Continuare a fare il bene. Senza distrazioni.

Un giorno, un saggio viandante attraversò il regno e si fermò sotto un albero. Gli animali della foresta, curiosi, si avvicinarono per ascoltare le sue storie. 
«C’era una volta, in un regno lontano tra le alte montagne, un’aquila fiera e solitaria che dominava i cieli con la sua eleganza inconfondibile. Volava sopra le vette innevate, osservando il mondo dall’alto con occhi penetranti e saggi. Tutti gli animali della foresta la rispettavano e ammiravano la sua maestosità. Nello stesso regno c’era anche un corvo, impertinente e audace, con una buona dose di superbia, invidioso della regalità dell’aquila. Un bel giorno decise di sfidare sua maestà. 
Il corvo, con la sua arroganza, si posò sulla schiena dell’aquila e cominciò a beccarle il collo, convinto di poterla infastidire e distrarre. Gli altri animali, spettatori increduli, trattennero il fiato, immaginando che da lì a poco il corvo sarebbe stato ridotto a brandelli dal rapace. Ma l’aquila, con calma olimpica, non reagì, non sprecò nemmeno un battito d’ali per scacciare il piccolo volatile. 
Era come se sapesse, nel suo silenzio dignitoso, che c’era un modo migliore per risolvere la situazione. Con una serenità inaspettata l’aquila iniziò a salire verso l’alto. Il vento divenne più freddo e rarefatto, ma lei continuava a volare con le sue ali possenti che fendono l’aria. Il corvo, testardo e presuntuoso, non smetteva di beccare. A ogni metro guadagnato dall’aquila, l’aria si faceva più sottile e il corvo cominciava a sentirsi affaticato. I suoi colpi di becco si fecero più deboli, il suo respiro più affannoso. 
E l’aquila, imperturbabile, saliva ancora, sempre più in alto, verso il cielo limpido e infinito. Alla fine, il corvo non ce la fece più. Sfinito e senza fiato, si staccò dall’aquila e precipitò verso il basso. L’aquila non si voltò, non spese nemmeno un pensiero per il suo aggressore caduto. Continuò a volare verso le vette, libera e regale come se nulla fosse accaduto». 
Gli animali della foresta rimasero spaesati e sorpresi dalla storia raccontata dall’uomo. 
Un giovane scoiattolo, con gli occhi pieni di dubbi, si fece avanti e chiese: 
«Saggio viandante, come possiamo continuare a fare il bene e perseverare quando il mondo è così pieno di ingiustizie? Come possiamo non essere scoraggiati quando sembra che i nostri sforzi non facciano alcuna differenza?». 
« Non importa quanto gli altri siano irragionevoli, egoisti e insensati – rispose con voce ferma e calda il viandante –, voi dovete comunque continuare a fare il bene. Non importa quanto le vostre azioni possano essere fraintese o sottovalutate; voi dovete perseverare. Non lasciate che le piccole distrazioni vi portino via energia. Non combattete battaglie che non valgono il vostro tempo. 
Invece, come l’aquila, puntate sempre più in alto. Lasciate che siano i corvi a cadere per la loro stessa presunzione, mentre voi continuate a crescere, a volare, a vivere la vita al massimo delle vostre potenzialità». 

TRATTO da All’istinto del bene serve perseveranza Senza distrazioni di Marco Voleri in Avvenire del 30/05/2024

Una questione di mani per essere u-mani

Come si fa a non fuggire dal dolore, che sia il proprio o quello delle persone che ami?
Prendo spunto dal Blog di Alessandro D’Avenia e dalla sua riflessione sul quadro Compianto sul Cristo morto di Bellini.


«Nel ritaglio sacro del quadro si scorge un morto (Cristo), il cui corpo esangue è sorretto da un uomo (Giuseppe d’Arimatea), mentre una donna (Maria Maddalena) gli unge le mani rattrappite da colpi di chiodi, con l’olio che un altro uomo (Nicodemo) accigliato tiene in un vasetto. Mi vedo in quest’ultimo, fronte aggrottata dinanzi alla morte, pensieri come rughe, in cerca di risposte davanti a un muro: l’uomo della Vita è morto. Cadavere. Con sapienza compositiva l’artista mette al centro del quadro le mani dei protagonisti, ma soprattutto quelle della donna che accarezzano con l’olio la sinistra del morto che perde rigidezza, al contrario della destra ancora contratta. In quelle mani c’è la farmacopea alla mia incapacità: al fuggire o soccombere aggiungono un’altra via. 


Contemplavo il quadro guidato dalle parole della direttrice del museo Nadia Righi che spiegava come Bellini avesse rappresentato l’esperienza di tutti di fronte al dolore: il quadro dà forma a tutte le ferite vive e nascoste in noi, certifica l’impossibilità di trovare risposte astratte, la sconfitta dell’intelligenza e l’inadeguatezza delle parole. Tutti tacciono dentro e fuori dal quadro, sospesi, parlano le mani: la risposta è solo la cura, cioè rimanere, sostare. E io so stare? Fuggo o soccombo perché non ho risposte. E invece potrei restare proprio perché non le ho. Sono le mani a rispondere. Manutenzione, cioè “tenere nelle mani”, così diciamo per riferirci alla cura delle cose: della macchina, di un impianto, di un edificio. Ma le persone? “Teniamo per mano” quelle che amiamo e ci commuove chi ancora lo fa per strada, ma come si fa a “manu-tenerle”, a “man-tenerle”, quando il dolore o la morte li prendono. Stando. Sostando. So stare? […]».

Effettivamente il dolore non ci chiede tanto di trovarne la ragione (che non c’è), ma ci interpella: che vuoi fare? Ti lasci schiacciare o puoi cercare, invece, di lasciare che ti trasformi?

Continua d’Avenia:
«Noi non ci prendiamo cura delle persone perché le amiamo, ma impariamo ad amarle perché ci prendiamo cura di loro: curare è una scelta che ci trasforma, ci fa uscire da noi stessi, che è l’unica maniera di non fuggire o di non soccombere alla vera morte in vita, la chiusura in se stessi. Io fuggo o soccombo se penso solo a me stesso, invece se sosto, se so stare, mi salvo. 
L’amore, alla fine, è la quantità di vita di cui decidiamo di farci carico, che solo così si trasforma, anche quando è vita ferita. 
[…] Le mani fanno la cura, manutenzione. Non cercano risposte, sono la risposta. […] Eppure ormai lo sappiamo che ci vuole un abbraccio di almeno 30 secondi per permettere al corpo di produrre ossitocina, l’ormone che cura il dolore. E ciò accade sia in chi dà e in chi riceve: non si sa più chi abbraccia chi. Si è abbracciati dalla Cura. Ecco la terza via, quella che immette vita nella vita. Chi siamo noi che – è solo un gioco di suoni – nella nostra lingua abbiamo le mani nel nome: umani? E quanto – gioco ancora – possiamo diventare senza mani: disumani?» 

Da Ultimo banco, Corriere della Sera, 8 aprile 2024






NESSUNO SI SALVA DA SOLO

Venerdì 20 marzo del 2020, in una piazza San Pietro incredibilmente vuota, papa Francesco pregava Dio perché ci aiutasse contro la pandemia. In quell’occasione, richiamando l’immagine degli apostoli nella tempesta, ci ricordava che non potevano andare ciascuno per conto proprio, ma che solo insieme potevano farcela, perché “Nessuno si salva da solo”. 
Non so che ne pensiate voi, ma a me sembra che invece di aprirci agli altri ci siamo chiusi in noi stessi, o meglio, il post covid ci ha reso affamati di vita e di relazioni che tendiamo a vivere, però, nella frenesia e nella superficialità. Fondamentalmente, pur cercando di stare con gli altri, siamo concentrati solo su noi stessi e sull’appagamento dei nostri bisogni. Ho l’impressione (condivisa con molti colleghi) che sempre di più siano gli alunni che fanno tanta difficoltà a comprendere gli stati d’animo degli altri, a regolare i propri comportamenti a seconda del contesto e dei momenti, a sostenere il confronto con un no o con un’opinione che contrasta con la propria, o anche a chiedere aiuto senza dover immancabilmente accusare gli altri del proprio malessere. 
Vogliamo parlare anche dei genitori? La fragilità dei figli è sempre colpa della Scuola, con la quale non è possibile collaborare, ma alla quale invece si rivolge la pretesa che non crei problemi e si adegui agli orari, agli svaghi e agli impegni familiari. Ma questo è un altro discorso😉. 
Con gli studenti di prima media ho creato una caccia al tesoro sulla Bibbia (che ho inserita in un post precedente) che, tra i vari giochi e proposte di attività ne conteneva una che portava proprio alla costruzione della frase “Nessuno si salva da solo”. Ma cosa c’entra questa frase con la Bibbia? 
Gregorio Magno definì la Bibbia come una lettera d’amore che Dio ha scritto a noi esseri umani per aiutarci a comprendere il senso di noi stessi, della vita, della ricerca di felicità. La Bibbia non è tanto un libro che racconta la storia di Dio, ma casomai la storia di un Dio che le fa tutte (perdonate l’espressione) per entrare in relazione con noi, perché, come dice la Dei Verbum, Egli vuole renderci partecipi della sua vita divina. La Bibbia allora ci presenta la storia umana come manifestazione della volontà salvifica di Dio, che ci coinvolge tutti e tutti siamo chiamati, così come Dio si prende cura di noi, a prenderci cura gli uni degli altri. 
Gesù ci ha insegnato come l’amore verso Dio non è autentico se non è unito all’amore per gli altri e che nel giorno del Giudizio verremo chiamati a rendere conto della cura che avremo avuto verso i più bisognosi. Nessuno si salva da solo perché non ci auto-salviamo ma abbiamo bisogno di rimanere nella relazione con Dio, ma anche perché siamo chiamati a “incarnare” questa relazione nell’amore verso il prossimo. 
Attraverso la Bibbia Dio ci dice il suo amore e ci invita a vedere il mondo con i suoi occhi, che sanno andare oltre l’apparenza e sanno cogliere quanto di vero e buono ci può essere in ognuno di noi. Soltanto con quello sguardo possiamo accostarci agli altri, vedendo in ciascuno la possibilità che ci viene offerta per contribuire alla costruzione di un mondo più umano. 
Quando ci crediamo onnipotenti tradiamo la nostra umanità, diventiamo nemici gli uni gli altri, facciamo del Mondo un Inferno 😔.



Quando tutto crolla

Ho seguito con commozione il monologo di Allevi all’Ariston di Sanremo. In questo momento sono molto sensibile a certi argomenti 😄. La fragilità, che Allevi non ha avuto alcuna remora a nascondere, diventa la vera forza dell’essere umano, quando non si chiude in se stesso ma si apre al Tutto. Bellissime parole, le sue, che vi consegno integralmente. 
 “All’improvviso mi è crollato tutto. Non suono più il pianoforte davanti ad un pubblico da quasi due anni. Nel mio ultimo concerto, alla Konzerthaus di Vienna, il dolore alla schiena era talmente forte che sull’applauso finale non riuscivo ad alzarmi dallo sgabello. E non sapevo ancora di essere malato. Poi è arrivata la diagnosi, pesantissima. Ho guardato il soffitto con la sensazione di avere la febbre a 39 per un anno consecutivo.Ho perso molto, il mio lavoro, ho perso i miei capelli, le mie certezze, ma non la speranza e la voglia di immaginare. Era come se la malattia mi porgesse, assieme al dolore, degli inaspettati doni. Quali? Vi faccio un esempio.… Non molto tempo fa, prima che accadesse tutto questo, durante un concerto in un teatro pieno, ho notato una poltrona vuota. Come una poltrona vuota?! Mi sono sentito mancare! Eppure, quando ero agli inizi, per molto tempo ho fatto concerti davanti ad un pubblico di quindici, venti persone ed ero felicissimo! Oggi….dopo la malattia, non so cosa darei per suonare davanti a quindici persone. I numeri…non contano! Sembra paradossale detto da qui. Perché ogni individuo, ognuno di noi, ognuno di voi, è unico, irripetibile e a suo modo infinito. Un altro dono! La gratitudine nei confronti della bellezza del Creato. Non si contano le albe e i tramonti che ho ammirato da quelle stanze d’ospedale. Un altro dono. La riconoscenza per il talento dei medici, degli infermieri, di tutto il personale ospedaliero. Per la ricerca scientifica, senza la quale non sarei qui a parlarvi. La riconoscenza per l’affetto, la forza, l’esempio che ricevo dagli altri pazienti, i guerrieri, così li chiamo. E lo sono anche i loro familiari, e lo sono anche i genitori dei piccoli guerrieri. Quando tutto crolla e resta in piedi solo l’essenziale, il giudizio che riceviamo dall’esterno non conta più. Io sono quel che sono, noi siamo quel che siamo. E come intuisce Kant alla fine della Critica della Ragion Pratica, il cielo stellato può continuare a volteggiare nelle sue orbite perfette, io posso essere immerso in una condizione di continuo mutamento, eppure sento che in me c’è qualcosa che permane! Ed è ragionevole pensare che permarrà in eterno. Io sono quel che sono. Voglio andare fino in fondo con questo pensiero. Se le cose stanno davvero così, cosa mai sarà un giudizio dall’esterno? Voglio accettare il nuovo Giovanni. Come dissi in quell’ultimo concerto a Vienna, non potendo più contare sul mio corpo, suonerò con tutta l’anima. Il brano si intitola Tomorrow, perché domani, per tutti noi, ci sia sempre ad attenderci un giorno più bello!”



Rimanere umili 😉

Qualche giorno fa si parlava a scuola proprio di questo: l’umiltà di chi è consapevole dei propri limiti e di chi cerca sempre di migliorarsi. Se ne parlava rispetto alla scuola, che dovrebbe essere bella proprio per questo: mi dà modo di conoscere nuove cose, di sperimentarmi nel confronto con gli altri e con i miei punti di forza e di debolezza. 
Leggendo il mio solito quotidiano (Avvenire del 26/10/2023) mi imbatto in un articolo di MARCO VOLERI, che vi riporto, perché aggiunge altro a quanto ci siamo detti. So di non sapere e per questo resto disponibile ad aggiungere ulteriori tasselli al mio bagaglio culturale e umano.

Ammiro molto l’incoscienza di chi crede di sapere tutto o quasi. 
Avete presente il classico tipo col sorriso smagliante e la verità nel taschino della giacca blu? Quando mi trovo davanti a personaggi che credono di sapere tutto, e di saperne più di te, mi chiedo sempre: “ma questo ci è o ci fa?”. 
Scomodiamo Socrate e il suo famoso detto «so di non sapere», a lui attribuito attraverso Platone. Il filosofo racconta che la vera saggezza inizia con la consapevolezza della propria ignoranza. L’ignoranza qui non è da considerarsi come mancanza di conoscenza ma come il riconoscimento sincero delle nostre limitazioni nell’acquisizione di conoscenza assoluta. È il riconoscimento che il sapere umano è limitato, sempre in evoluzione, e che non possiamo mai pretendere di avere tutte le risposte. 
Questa presa di coscienza può essere vista come umiltà intellettuale, virtù che ci spinge a porci domande, a cercare, a esplorare le diverse prospettive. 
Credo però che il «so di non sapere» sia anche una chiamata all’empatia e alla comprensione. 
Quando riconosciamo la nostra ignoranza diventiamo più aperti alla possibilità di metterci nei panni degli altri. Socrate credeva che solo attraverso il dialogo e l’ascolto attento fosse possibile sperare di comprendere gli altri e noi stessi. 
Questo atto di mettersi nei panni degli altri non è solo un mezzo per apprendere dalle esperienze altrui ma anche per sviluppare una maggiore comprensione e compassione. Non so voi, ma per me il desiderio di conoscenza, che scaturisce dalla consapevolezza della mia ignoranza, è un motore pieno di cavalli per l’anima. 
Sto studiando un’opera che credevo di conoscere già bene: quante cose non avevo notato prima, nonostante avessi approfondito la partitura in tante occasioni. 
In un mondo spesso dominato da certezze inflessibili, «so di non sapere» ci invita a essere modesti nella nostra ricerca di conoscenza e ad abbracciare l’incertezza come una parte essenziale della vita.

Riprendiamo la scuola. Con grazia.

Il titolo non è sbagliato. Grazia non è una persona, quindi il minuscolo ci sta. Anche se, vista la sua importanza, questa parola richiederebbe la maiuscola. Di cosa parlo? Come è capitato altre volte, attingo da un professore e scrittore che mi offre sempre spunti di riflessione.

 

La «ripresa» è ben diversa dalla «ripetizione»
: riprendere è continuare a compiere e non reiterare. 
Il ripetere fa scivolare nelle sabbie mobili dell’inerzia, quando si va avanti con la sola energia che resta quando la creatività si esaurisce: il dovere, una prigione da cui si cerca poi di evadere in modi più o meno estrosi e disastrosi. Un lavoro, un matrimonio, uno sport… vissuti solo per dovere soffocano. E dove non c’è più creazione di novità ma solo ripetizione, non c’è gioia. Diverso è «riprendere»: si riprende un film che amiamo anche se lo abbiamo già visto, si riprende un tramonto anche se avevamo ammirato quello del giorno prima, si riprende un’amicizia quando si continua il discorso da dove lo si era lasciato settimane prima… Ciò che si riprende non si ripete, è vivo, ciò che si ripete non si riprende, è morto. E infatti «ripetente» è sinonimo di bocciato e «mi sono ripreso» di salute: facciamo una «ripresa» quando vogliamo immortalare qualcosa da non perdere. Ma che cosa ci fa essere grati per ciò che ritorna senza che sia «ripetuto» ma «ripreso»? 
Gratitudine, grazioso, grazia, gratis vengono tutti da un’antica radice che indicava ciò che dà gioia, qualcosa che riceviamo senza essercelo aspettato, e per questo interpretato come dono divino. 
La grazia è questo: un dono elargito senza averlo chiesto o meritato, ma che inaugura in noi un modo di essere più vero, compiuto, luminoso. Una luce che non proviene solo da situazioni positive. 
Il dono a volte può costar caro, eppure ci rende più autentici, compiuti, belli. La grazia non è un cosmetico che nasconde le rughe, ma le fa vedere piene di luce. La grazia è la chiamata a una bellezza compiuta, che riscatta anche le ferite. Non dobbiamo confondere la grazia, il dono inatteso, con qualcosa di banalmente piacevole: è grazia ciò che ci fa avanzare, in modo inaspettato, nel cammino irripetibile che solo noi possiamo fare, anche se si tratta di soffrire
Nel recente film Barbie, la donna di plastica, perfetta e senza difetti, è terrorizzata dal cambiamento: non conosce la grazia dell’essere umani, del crescere, del compiersi. In sostanza teme di soffrire, e invece c’è grazia anche nel dolore, non per il dolore in sé, ma perché, a usarlo bene, contiene il passaggio (inteso sia come apertura, sia come aiuto per far strada più rapidamente) a una forma di vita più piena e bella. L’aragosta quando deve crescere si nasconde, si spoglia della scorza rigida, rimane in carne viva fino a che non si forma una nuova corazza. È un momento di paura, nudità, dolore, ma necessario alla sua vitalità. Per riconoscere una grazia bisogna chiedersi se ci porta a diventare più veri, belli e compiuti. 
Dovremmo imparare a tenere gli occhi sempre ben aperti per saper ricevere le nostre grazie quotidiane, come afferma senza mezzi termini Cormac McCarthy nel suo ultimo romanzo, Il passeggero: «Nasciamo tutti dotati della facoltà di vedere il miracoloso. Non vederlo è una scelta»

Liberamente adattato da Ultimo banco, rubrica di Alessandro D’Avenia in Corriere della Sera, 11 settembre 2023 (vedi testo completo cliccando qui)

Prima che il nuovo anno arrivasse: lettera ad una nipotina (e non solo)

Di Elisa Manna in Avvenire del 1 dicembre 2022 

Finalmente stai arrivando. Ed è una cosa “cosmica”: un momento che ha a che fare più con l’imponenza distante delle galassie che con i piccoli affanni e gioie quotidiane. Uno squarcio su un’altra dimensione così misteriosa, possente e altra da noi, eppure così vicina che possiamo sfiorarla. Un momento in cui sentirsi apparentati alle stelle. 
Tra poco una Forza vitale sconosciuta comincerà a dirigere gli eventi come un direttore d’orchestra e in poco tempo sarai stordita dalla luce e dai suoni , voci rivolte a te che ti accolgono, stanche e felici. Carissima Vittoria ti scrivo ora, perché poi i miei pensieri saranno certamente diversi e meno lucidi. Sei stata davvero una grande viaggiatrice e hai saputo percorrere tutte le tue tappe con tranquillità. Ma chissà se all’arrivo ci sono state solo stanchezza e fatica o anche qualcos’altro, magari la nostalgia della piccola casa accogliente che conoscevi… 
Sai, il mondo che ti aspetta qui non è come te, tutta nuova: è un mondo vecchio che ha fatto già tanti sbagli. Si è ammalato, ormai ha la febbre e chissà se riusciranno a fargliela scendere. Era un paradiso terrestre, c’erano acque fresche e limpide e immensi ghiacciai ne custodivano il segreto vitale, candidi e purissimi. Il terreno era generoso e produceva delizie dal sapore oggi dimenticato, quando respiravi sentivi che la vita ti entrava nei polmoni, ogni giorno affrontavi il tuo percorso con animo forte e sereno, rassicurato da molte certezze. Le estati erano una festa per il cuore e per il corpo, un sole splendente che accarezzava la pelle e la confortava, donandole un caldo colore ambrato, mentre una lieve brezza la rinfrescava. 
È vero, questa manna sparsa a piene mani non era per tutti ed esistevano tanti sfortunati anche in passato: ma il divario tra quelli che stanno bene e quelli che vivono negli stenti non era così ingiusto, odioso come adesso in cui imperatori del denaro non riescono più a immaginare come soddisfare nuovi capricci (un volo nello spazio per regalo di compleanno?) mentre folle immense di diseredati cercano di scampare alla fiamma di un sole diventato nemico nella loro terra, alla siccità senza scampo, alla fame, alle guerre. 
Il Signore ci ha donato tutto per puro amore senza volere niente in cambio, e noi siamo stati capaci di rovinare quasi tutto e quasi irrimediabilmente. Sai, siamo stati perfino capaci di inventarci divinità che vogliono che ci armiamo e ci uccidiamo l’uno con l’altro come se l’unico Dio che ha senso per noi non fosse l’Amore Assoluto. Ma non ti voglio rattristare con questi discorsi sul passato, io che sono la mamma della tua mamma, e debbo e voglio più di altri infonderti coraggio.
La vita che ti attende potrà essere veramente meravigliosa, malgrado la realtà concretissima dei problemi di cui ti ho parlato. Questo non è un pianeta sbagliato per venire al mondo, anzi; qui stiamo facendo anche progressi scientifici e tecnologici incredibili, e se non perderemo definitivamente la testa, ci aiuteranno a curare malattie, allungare la vita, contrastare la fame, assicurare giustizia sociale, rendere obsolete e inutili le guerre. 
E poi, qui ti aspettano tua mamma e tuo papà, una culla d’amore, e tanti (i nonni, gli amici) che vogliono proteggerti e accompagnare, sorridendoti, il tuo cammino: un mondo che somiglia a quel paradiso terrestre di cui ti parlavo prima. Solo, più piccolo. Questo immenso vantaggio che la vita ti darà forse basterà a sé stesso. O forse, in virtù di quella “misteriosa e divina logica di restituzione” che a volte abita il cuore degli uomini, ti spingerà a guardarti attorno. Ed è di questo, in effetti, che ti volevo parlare dall’inizio.
Ti auguro di essere felice per tutta la vita, certo. Ma ti auguro anche altro: per esempio di essere una persona compassionevole. Noi umani “brilliamo” solo se interagiamo con gli altri, da soli siamo un piccolo faro spento. E poi ti auguro di essere una persona mai chiusa nei confini limitati del proprio io, ma aperta a “sentire” e ad accogliere gli altri. 
Ti auguro di essere vera, sincera sempre, almeno con te stessa. Conoscere sé stessi è il grande segreto di un animo pacificato. Sii libera, rispetta te stessa e tutti, la tua dignità non ha prezzo. Non inseguire l’eccitazione della gioia a tutti i costi; a volte abbiamo bisogno anche di avversità per crescere… 
Ti auguro di amare l’ossigeno di alta montagna, lo iodio frizzante del mare: fa che i tuoi pensieri siano attraversati dal vento che fa gonfiare le distese di grano dorato. 
Accendi i tuoi talenti, “alza le vele” come esortava il tuo bisnonno Gennaro che del faro del cristianesimo ha fatto la costante ispirazione per i suoi romanzi; fa che i tuoi talenti risplendano e sappiano trovare nuove soluzioni e mai solo per te stessa. Troverai le tue strade, Vittoria Luce. Lasciati guidare dal nome che tua madre ha voluto darti, non accontentarti. 
E tutti voi, nuovi nati che arrivate, non lasciatevi intimorire dalla complessità di quest’epoca nuova, crescete sereni, poi “prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro”, come diceva Giovanni Paolo II. Almeno, provateci. Sappiate che la vita sarà fantastica se in tanti saprete sfuggire alla trappola dell’egoismo e costruirete insieme un dialogo vivo e intenso, generativo di una nuova civiltà in cui ognuno abbia cibo, dignità e rispetto. 
E, soprattutto, siate contadini e coltivate la speranza.

ASCOLTARE LA VOCE SAPIENS

Una bella riflessione di D’Avenia sull’essere Homo. Tanti, tanti spunti per il lavoro in classe.

Il genere Homo è apparso più di due milioni di anni fa in Africa e si è diffuso sul globo differenziandosi in specie. Il Sapiens è comparso in Africa non più di 300mila anni fa ed è poi migrato (tra i 100 e i 65mila anni fa) unendosi e scontrandosi con specie stanziate altrove, come il Neanderthal, in Eurasia, e il Denisova, in Asia sud orientale. Ma che cosa ha permesso alla scienza di dire: qui compare un essere che possiamo chiamare Uomo? La novità sta nel fatto che questo essere «sa» di essere: ha coscienza di sé e del mondo, come testimonia uno dei più antichi reperti, in una grotta argentina, una parete con delle mani dipinte, come dire: «Eccomi qui, sono io». E chi sei, tu? 
La novità uomo, rispetto agli altri primati, è segnalata da alcuni fattori: tecnica, sepolture, accoppiamento frontale, linguaggio simbolico (arte). L’uomo è uomo perché ha e fa cultura, cioè tutto ciò che crea per umanizzare la vita, perché, a differenza dell’animale che ha già tutto scritto nel suo istinto, l’uomo diventa uomo. 
Come? Risolve problemi con la tecnica non essendo dotato, come gli animali, di artigli, zanne, pelo… ma di ingegno; è capace di trascendenza (seppellisce i simili); si accoppia guardandosi negli occhi; si relaziona con le cose in modo non solo utilitaristico (non si limita a mangiare gli animali, ma li dipinge). Questo per quanto attiene al genere Uomo. 
Ma perché, tra le specie di Uomo, il Sapiens è l’unica sopravvissuta? Se il Neanderthal era più forte, organizzato e abile, perché si è estinto? Molti studiosi rispondono dicendo che era timoroso e sedentario: non migrava e non osava attraversare il mare. Invece il Sapiens è andato ovunque: nel giro di qualche migliaio di anni dall’Africa lo troviamo in Australia! Era audace, se non folle. 
Il Sapiens è sopravvissuto perché, di fronte all’ignoto, rischiava, un motivo contrario al buon senso: non si metteva al sicuro ma a rischio. 

Ci ha salvato l’inquietudine
: siamo e diventiamo vivi per inquietudine e non per abitudine. Non ci accontentiamo ma cerchiamo, esploriamo, scopriamo. Siamo un motore di ricerca, il desiderio, che non ha pace, ma la cerca. Se questo motore si spegne, ci estinguiamo, che vuol dire «ci spegniamo», perdiamo il fuoco della vita. 
Evolutivamente ci ha salvato un inquieto vivere e non un quieto sopravvivere, allora come oggi. Quando intuii, a 17 anni, che volevo fare l’insegnante, molti mi dicevano: «Non rischiare, c’è già lo studio dentistico paterno, sii realista o sarai un morto di fame…». Per fortuna non ascoltai le voci Neanderthal, e mi fidai della voce Sapiens, lo spirito creativo dentro di me, che mi diceva: «Sarai vivo di fame!». Quella voce mi ha salvato: la voce del vivere arrischiato, che lascia la sicurezza e attraversa il mare (dovevo lasciare la Sicilia e andare, come diciamo noi, nel Continente). E così non mi sono «estinto», spento. 
Purtroppo però da quello stesso slancio del Sapiens viene anche la sua passione per la distruzione (forse le altre specie sono state «estinte» dalla sua violenza) che dà un’ebbrezza simile a quella creativa, ma a spese della vita: non genera il nuovo ma lo divora, come il dio Cronos mangia i figli. 
Ieri come oggi, il Sapiens o fa la vita dandola o si dà la vita togliendola, diventando Rapiens: l’uomo che afferra (da quel verbo viene l’inglese rape, stuprare). 
Lo esemplifico con il racconto del primo traumatico giorno di superiori narratomi da una studentessa. Alla prima ora entra una professoressa, guarda il gruppo assai numeroso di ragazzini, impauriti dall’inizio del percorso liceale, e dice nella lingua del controllo che dà l’ebbrezza del potere a chi la usa: «Siete troppi, vi ridurremo!». 
La lingua del rischio, che è creativa, dà la stessa ebbrezza ma richiede più impegno, avrebbe detto: «Siete tanti, ma voi e io ce la metteremo tutta per trovare i modi di andare avanti insieme». 
La seconda frase genera, la prima de-genera. 
Del racconto di Genesi dimentichiamo che gli alberi dell’Eden sono due: quello della conoscenza del bene e del male, precluso all’uomo a significare che la sua condizione è di creatura e non di creatore (la vita non te la sei data tu); e quello della vita, a sua totale disposizione, a indicare che quella condizione di creatura crea una relazione (la vita ti è donata da Qualcuno). 
Kafka ha scritto che la condizione ferita dell’uomo dipende non solo dall’aver mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male, ma anche dal non aver mangiato quello della vita. L’uomo, scopertosi mortale, deve procurarsi la vita con le sue forze. E allora che cosa è che il Sapiens sa? Che morirà, a differenza dall’animale che vive in un eterno beato presente, come scrive Leopardi nel suo Canto notturno. Questo «saper la morte» è una condanna o una risorsa? 
Il grande scienziato Linneo, a metà del 1700, per catalogare i viventi inventò la classificazione a due nomi (genere e specie) e per l’uomo approdò a Homo Sapiens solo alla decima edizione del suo Sistema della natura. Nelle precedenti edizioni scriveva Homo Nosce Teispum, genere Uomo, specie Conosci te stesso: traduzione latina del monito scritto sul tempio del dio Apollo a Delfi, per ricordare all’uomo, che si recava a interrogare il dio attraverso la sua sacerdotessa, il giusto atteggiamento: sei un mortale, pesa le tue parole. 

La cultura ebraica e quella greca concordano, da prospettive diverse, sulla posizione dell’uomo nel cosmo.
Socrate sceglierà proprio questa frase del tempio di Apollo per sintetizzare il senso dell’esistenza: ogni uomo è chiamato a riconoscere in sé il divino, il daimon, voce immortale che ispira e guida l’azione dell’uomo. Cristo, criticando i gesti ipocriti di coloro che pregano per farsi vedere dagli uomini, dice «quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6). La camera segreta (fisica e del cuore) è dove il Padre dà se stesso a chi lo cerca. Agostino, quattro secoli dopo, ne farà un cammino esistenziale: «Ritorna in te stesso, la verità risiede nell’uomo interiore»
Persino nella stanza dell’Oracolo del film Matrix c’è un’insegna con la scritta in latino (Conosci te stesso), invito al protagonista ad accettare la rischiosa chiamata contro le illusioni oppressive create dal Programma, anche a costo della vita, perché non c’è vita senza verità. 
Chi sei? Qual è il tuo destino? 


Essere Sapiens è essere «Conosci te stesso», cioè accettare la propria finitezza, e non trasformarla in rabbia distruttiva ma in creatività:e non trasformarla in rabbia distruttiva ma in creatività: imperfezione, incertezza, inquietudine sono sinonimo di ricerca e non di paralisi, di audacia e non di paura, di viaggio e non di violenza. 
Per noi stare nella vita è entrare in relazione generativa con ciò che ci supera, fino a scoprire il divino in noi. 
Nella mia vita quando ho cercato di eliminare l’inquietudine, non solo non ci sono riuscito ma ho perso occasioni di crescere e di creare (due verbi che originano dalla stessa antica radice, e che danno lo stesso frutto: l’uomo), perché sono rimasto bloccato dalla paura o, peggio, ho cercato la pace nell’illusione di non morire che dà il potere. 
Invece quando ho deciso di accogliere quell’inquietudine non come debolezza ma come segno della presenza del divino in me, si è sempre trasformata in motore creativo e di crescita: energia per correre il rischio. Rischiando la vita, cioè portandomi avanti con il fatto che dovrò morire, ho scoperto come si vince la morte trovando più vita, come sembra sia proprio del Sapiens. Altrimenti mi sarei estinto, in anticipo, in vita. 
Non credo sia un caso che molti eroi del passato di culture diverse, da Ulisse a Sinbad, siano uomini che, per vivere, hanno vinto il mare. Ognuno ha il suo e il coraggio per affrontare l’ignoto lo trova nel suo DNA di Conosci te stesso. 
Un’educazione che rimette al centro il nostro essere Sapiens, non solo non nasconde ai ragazzi la fatica della condizione di uno che sa che morirà (o rischi o ti estingui), ma svela anche la terribile ambiguità di quel rischiare per riuscire a non morire (o crei altra vita o divori quella che c’è). A noi la scelta.

Sull’integrità morale

Nel post del 27 luglio sottolineavo che il gesto del campione andasse oltre il fair play, perché mi faceva pensare che c’è una possibilità di bene in ognuno di noi. E’ però anche vero che il bene va scelto; certo, a qualcuno può venire naturale, ma ci sono situazioni in cui non è così scontato agire per il bene. 
A scuola alcuni hanno criticato Vingegaard: l’altro (Pogacar) si sarebbe comportato nello stesso modo? e se ne avesse approfittato per vincere lui? prof, e se quel gesto era solo per farsi vedere?
Vi confesso che non so come è poi andata a finire la gara, però voglio credere che il bene può essere fatto al di là di ogni tornaconto personale, per sola fedeltà ai valori che nutriamo nel nostro cuore. 
Dicevo ai ragazzi che se credi nell’onestà e nella competizione leale (e penso che questi siano i valori che abbiamo mosso il campione), saresti un infame (questa espressione la prendo in prestito da alcuni alunni che me l’hanno suggerita) se ti comportassi in modo contrario. E’ quello in cui credi che fa la differenza.
Dice il Dalai Lama:
«All’origine di tutti i nostri guai c’è il comportamento individuale. Se i singoli membri della collettività mancano di valori e integrità morale, nessun sistema legislativo potrà mai dimostrarsi adeguato. E fin tanto che gli esseri umani continueranno a dare priorità ai beni materiali, persisteranno l’ingiustizia, le diseguaglianze, l’intolleranza e l’avidità, tutte manifestazioni esteriori del nostro trascurare le qualità interiori».
Non c’è da essere chissà quali scienziati per capire che ognuno di noi può fare la differenza, nel bene e, purtroppo, anche nel male. Tante “bruttezze” a cui assistiamo sono conseguenza di comportamenti individuali che non hanno alcun rispetto delle leggi, che possono anche essere fatte benissimo e giustissime.  
Se, come dice il Dalai Lama (e non solo lui 😉, ma qualcun altro prima di lui), quello in cui credi è solo il tuo interesse, il mondo sarà pieno di guai.
Ecco quindi che se vogliamo che le cose vadano meglio dobbiamo avere a cuore la nostra integrità morale.
Una cosa non integra è spezzettata, infranta, disintegrata. Anche noi umani rischiamo di diventare così abituandoci alla mediocrità, alle scelte facili e convenienti solo per noi.
 
Girando nel web ho trovato le caratteristiche delle persone integre:
 
1. Autenticità 
Prima di tutto le persone che hanno integrità morale sono autentiche, vere, non si nascondono dietro le formalità o le apparenze, e dicono quello che pensano senza mancare di rispetto. 
2. Riconoscenza 
Apprezzano il tuo tempo, il tuo impegno, riconoscono il tuo valore e non lo danno per scontato. 
3. Umiltà 
Rimangono umili, anche quando raggiungono il successo o si trovano in una posizione influente. Trattano le persone allo stesso modo a prescindere dal loro ruolo o posizione sociale. integrità morale 
4. Perdono 
Le persone che hanno integrità morale non sentono il bisogno di tenere il rancore dentro, non attuano ritorsioni quando subiscono un torto. Se riconoscono che qualcuno ha commesso un errore in buona fede sanno perdonare, e dimenticare. 
5. Fiducia 
Avendo già fiducia in sé stessi si fidano anche delle persone che li circondano, sanno concedere il beneficio del dubbio anche a chi sembra non meritarselo. 
6. Responsabilità 
Si assumono sempre la responsabilità delle loro azioni senza cercare di scaricarla sugli altri. Scelgono di fare la cosa giusta anche quando è quella più difficile. 
7. Pazienza 
Sanno controllare i loro impulsi e attendere il momento giusto. Per questo pensano a lungo termine più che a breve termine. Mantengono viva la prospettiva di insieme e non si fanno ingannare dall’attrattiva di soluzioni semplici e immediate ma controproducenti nel tempo. 
8. Determinazione 
Sono persone determinate, che non si scoraggiano facilmente e che perseguono i loro obiettivi nonostante le opposizioni o le difficoltà. 
9. Leadership 
Prima di essere leader per gli altri le persone con integrità morale sono leader di sé stessi. Sanno scegliere i propri obiettivi in modo autonomo e darsi delle tempistiche precise per raggiungerli. 
10. Coraggio 
Sono persone coraggiose, consapevoli delle loro paure e che scelgono di affrontarle nonostante tutto, che sanno rischiare, puntare all’impossibile per renderlo possibile. 
11. Cuore 
Forse la caratteristica principale. Le persone che hanno integrità morale sono persone dal cuore grande, che sanno amare, spendersi per il prossimo quando c’è bisogno. Per loro contano poco i riconoscimenti esterni, aiutano e rispettano perché è nella loro natura farlo, perché riconoscono la fragilità altrui e vogliono proteggerla invece che sfruttarla per il proprio vantaggio personale.

 

Siamo fatti per la luce

L’ispiera – parola di cui confesso che per molto tempo ho ignorato il significato e persino l’esistenza – è un sottile raggio di sole che, penetrando attraverso una fessura in un ambiente buio, lo illumina.

Chi non ha mai provato, almeno per un momento nella vita, l’esperienza dell’oscurità?
Per qualcuno è diventata persino compagna permanente, arrivando a mettere in discussione l’esistenza stessa della luce.
Ci sono persone che, anche solo per un istante, illuminano la nostra esistenza, facendoci percepire – con un gesto o una parola, nella profondità di uno sguardo, nella semplicità di un sorriso – che la realtà è ultimamente positiva, che c’è sempre qualcosa per cui vale la pena vivere e sperare.

 
Mi è accaduto di incontrarne, e hanno fatto bene alla mia vita, lasciando una traccia luminosa del loro
passaggio. Sono testimoni di un bene presente nelle profondità della realtà ma che spesso non siamo capaci di riconoscere e di seguire, rassegnandoci a campare in un’oscurità senza volto che inaridisce i nostri cuori.
Grazie a Dio, dunque, per le ispiere che penetrando attraverso le fessure del mio cuore gli hanno fatto conoscere la potenza della luce e la bellezza della vita. Siamo fatti per il giorno, la notte è destinata a passare.