace a quanti qui caddero e a tutti coloro che, nei secoli, hanno sacrificato la vita per il bene della Patria e dell’umanità. Questa Città, questa Nazione e il mondo intero godano sempre della Tua protezione e del Tuo aiuto, affinché il corso della storia si realizzi in conformità ai Tuoi voleri, sotto la guida dello Spirito, fino alla pienezza dei tempi annunciata da Cristo Signore. Amen. 

Dov’è l’Ararat?

Da Avvenire del 19 settembre 2010, servizio di Aldo Ferrari

La fama universale del monte Ararat – il monte di Noé, il monte dell’Arca, dal quale la vita riprese dopo il diluvio universale – si basa sul celebre passo di Genesi 8,4: «Nel settimo mese, il 17 del mese, l’arca si posò sui monti dell’Ararat [al harey Ararat]». Piuttosto che ad un monte specifico, questa espressione ebraica appare infatti riferibile a una regione di montagna, secondo il duplice significato del termine har. Tale regione montuosa va senz’altro identificata con l’Urartu, il vasto territorio compreso tra i laghi di Van, Urmia e Sevan in cui fiorì tra il X ed il VI secolo a.C. un regno potente, a lungo rivale di quello assiro e distrutto infine dai Medi. Ararat e Urartu sono infatti solo diverse vocalizzazione della stessa parola.

Tuttavia, a partire dal VI secolo a.C., in conseguenza della fusione degli abitanti originari con popolazioni di lingua indoeuropea, la regione dell’antico regno urarteo inizio ad essere denominata Armina nelle fonti persiane. Da allora e sino al genocidio del 1915 questo territorio e stato universalmente conosciuto come Armenia. L’identificazione tra l’Urartu/Armenia e la regione dei «monti dell’Ararat» su cui si fermò l’Arca di Noé risulta in effetti assai antica e diffusa in tutto il mondo cristiano, condivisa già da Efrem il Siro e san Girolamo. Non a caso, nella Vulgata l’espressione al harey Ararat è tradotta con super montes Armeniae.

L’esatta localizzazione dell’Ararat costituisce invece un problema di difficile soluzione; per alcuni persino un falso problema, derivante soprattutto dal desiderio di precisare una geografia ben poco definita come quella biblica. Si tratta in ogni caso di una questione complessa, affascinante, per molti aspetti anche sorprendente. A partire dal fatto che nessuno dei popoli dell’area usa il termine Ararat per indicare il massiccio vulcanico che oggi viene comunemente identificato con il monte sul quale discese l’Arca di Noé. Gli Armeni, infatti, lo chiamano Masis, i Curdi Ciyaye Agiri (monte Fiero), i Turchi Aéri Daéi (monte Penoso), gli Arabi Jabal al-Haret (monte dell’Aratore). Il nome persiano, invece, ricollega esplicitamente questo monte alla narrazione biblica: Kuh-i-Nuh,
vale a dire monte di Noé.

Inoltre, l’identificazione di questo monte con l’Ararat biblico risulta piuttosto recente. Anticamente, infatti, l’Ararat era collocato più a sud, nella regione montuosa nota come Corduene/Kordukh, situata all’interno dell’Armenia storica, ma collegata anche ai Curdi, che per millenni hanno abitato territori posti ai confini meridionali di quelli armeni. Così, nelle Antichità giudaiche Giuseppe Flavio ricorda che l’Arca sarebbe approdata sul «monte dei Kordyaioi», mentre le versioni siriache della Bibbia rendono il toponimo Ararat con Ture Kardu, vale a dire «monti del Kurdistan». In questa tradizione il luogo in cui si posò l’Arca era individuato nel monte Judi, una vetta di circa 2100 metri situata nel sud dell’odierna Turchia; tale localizzazione venne in seguito accolta anche nel Corano.

Questa collocazione meridionale dell’Ararat è presente anche nei primi testi armeni. La controversa opera storica del V secolo, tradizionalmente attribuita a Fausto di Bisanzio, narra che il vescovo siriaco Giacomo di Nisibi, vissuto circa un secolo prima, era stato «prescelto da Dio perche andasse dalla sua città sulle montagne dell’Armenia, sul monte Sararad, nel territorio della signoria dell’Ayrarat, nella provincia di Korduk… Costui, una volta giunto, mosso da un ardente e impetuoso desiderio, supplicava Dio di poter vedere l’arca della salvezza costruita da Noé, che si era fermata su quel monte dopo il diluvio».

Come è stato osservato, mentre il toponimo Ayrarat – evidentemente collegato a Urartu/Ararat – designa la regione centrale del regno d’Armenia, il monte Sararad al quale fa riferimento questo testo «coincide di fatto con il toponimo Ararad con cui la Bibbia armena, agli inizi del v secolo, rendeva il greco della Settanta». In quest’epoca, dunque, gli Armeni condividevano con i loro vicini la collocazione meridionale dell’Ararat biblico, ai confini della Mesopotamia, peraltro sempre all’interno del loro territorio storico. La tardiva identificazione da parte degli Armeni dell’Ararat biblico con il monte al quale viene oggi generalmente associato è evidenziata anche dal fatto che, come si è detto, essi lo chiamano tradizionalmente Masis.

Per la verità esistevano altri monti di questo nome nell’altopiano armeno: uno nei pressi del lago di Van, oggi noto come monte Sipan, un altro nel Tauro orientale. Anche l’eroe sumero Gilgamesh, nella sua ricerca dell’immortalità, raggiunse un monte chiamato in maniera assai simile, Mashu, collocato all’estremità settentrionale del mondo; il che, per un abitante della Mesopotamia, poteva ben significare l’altopiano armeno. Non vi è dubbio, tuttavia, che sia proprio il Masis più settentrionale, quello attualmente identificato con l’Ararat biblico, ad avere un posto centrale nella storia e nella cultura armena sin dall’antichità. In ogni caso, indipendentemente dall’identificazione con l’Ararat biblico, il Masis ha sempre avuto un significato particolarissimo nella coscienza degli Armeni, che lo chiamavano «Azatn Masis», cioè «libero» o «nobile».

Soprattutto la sua vetta più alta era ritenuta particolarmente sacra, perché considerata il luogo in cui il sole riposava nelle ore notturne e vivevano i khaj, esseri mitici protettori dei re armeni. Dal carattere sacrale di questa vetta nasceva anche il divieto di raggiungerla. Cosa che secondo la tradizione riportata da un altro controverso autore del V secolo, Agatangelo, avrebbe fatto solo il re Trdat (Tiridate), pochi anni dopo la conversione dell’Armenia al cristianesimo – avvenuta tradizionalmente nel 301 – e unicamente allo scopo di trarvi delle pietre da utilizzare per la costruzione delle chiese. Tra gli Armeni, dunque, il Masis godeva di un enorme – pur se per molti aspetti inquietante – prestigio ancor prima della sua identificazione con l’Ararat biblico, iniziata solo a partire dal XII secolo, dopo l’intenso contatto che gli Armeni ebbero con il mondo cristiano occidentale in seguito alle Crociate. I missionari cattolici ed altri viaggiatori che da allora attraversarono l’Armenia riportarono infatti in Europa la notizia che il monte dell’Arca si trovava all’interno di questo Paese.

E non nelle regioni meridionali, i cui monti non spiccano per particolare imponenza, ma nella vetta più alta del territorio armeno. A questo, tuttavia, gli Armeni aggiunsero anche un’attenzione particolare alla figura di Noé come primo viticoltore. Una volta identificato il Masis con l’Ararat, fu agevole affermare che «uscendo dall’Arca e discendendo dalla montagna, Noé piantò un giardino in quel luogo». In questo modo l’immagine dell’Ararat si fonde nella cultura armena con quella della vigna, del giardino. E, nonostante le tragiche vicende storiche subite da questa terra, presto iniziò a diffondersi anche l’identificazione dell’Armenia con il Giardino dell’Eden.

Ogni cristiano è chiamato a cambiare il mondo

Da l’Osservatore Romano 20-21 settembre 2010

“La fede e la vita inevitabilmente si incrociano”:  nel “realismo cristiano” di John Henry Newman c’è il senso della missione di ogni credente. Che “è chiamato a cambiare il mondo” e “a operare per una cultura della vita, una cultura forgiata dall’amore e dal rispetto per la dignità di ogni uomo”.
Il Papa conclude la visita nel Regno Unito beatificando a Birmingham il grande pensatore e teologo inglese. Del quale rilancia soprattutto la consapevolezza che la verità per rendere liberi ha bisogno appunto della testimonianza. “Non vi può essere separazione – ammonisce durante la veglia di preghiera presieduta sabato sera, 18 settembre, ad Hyde Park – tra ciò che crediamo e il modo con cui viviamo la nostra esistenza”. Solo quando la verità viene accolta non come mero “atto intellettuale” ma come “dinamica spirituale che penetra sino alle più intime fibre del nostro essere”, la fede cristiana può realmente “portare frutto nella trasformazione del nostro mondo”.
Compito, questo, affidato soprattutto ai laici che hanno un ruolo nell’educazione, nell’insegnamento, nella catechesi. Un laicato che Benedetto XVI – citando Newman all’omelia della messa di beatificazione celebrata domenica 19 – auspica “non arrogante, non precipitoso, non polemico”, ma “intelligente e ben istruito”. Per i cristiani, insomma, non è più tempo di “continuare a fare le cose di ogni giorno, ignorando la profonda crisi di fede che è sopraggiunta nella società”, ma di rimboccarsi le maniche per innestare i valori del Vangelo nella vita quotidiana.

Papa Benedetto e il Cardinale Newman

A Birmigan, domenica 19 settembre, a conclusione del suo viaggio nel Regno Unito, il Papa ha presieduto la messa per la beatificazione del cardinale britannico John Henry Newman.
Ho letto da più parti che ci sono forti affinità tra Papa Ratzinger e il Cardinale Newman.
Roderick Strange, rettore del Pontificio collegio Beda di Roma, istituto per la formazione delle vocazioni adulte di area inglese, da anni studioso di Newman, nel suo ultimo lavoro uscito da poco in Italia, “John Henry Newman. Una biografia spirituale” (Lindau), parla di un momento preciso nel quale si è reso evidente il debito di Ratzinger verso Newman.
E’ il 18 aprile del 2005. Ratzinger, il giorno prima del conclave che poi l’avrebbe eletto, predica davanti al collegio dei cardinali. Qui cattura l’attenzione di tutti utilizzando l’immagine della chiesa come una barca scossa dalle onde create da correnti ideologiche, “dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo a un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via”. Dice Strange: “All’epoca fu considerato estremamente pessimista, in particolare nella conclusione: ‘Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie’. L’espressione ‘dittatura del relativismo’ può sembrare severa, eppure si collega al ‘mondo semplicemente non religioso’ di Newman. E non necessariamente il legame è una coincidenza”.
Il relativismo è per Benedetto XVI una minaccia. Perché quando la verità viene abbandonata si abbandona anche la libertà. E si scivola verso il totalitarismo. Ratzinger ne parla il 18 aprile del 2005. Ma già anni prima aveva esposto il tema. Quando? Ancora nel 1990, durante la conferenza per il centenario della morte di Newman.

Dice Strange: “In quell’occasione Ratzinger fece riferimento al legame tra verità e coscienza personale. Parlò di quando, da giovane seminarista poco tempo dopo la fine della Seconda guerra mondiale, fu introdotto al pensiero di Newman e proseguì sottolineando quanto fosse stato importante per lui il suo insegnamento sulla coscienza. Newman insegnava che la coscienza doveva essere nutrita come ‘un modo di obbedienza alla verità oggettiva’. E l’intera vita di Newman testimonia tale convinzione. Le prime esperienze di vita del futuro Pontefice erano state tuttavia molto diverse. ‘Avevamo sperimentato – disse Ratzinger – la pretesa di un partito totalitario che si riteneva il compimento della storia e che negava la coscienza dell’individuo. Uno dei suoi leader (Hermann Goering) aveva detto: ‘Non ho coscienza. La mia coscienza è Adolf Hitler’. Ecco lo slittamento nel totalitarismo. Quando la verità viene trascurata, quando non vi è uno standard oggettivo a cui fare appello, non creiamo spazio per facile tolleranza. La libertà viene lasciata senza difesa, alla mercé di chi è al potere. Il giovane Ratzinger provò quanto Newman aveva predetto: le conseguenze di quando la religione rivelata non viene riconosciuta come vera, oggettiva, ma viene considerata qualcosa di privato da cui la gente possa scegliere per sé qualsiasi cosa voglia”.
Newman venne creato cardinale nel 1879 da Leone XIII. Anch’egli stimava Newman, “il mio cardinale” lo chiamava. L’Osservatore Romano il 14 maggio, la vigilia del concistoro, pubblicò in prima pagina il discorso pronunciato da Newman dopo la consegna del Biglietto di nomina. Newman andò al cuore del problema che sentiva essere capitale. Disse: “Il liberalismo religioso è la dottrina secondo la quale non esiste nessuna verità positiva in campo religioso, ma che qualsiasi credo è buono come qualunque altro; e questa è la dottrina che, di giorno in giorno, acquista consistenza e vigore. Questa posizione è incompatibile con ogni riconoscimento di una religione come vera”. Scrive Inos Biffi sull’Osservatore del 20 maggio 2009: “E’ difficile non riconoscere la rovinosa attualità di questo liberalismo religioso, che preoccupava Newman nel 1879”. E preoccupa oggi Ratzinger.
FONTE: Paolo Rodari, pubblicato sul Foglio mercoledì 28 luglio 2010

L’esclusione di Dio

“Mentre riflettiamo sui moniti dell’estremismo ateo del ventesimo secolo, non possiamo mai dimenticare come l’esclusione di Dio, della religione e della virtù dalla vita pubblica conduce ad una visione monca dell’uomo e della società, e pertanto a una visione riduttiva della persona e del suo destino”.
Benedetto XVI durante il suo viaggio in Scozia (16-19 settembre 2010)

L’augurio dell’Arcivescovo per il nuovo anno scolastico

Ormai sono stata in tutte le classi e ho conosciuto tutti i miei nuovi alunni.
A questo punto mi fa molto piacere condividere con tutti voi, sia nuovi che “vecchi”, le parole dell’Arcivescovo della nostra Diocesi, Mons. Francesco Giovanni Brugnaro.
C’è un pensiero per tutti. In primo luogo per voi ragazzi, perchè i protagonisti siete soprattutto voi, ma anche per gli insegnanti, i genitori, e tutti gli adulti, perchè l’educazione è una cosa seria.

Inizia la scuola. Carissimi scolari, studenti, maestri e professori, genitori, dirigenti e personale della scuola tutta, mi fa piacere mandare a tutti l’augurio di un buon inizio d’anno 2010/2011.Comprendo i ragazzi che magari sono anche contenti di riprendere con i compagni la vita della scuola, ma so di tanti che vorrebbero che le vacanze non finiscano mai! Questo succede perché l’impegno di andare a scuola non è sempre facile, ed è successo a molti.
Invito, però, gli uni e gli altri, tutti a stimare gli studi e quanto si vive durante l’anno scolastico e nell’ambiente così importante per l’istruzione, la formazione e l’educazione dei nostri giovani.Stiamo accanto ai piccoli che per la prima volta entrano nelle aule delle nostre scuole, aiutiamoli a mantenere lo stupore del conoscere cose nuove. Alimentiamo nei più grandicelli il bisogno di porre domande e di elaborare risposte di verità e di senso, imparando a stare insieme in amicizia e con rispetto per tutti. Impegniamo gli studenti delle scuole superiori non solo nel conoscere e studiare le discipline proprie di ogni curricolo, ma coinvolgiamoli nella maturazione e formazione della loro persona.
Raccomando di non far mancare a nessuno l’educazione a una sensibilità genuinamente religiosa che, rispettosa delle nostre tradizioni culturali, fatte di segni e di festività, è capace di aprirsi e di comprendere fedi di etnie e spiritualità diverse. Secondo le opzioni dei genitori e la cultura del nostro Paese è doveroso che i nostri ragazzi non vengano esclusi dalla ricerca del grande senso della vita. Essa trova in Dio il fondamento ultimo della verità e del bene, che fa della persona il valore più importante della storia umana e del suo progresso, che vede nella scienza e nella tecnologia strumenti utilissimi dell’intelligenza che debbono giovare alla crescita etica e spirituale dell’umanità intera.
Genitori, insegnanti – segnatamente anche quelli di religione cattolica -, agenzie sportive, oratori, comunità parrocchiali, attività del tempo libero, tutto e tutti debbono collaborare insieme per rispondere alla sfida ed urgenza educativa che anche il nostro territorio sta vivendo. Occupiamoci tutti e costantemente della buona educazione dei nostri giovani. Guai a trascurare i nostri doveri verso di loro! Dovremo rendere conto a Dio e potremo vedere tristemente vite sprecate e una società non degna della vita che speriamo. Per questo, accanto alla dimensione culturale, sociale, ricreativa specifica della scuola preoccupiamoci della formazione morale della coscienza dei ragazzi e abbiamo il coraggio di presentare la fede cristiana della tradizione cattolica come beni essenziali per il presente e il futuro del nostro Paese.
Questa grande solidarietà educativa attorno ai nostri scolari e ai nostri studenti ci aiuterà anche a far superare le difficoltà che la scuola sta vivendo. Il Signore Risorto e l’intercessione della Vergine Santissima che sta peregrinando per le nostre contrade delle Marche ci diano forza, coraggio, fedeltà e pace per non venir meno nel servire la vita nei nostri figli.
Con affetto,+Francesco Giovanni,arcivescovo
(Dal Sito: http://www.arcidiocesicamerino.it/)

La droga è la calamità più grossa

“La droga è la calamità più grossa”.

Queste sono le parole di Andrea Muccioli, figlio di Vincenzo Muccioli, il fondatore della comunità di San Patrignano, di cui in questi giorni sono stati ricordati i 15 anni dalla morte.
Vi riporto alcuni passi dell’intervista di Massimo Pandolfi che ho letto su “Il Resto del Carlino” di lunedì 20 settembre.

(…)
“La droga è la calamità più grossa di tutte le nostre calamità. Ma intendiamoci bene sul significato della parola droga: anche il balconing, la moda di quest’estate per cui i ragazzi si gettano dalla finestra e magari ci lasciano le penne, è una droga. Non siamo più capaci di avere e gustarci relazioni e sentimenti veri e allora ci droghiamo. L’uomo muore dentro di noi e viviamo emozioni in maniera sempre più frenetica e adrenalinica’. (…)

Qual è la droga più pericolosa di oggi?

‘Cannabis e marijuana, perché sono ritenute innocue e tollerabili anche da troppi insegnanti ed educatori. Poi la cocaina, che va tanto di moda. Non dimentichiamoci l’alcol. E sta ritornando in grande stile l’eroina. Ma il vero problema non è la sostanza’.

E cos’è allora?

‘E’ il vuoto che c’è dentro le persone che fanno uso di questa sostanza’.
(…)
‘Il tossicodipendente non è un malato. Noi dobbiamo aiutare queste persone a cambiare. Crescere vuol dire cambiare. Cambiare vuol dire anche soffrire. I giovani vanno educati al cambiamento’.

Ci mette sempre in mezzo la parola educazione….

‘Sì, perché è questa la vera emergenza. Le famiglie sono sempre più spesso luoghi vuoti, dove non c’è rapporto, non c’è comunicazione, non c’è nulla. (…)

Il quadro che ci presenta è drammatico: cosa si può fare per uscire dal tunnel? .

‘Il mondo dell’educazione va completamente ripensato e costruito. Va rifondata un’alleanza educativa tra istituzioni, scuola e famiglia. Altre scorciatoie sono inutili’.

E allora, ragazzi, facciamo nostro questo slogan:

Diamo senso alla vita!

Spesso mi capita di sentire una sorta di disagio di fronte alla vita cosiddetta moderna, tanto da desiderare di vivere al rallentatore, per poter assaporare meglio il giorno che sto vivendo. Vi siete mai persi nel contemplare il verde delle foglie di un albero? oppure quello spicchio di cielo che si insinua tra i tetti delle case? Il più delle volte si corre, senza incrociare mai lo sguardo dell’altro. Stiamo perdendo la nostra umanità e stiamo assomigliando sempre più a macchine, senza emozioni, sentimenti, passione per la vita vera. Eppure siamo portatori di una nostalgia di senso.
Tanto per ragionarci un po’ su, leggete cosa dice il Dalai Lama su di noi, uomini e donne della società occidentale che sembra promettere libertà, felicità e successo per tutti.

Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’occidente è che:
perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per tentare di recuperare la salute.
Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente
in tale maniera che non riescono a vivere né il presente né il futuro.
Vivono come se non dovessero morire mai
e muoiono come se non avessero mai vissuto
”.

Creare materiale didattico

Parlerò di LIM, ma non mi riferisco alla lavagna interattiva, bensì ad un sistema che permette di creare materiale educativo. Una volta che avete scaricato il programma (che non ha bisogno di installazione) cliccando qui, andate a dare un’occhiata a questo minitutorial (cliccate qui).E’ in spagnolo, ma è facile da comprendere.
Non mi resta che augurarvi buon lavoro!