Una questione di mani per essere u-mani

Come si fa a non fuggire dal dolore, che sia il proprio o quello delle persone che ami?
Prendo spunto dal Blog di Alessandro D’Avenia e dalla sua riflessione sul quadro Compianto sul Cristo morto di Bellini.


«Nel ritaglio sacro del quadro si scorge un morto (Cristo), il cui corpo esangue è sorretto da un uomo (Giuseppe d’Arimatea), mentre una donna (Maria Maddalena) gli unge le mani rattrappite da colpi di chiodi, con l’olio che un altro uomo (Nicodemo) accigliato tiene in un vasetto. Mi vedo in quest’ultimo, fronte aggrottata dinanzi alla morte, pensieri come rughe, in cerca di risposte davanti a un muro: l’uomo della Vita è morto. Cadavere. Con sapienza compositiva l’artista mette al centro del quadro le mani dei protagonisti, ma soprattutto quelle della donna che accarezzano con l’olio la sinistra del morto che perde rigidezza, al contrario della destra ancora contratta. In quelle mani c’è la farmacopea alla mia incapacità: al fuggire o soccombere aggiungono un’altra via. 


Contemplavo il quadro guidato dalle parole della direttrice del museo Nadia Righi che spiegava come Bellini avesse rappresentato l’esperienza di tutti di fronte al dolore: il quadro dà forma a tutte le ferite vive e nascoste in noi, certifica l’impossibilità di trovare risposte astratte, la sconfitta dell’intelligenza e l’inadeguatezza delle parole. Tutti tacciono dentro e fuori dal quadro, sospesi, parlano le mani: la risposta è solo la cura, cioè rimanere, sostare. E io so stare? Fuggo o soccombo perché non ho risposte. E invece potrei restare proprio perché non le ho. Sono le mani a rispondere. Manutenzione, cioè “tenere nelle mani”, così diciamo per riferirci alla cura delle cose: della macchina, di un impianto, di un edificio. Ma le persone? “Teniamo per mano” quelle che amiamo e ci commuove chi ancora lo fa per strada, ma come si fa a “manu-tenerle”, a “man-tenerle”, quando il dolore o la morte li prendono. Stando. Sostando. So stare? […]».

Effettivamente il dolore non ci chiede tanto di trovarne la ragione (che non c’è), ma ci interpella: che vuoi fare? Ti lasci schiacciare o puoi cercare, invece, di lasciare che ti trasformi?

Continua d’Avenia:
«Noi non ci prendiamo cura delle persone perché le amiamo, ma impariamo ad amarle perché ci prendiamo cura di loro: curare è una scelta che ci trasforma, ci fa uscire da noi stessi, che è l’unica maniera di non fuggire o di non soccombere alla vera morte in vita, la chiusura in se stessi. Io fuggo o soccombo se penso solo a me stesso, invece se sosto, se so stare, mi salvo. 
L’amore, alla fine, è la quantità di vita di cui decidiamo di farci carico, che solo così si trasforma, anche quando è vita ferita. 
[…] Le mani fanno la cura, manutenzione. Non cercano risposte, sono la risposta. […] Eppure ormai lo sappiamo che ci vuole un abbraccio di almeno 30 secondi per permettere al corpo di produrre ossitocina, l’ormone che cura il dolore. E ciò accade sia in chi dà e in chi riceve: non si sa più chi abbraccia chi. Si è abbracciati dalla Cura. Ecco la terza via, quella che immette vita nella vita. Chi siamo noi che – è solo un gioco di suoni – nella nostra lingua abbiamo le mani nel nome: umani? E quanto – gioco ancora – possiamo diventare senza mani: disumani?» 

Da Ultimo banco, Corriere della Sera, 8 aprile 2024






Beatitudini, la Magna Charta di Gesù

Primo giorno di scuola del maestro Gesù, all’aperto, sulla collina, il cielo come soffitto, l’erba per pavimento, l’abside del lago sullo sfondo. E il primo argomento che il giovane rabbi di Nazaret tratta nella sua prima lezione, è il tema della felicità: beati voi, ripete per otto volte. La prima rivelazione: Dio vuole figli felici. 
La vita è e non può che essere una ricerca di felicità. La felicità sempre provvisoria dei viandanti. E invece di un discorso alla Robin Williams, nel film L’attimo fuggente, uno di quei discorsi accattivanti e piacioni, fa una lezione drammatica e impopolare. Parla di poveri, di perseguitati, di piangenti, di affamati. Sceglie le ferite delle persone: le Beatitudini sono ferite che diventano feritoie, in cui si affaccia una terra nuova e felice. 
La genialità di Gesù: non imposta il suo progetto su di una morale umana, ma su di una lieta notizia: Dio regala gioia a chi produce amore, aggiunge vita a chi edifica pace. 
Le Beatitudini non raccolgono precetti o divieti, di cui rendere conto, ma sono la bella notizia che chi somiglia a Gesù, affamato di giustizia e di pace, cuore limpido e mite, vive meglio, umanizza il mondo, apre brecce nel muro della storia per sbirciare dentro il Regno, in una umanità nuova e migliore. Una differenza sostanziale rispetto alle dieci parole è il fatto di passare dall’ubbidire a degli ordini all’ubbidire solo alla felicità. 
La beatitudine posta in apertura al primo discorso di Gesù è la chiave di volta, la condizione perché esistano tutte le altre: beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli (Mt 5,3) […]. 
Ci saremmo aspettati: beati perché ci sarà un capovolgimento, la ricchezza passerà in mano vostra. Beati perché sarete i ricchi di domani. No. Il progetto di Dio è più profondo e più delicato. 
Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno, è con voi che Dio cambierà la storia, non con i potenti. Il Signore vuole vedere il mondo con gli occhi dei piccoli e dei poveri. Solo se proviamo anche noi a vedere il mondo così, con lo sguardo dei deboli e degli ultimi, solo allora potrà cambiare questa nostra storia. L’economia della piccolezza attraversa l’intera Bibbia e ne rappresenta un’anima profondissima. Quella di Abele, delle donne sterili e madri, di Giuseppe venduto, di Amos e Geremia, di Betlemme, delle Beatitudini, del Golgota. Dio si rivela a Elia come una sottile voce di silenzio, solo una voce, non si vede e non si tocca; si sceglie come alleato il più piccolo tra i popoli, diventa bambino e poi lascia suo figlio e i nostri figli appesi a una croce. Prendere sul serio l’economia della piccolezza e della povertà ci porta a guardare il mondo in altro modo, e anche le nostre ferite. A cercare i re di domani tra gli scartati e tra i poveri di oggi, a prendere molto sul serio i giovani e i bambini, a trovare meriti là ove l’economia della grandezza sa vedere solo demeriti
La prima beatitudine riemerge come prima motivazione nel discorso inaugurale di Gesù nella sinagoga di Nazaret (Luca 4,18): sono venuto a portare una lieta notizia ai poveri […]. «Il primo sguardo di Gesù nel Vangelo non si posa mai sul peccato dell’uomo, mai, ma sempre sul suo dolore o sul suo bisogno» (Johann Baptist Metz). Beati i poveri in spirito, specifica Matteo: davanti a Dio per l’anima non c’è nulla di meglio che essere nulla, pura trasparenza, come l’aria davanti al sole (Simone Weil). La preoccupazione dell’annunciatore è di essere infinitamente piccolo, solo così l’annuncio sarà infinitamente grande (Giovanni Vannucci). 
Le prime parole di Gesù dicono a tutti i disincantati di allora, a tutti i delusi di oggi: smettetela di essere tristi e sfiduciati, ascoltate, qualcuno ha una cosa bellissima da dirvi, così bella che appare incredibile...La notizia bellissima è questa: Dio è per i poveri, contro la povertà; è all’opera, qui tra le colline e il lago, per le strade di Cafarnao, in cammino su questi sentieri. Per umanizzare la vita e farla respirare. C’è polline divino nel mondo. Il Regno viene, è vicino, è qui, viene e fa fiorire la vita in tutte le sue forme. Beato, che ricorre più di cento volte nelle Scritture, ha un significato più vasto dell’immediata accezione di “felice, lieto, contento”. Possiamo intuirlo aprendo il libro dei salmi, il libro della nostra vita verticale, imbattendoci nel termine da subito, dalla prima parola del primo salmo: «beato l’uomo che non percorre la via dei malvagi». Il salmo collega beatitudine e cammino come nella illuminante ermeneutica di André Chouraqui: “beato” significa «in cammino, in piedi, in marcia, avanti, voi che non seguite la strada dei malvagi, non arrendetevi, non lasciate cadere le braccia». 
In cammino voi poveri; in piedi voi miti; avanti, in marcia, fate il primo passo, in piedi voi che siete a terra, rialzatevi, ricominciate. Dio cammina con voi. 
«La Provvidenza conosce solo uomini in cammino» (san Giovanni Calabria). 
Tratto da Avvenire del 3 marzo 2024

Quando tutto crolla

Ho seguito con commozione il monologo di Allevi all’Ariston di Sanremo. In questo momento sono molto sensibile a certi argomenti 😄. La fragilità, che Allevi non ha avuto alcuna remora a nascondere, diventa la vera forza dell’essere umano, quando non si chiude in se stesso ma si apre al Tutto. Bellissime parole, le sue, che vi consegno integralmente. 
 “All’improvviso mi è crollato tutto. Non suono più il pianoforte davanti ad un pubblico da quasi due anni. Nel mio ultimo concerto, alla Konzerthaus di Vienna, il dolore alla schiena era talmente forte che sull’applauso finale non riuscivo ad alzarmi dallo sgabello. E non sapevo ancora di essere malato. Poi è arrivata la diagnosi, pesantissima. Ho guardato il soffitto con la sensazione di avere la febbre a 39 per un anno consecutivo.Ho perso molto, il mio lavoro, ho perso i miei capelli, le mie certezze, ma non la speranza e la voglia di immaginare. Era come se la malattia mi porgesse, assieme al dolore, degli inaspettati doni. Quali? Vi faccio un esempio.… Non molto tempo fa, prima che accadesse tutto questo, durante un concerto in un teatro pieno, ho notato una poltrona vuota. Come una poltrona vuota?! Mi sono sentito mancare! Eppure, quando ero agli inizi, per molto tempo ho fatto concerti davanti ad un pubblico di quindici, venti persone ed ero felicissimo! Oggi….dopo la malattia, non so cosa darei per suonare davanti a quindici persone. I numeri…non contano! Sembra paradossale detto da qui. Perché ogni individuo, ognuno di noi, ognuno di voi, è unico, irripetibile e a suo modo infinito. Un altro dono! La gratitudine nei confronti della bellezza del Creato. Non si contano le albe e i tramonti che ho ammirato da quelle stanze d’ospedale. Un altro dono. La riconoscenza per il talento dei medici, degli infermieri, di tutto il personale ospedaliero. Per la ricerca scientifica, senza la quale non sarei qui a parlarvi. La riconoscenza per l’affetto, la forza, l’esempio che ricevo dagli altri pazienti, i guerrieri, così li chiamo. E lo sono anche i loro familiari, e lo sono anche i genitori dei piccoli guerrieri. Quando tutto crolla e resta in piedi solo l’essenziale, il giudizio che riceviamo dall’esterno non conta più. Io sono quel che sono, noi siamo quel che siamo. E come intuisce Kant alla fine della Critica della Ragion Pratica, il cielo stellato può continuare a volteggiare nelle sue orbite perfette, io posso essere immerso in una condizione di continuo mutamento, eppure sento che in me c’è qualcosa che permane! Ed è ragionevole pensare che permarrà in eterno. Io sono quel che sono. Voglio andare fino in fondo con questo pensiero. Se le cose stanno davvero così, cosa mai sarà un giudizio dall’esterno? Voglio accettare il nuovo Giovanni. Come dissi in quell’ultimo concerto a Vienna, non potendo più contare sul mio corpo, suonerò con tutta l’anima. Il brano si intitola Tomorrow, perché domani, per tutti noi, ci sia sempre ad attenderci un giorno più bello!”



Siamo fatti per la luce

L’ispiera – parola di cui confesso che per molto tempo ho ignorato il significato e persino l’esistenza – è un sottile raggio di sole che, penetrando attraverso una fessura in un ambiente buio, lo illumina.

Chi non ha mai provato, almeno per un momento nella vita, l’esperienza dell’oscurità?
Per qualcuno è diventata persino compagna permanente, arrivando a mettere in discussione l’esistenza stessa della luce.
Ci sono persone che, anche solo per un istante, illuminano la nostra esistenza, facendoci percepire – con un gesto o una parola, nella profondità di uno sguardo, nella semplicità di un sorriso – che la realtà è ultimamente positiva, che c’è sempre qualcosa per cui vale la pena vivere e sperare.

 
Mi è accaduto di incontrarne, e hanno fatto bene alla mia vita, lasciando una traccia luminosa del loro
passaggio. Sono testimoni di un bene presente nelle profondità della realtà ma che spesso non siamo capaci di riconoscere e di seguire, rassegnandoci a campare in un’oscurità senza volto che inaridisce i nostri cuori.
Grazie a Dio, dunque, per le ispiere che penetrando attraverso le fessure del mio cuore gli hanno fatto conoscere la potenza della luce e la bellezza della vita. Siamo fatti per il giorno, la notte è destinata a passare.
 

 

Dare la propria vita per gli altri

Non c’è amore più grande di questo – dice Gesù – che dare la vita per i propri amici.
Ma cosa vuol dire?
Nel film “Sette anime” il protagonista decide di togliersi la vita per offrire una possibilità di vita alla donna che ama. E’ questo il senso dell’amore, così come lo intende Gesù?
No, assolutamente no!
Il concetto stesso di martirio cristiano è lontano dall’idea del sacrificio in se stesso.
I cristiani dei primi secoli presero le distanze da alcuni che pensavano di procurarsi volontariamente la morte, provocando di proposito i pagani.
Umani fino in fondo, i martiri non amano la morte violenta. Man mano che il loro momento si avvicina sono sempre più consapevoli della barbarie a cui vanno incontro: questo li sgomenta ma, al tempo stesso, non li fa recedere. Sono come Gesù nell’orto degli Ulivi: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». Come Gesù, quando si accorgono che la propria morte è inevitabile, perché Dio così ha predisposto e tanti segnali dicono che la loro missione sulla terra non potrà non concludersi che in modo violento, non tornano sui loro passi, preparandosi a morire.
Certo, i martiri non si avviano danzando incontro al martirio. Di quelli a noi più vicini abbiamo testimonianze che ci danno un’idea dei giorni che precedono il martirio: le persone che sono state accanto a loro li raccontano come pensosi, inquieti, riflessivi ma anche bruschi. 

L’arcivescovo salvadoregno Oscar Romero, ferito a morte mentre celebrava la Messa nel 1980, per aver preso le difese dei diseredati del suo popolo, diceva: «È normale che ci tremino le ginocchia, ma almeno che ci tremino nel posto in cui dobbiamo stare»
Ha scritto Bruno Maggioni: «Il martire non sceglie la morte, ma un modo di vivere, quello di Gesù». Ecco ciò che contraddistingue il martire cristiano, la sua radicale specificità.
La vita che va odiata è quella dove a vincere  sono i più furbi, i più ricchi, i meno onesti. La vita che Gesù ci chiede di perdere è quella incatenata dai tanti fardelli che la condizionano: la paura di rinunciare al proprio tornaconto, ad una libertà vuota di valori, all’egoismo. Quando siamo liberi dai calcoli e ci apriamo all’altro con generosità siamo più felici. È questa la vita verso la quale tendere: una vita che ha come unico obiettivo amare Dio e il prossimo e di lasciaci amare da Lui e dalle persone che ci sono attorno.
In questo modo la vita non la si perde. Anzi, diventa amore, accoglienza, condivisione, voglia di annunciare e testimoniare che si può abitare questo mondo nella gioia.

Christian de Chergé, uno dei monaci uccisi a Thibirine, nel 1986, dal terrorismo algerino, ci ha lasciato una chiara testimonianza di quello che può significare perdere la propria vita per amore di Cristo e del prossimo.
In quello che è considerato il suo testamento spirituale, scritto quando ancora non sapeva in che modo e quando gli sarebbe toccato di dover donare la sua vita per Cristo, annotava:
«La mia vita non ha valore più di un’altra. Non ne ha neanche di meno. – In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito. Non potrei augurarmi una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse indistintamente accusato del mio assassinio. […] La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”. Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione, giocando con le differenze. Di questa vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per questa gioia, attraverso e nonostante tutto […] E anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo “grazie”, e questo “a-Dio” nel cui volto ti contemplo. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Inch’Allah».
In queste parole non c’è rabbia e rinuncia nei confronti della vita. Tutt’altro! E’ un messaggio dove la vita viene esaltata.
Una vita con l’unico obiettivo di amare Dio e il prossimo e di lasciarsi amare da Lui e dalle persone che ci vivono attorno è una vita che realizza le Beatitudini. Allora, pur nella sofferenza, si sperimenterà la gioia, la bellezza e la ricchezza di essere a servizio dell’uomo nel seguire Gesù.
Diceva san Paolo che senza la Carità (Amore) qualunque cosa io dovessi fare, anche il sacrificare la mia stessa vita, non avrebbe alcun valore, non servirebbe a nulla.

Una canzone per cominciare: Io credo

Ci sono canzoni che mi fanno nascere il desiderio di condividerle con gli alunni perché offrono spunti di riflessione su cui potersi confrontare. “Credo“, cantata da Giorgia, è una di queste.
Il testo parla del coraggio della fede, della possibilità di far sì che i dolori non ti annientino ma ti aiutino a crescere (rivelando a te stesso chi sei veramente), dell’amore verso cui tutti tendiamo e che dà senso alla vita.
L’uomo è per sua natura credente perché, indipendentemente che si riconosca in una religione o meno, vive la sua vita all’insegna della fede: nelle relazioni con gli altri, nell’amicizia, nell’amore, nella possibilità di farcela…. La fede, in un certo senso, è una delle modalità di conoscenza che caratterizza noi umani e che ci dà la forza di andare avanti.
Penso che questa canzone possa essere di buon auspicio per l’anno che ci attende. La fiducia che nutriremo gli uni negli altri sarà l’ingrediente indispensabile per un buon rapporto tra di noi e per aprirci ad un sapere, quello religioso, che ci permetterà di guardare al mondo con meno superficialità e più passione. La passione che solo un “credo” può dare.

Il testo della canzone

Cancellerò il passato
per non tornare indietro
Mentre riguardo in uno specchio i segni di chi ero
È il tempo del risveglio
risalgo dal profondo
Dopo aver fatto a pugni con me stessa credo

E credo nelle lacrime
che sciolgono le maschere
credo nella luce delle idee
che il vento non può spegnere

Io credo in questa vita, credo in me
Io credo in una vita, credo in te
Io credo in questa vita, credo in me

Credo nell’universo
nascosto in uno sguardo
Nella magia del tempo
che scandisce un cambiamento
E resterà il ricordo
ma non sarà un tormento
Dopo aver fatto un patto
col mio ego credo

E credo nelle lacrime
che sciolgono le maschere
Credo nella luce delle idee
Che il vento non può spegnere

Io credo in questa vita credo in me
Io credo in una vita credo in te
Io credo in questa vita credo in me
E credo in un amore che
Vince sempre sulle tenebre
Io credo in una vita credo in te

Sono consapevole
Che non cambiano le regole
Ma credo in un amore che
Vince sempre sulle tenebre

Credo ancora in un bacio che parte
E il cuore che batte
Uomini e macchine
L’inizio e la fine
La vita e la morte
Ancora rinascere
Come le stelle
Tra l’arte il disordine
E un giro di anime
Siamo satelliti
Intorno all’amore
Intorno all’amore
Credo

E credo nelle lacrime
che sciolgono le maschere
Credo nella luce delle idee
Che il vento non può spegnere

Io credo in questa vita, credo in me
Io credo in una vita, credo in me
Io credo in questa vita, credo in te

Il più grande servizio da rendere all’umanità

Dobbiamo iniziare con l’essere felici perché è il più grande servizio che si possa rendere all’umanità. 
Se siamo felici, c’è almeno un luogo di felicità. La felicità deve però continuamente accrescersi, e si accresce man mano che altre persone diventano un po’ più felici. Se nella vostra vita avete reso felice anche una sola persona, non avete perduto il vostro tempo; se avete fatto felice un cane, oppure una pianta fiorita in un giorno di primavera che vi ha dato l’impressione di rispondervi, ne valeva la pena. Credo che la nostra vita sia perduta se questo dono, che è dentro di noi, non riesce ad essere comunicato. Se nessuno vuole il dono che è in voi, offritelo a tutti gli esseri, alla vita, al vento! Il vento lo porterà a quelli che ne hanno più bisogno… 
E’ il momento di dare! Io dono e accolgo coloro che possono avere bisogno“.
(Jean-Yves Leloup, La montagna nell’oceano)

I padlet sull’amicizia

L’amicizia fa parte dell’esperienza umana. Gli amici, specialmente nell’età dei miei alunni, sono indispensabili.
La proposto didattica presentata agli alunni ha fatto loro scoprire che anche la Bibbia ha qualcosa da dire sull’amicizia e che il rapporto che Dio vuole instaurare con l’uomo, sempre alla luce della Bibbia e del Magistero della Chiesa, è un rapporto di amicizia, di vera amicizia.
In questo padlet sono raccolte le riflessioni degli alunni, divisi per classi.

Creato con Padlet

Il mondo appartiene a chi lo rende migliore

Ieri ho letto un commento di Ermes Ronchi al Vangelo delle Beatitudini e vorrei condividere con voi, cari alunni di terza, impegnati a riflettere sull’idea di felicità, alcuni pensieri.
Gandhi, che non nascondeva la sua ammirazione per Gesù e il suo Vangelo, diceva che le Beatitudini sono “le parole più alte del pensiero umano”. Se ci pensate bene sono parole che riaccendono la nostalgia per un mondo più bello, buono, dove la violenza e la menzogna sono sostituite dalla misericordia, dagli atteggiamenti di pace, dall’amore per la verità, dal perdono. Le beatitudini non sono nuovi comandamenti, ma ci propongono la buona notizia che Dio regala vita a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità.
Se Dio mi parla di beatitudine vuol dire che Lui ha a cuore la mia ricerca di felicità. Il mio sogno di felicità è anche il suo, ed è per questo che a Lui interessa farmi capire dove posso trovare una risposta a questa mia ricerca.
Gesù è venuto a portare una risposta. Una proposta che, come al solito, è inattesa, controcorrente, che scardina le nostre certezze: felici non sono i ricchi, ma i poveri, non i prepotenti e gli ingannatori, ma gli ostinati a proporsi giustizia, i costruttori di pace, quelli che hanno il cuore dolce e occhi bambini, i non violenti, quelli che sono coraggiosi perché inermi. Sono loro la sola forza invincibile.
Le beatitudini sono il più grande atto di speranza del cristiano, perché ci dicono che il mondo non è e non sarà, né oggi né domani, sotto la legge del più ricco e del più forte. Il mondo appartiene a chi lo rende migliore.
Il mondo non sarà reso migliore da coloro che accumulano più denaro. I potenti sono come vasi pieni, non hanno spazio per altro. A loro basta prolungare il presente, non hanno sentieri nel cuore.
Se accogli le Beatitudini la loro logica ti cambia il cuore, sulla misura di quello di Dio; te lo guariscono perché tu possa così prenderti cura bene del mondo.
E il mondo ha tanto bisogno di bene.