Trans-umanismo

Parola strana che è invece il caso di comprendere perché, come dice Albert Cortina, un’autorità in merito a questa tematica, «Mi sembra che ci troviamo in un momento cruciale, in cui il transumanismo sta per compiere il grande balzo: ancora non è forte e radicato, ma potrebbe diventare un’ideologia diffusa. Desidero che la si guardi bene in faccia e si consideri in che modo la cultura cristiana possa porsi di fronte a essa». 
Riprendo l’intervista di L. Servadio pubblicata su Avvenire del 10 dicembre 2022. 

In che modo si diffonde? 
Per esempio nei videogiochi che presentano cyborg, cioè esseri umani con parti cibernetiche che ne aumentano la potenza fisica o mentale. In certe espressioni artistiche, che privilegiano una visione postumana e cercano di sperimentare col corpo umano, facendone un oggetto plasmabile: si comincia coi tatuaggi e i piercing per arrivare a impiantare microchip per aumentare le proprie prestazioni. O nella tendenza ad allungare artificialmente la vita, magari trasfondendola in una memoria elettronica o con manipolazioni genetiche. 
Beninteso, vi sono tanti aspetti positivi nel modo in cui la tecnologia può migliorare la vita e sopperire a problemi fisici, per esempio permettendo di camminare anche a chi ha perso le gambe. La questione è apprezzare i limiti, evitare di assolutizzare, scongiurare l’ipotesi che l’essere umano divenga un robot bionico, cosa verso cui invece tendono alcuni sviluppi delle biotecnologie e delle nanotecnologie. 

Sono tecnologie che consentono anche il controllo della popolazione. 
Già si constata in Cina, con l’uso di sistemi informatici per classificare e controllare le persone nei loro movimenti, così come nel limitare il diritto di accedere a certe prestazioni in funzione del punteggio assegnato a ciascuno dal potere centrale. 

La logica del metaverso va in questa stessa direzione?
Il metaverso crea un mondo parallelo, nasce come gioco e può assorbire a tal punto la vita delle persone che queste finiscono per non avere più relazioni reali con altri esseri umani. Questa vita fittizia è come una grande fantasia in cui ognuno può inventarsi le proprie regole, come se la realtà non esistesse più. Un mondo dove avvengono guerre ma senza conseguenze, non ci si fa male: il male consiste nel lasciare che quel mondo ti assorba sempre di più, trasportandoti via dal mondo reale. E certo, anche qui, chi lo controlla finirà per influenzare chi ne usa. 

Una nuova utopia. 
Qualcosa che si insinua ovunque grazie ai suoi aspetti positivi: sono tecnologie che possono aiutare a migliorare la vita. Ma, ancora, se assolutizzate queste stesse tecnologie scatenano desideri illimitati. […]

Qualcosa che la cultura cristiana non può accettare. 
Fino a due secoli fa in Europa tutto si spiegava alla luce della fede. Poi s’è diffuso il verbo della tecnologia – con tutti i suoi pregi beninteso, ma anche coi suoi limiti che con chiarezza constatiamo nell’inquinamento diffuso per esempio. Con l’ideologia transumani-sta ci troviamo di fronte a una possibile nuova tecnoreligione: la religione della tecnica, fondata sul dogma che la tecnologia sia onnipotente. Che la superintelligenza alla quale si può giungere con i sistemi computerizzati possa tutto conoscere e tutto creare. Che il controllo dei dati possa offrire il controllo totale della biosfera e della vita umana. E che la capacità di distinguere il bene dal male non derivi da una scelta morale in una visione trascendente, ma si misuri su nuove possibilità illimitate derivanti da conoscenze straordinarie acquisibili grazie agli algoritmi. L’algoritmo diventa l’espressione di un nuovo gnosticismo. 

Una cieca fede nel progresso? 
Il problema è che di queste tematiche non si parla a sufficienza. Ma pian piano si diffondono. Vi sono aziende che selezionano il personale sulla base di algoritmi. Programmatori e progettisti convinti che dalle nuove tecnologie non potrà che derivare un bene. La società civile e il mondo politico tendenzialmente ignorano tutto questo o lo accettano acriticamente. È importante invece recuperare una visione critica. Come ha scritto Paolo VI nella Populorum progressio (n. 20), «se il perseguimento dello sviluppo richiede un numero sempre più grande di tecnici, esige ancor di più uomini di pensiero capaci di riflessione profonda, votati alla ricerca d’un umanesimo nuovo, che permetta all’uomo moderno di ritrovare se stesso, assumendo i valori superiori d’amore, di amicizia, di preghiera e di contemplazione».


Tre parole da ripensare e ridire per il nuovo anno

Lo sappiamo anche noi, eppure ogni volta che inizia un anno nuovo speriamo tenacemente che accada qualcosa di migliore, che saremo capaci di liberarci dalla necessità del passato e mostrarci diversi, che nostro figlio sarà quella bellezza e quella pace che noi non siamo riusciti a diventare. 
Da qui il senso degli auguri, di bene- dire il tempo che sta per iniziare, perché le parole buone pronunciate nel principio hanno una speciale capacità performativa, migliorano ciò che bene- diciamo, danno ali alle nostre promesse. 
Pensando al nostro tempo di passaggio, la prima parola da dire diversamente è povertà
La povertà è parte essenziale della condizione umana di tutti. L’Europa, grazie soprattutto a Cristo, aveva generato una civiltà che mentre lottava contro la miseria non disprezzava i poveri in carne e ossa, non li malediceva, perché Gesù li aveva chiamati “beati” e perché Francesco per l’”ignota ricchezza” della povertà aveva lasciato le altre ricchezze note. Da questo umanesimo sono nati gli ospedali, le scuole, i Monti di pietà, e poi lo Stato sociale, che non trattavano i poveri come maledetti ma solo come sventurati. 
Oggi la prima povertà di cui soffrono i poveri è la mancanza di stima, è sentirsi considerati colpevoli, guardati solo come portatori di bisogni e non di talenti e virtù pur dentro le loro indigenze. Perché ci siamo dimenticati che a coloro che chiamiamo “poveri” manca molto ma non manca tutto – e la dignità si situa nella differenza tra il “tutto” e il “molto”, e lì dove si alimenta anche la reciprocità. 
Poi c’è il lavoro
Attorno al lavoro si sono sempre dette e scritte molte parole, non tutte buone e vere. Lo abbiamo scritto nell’incipit della nostra Costituzione, e abbiamo fatto bene. Ma non dobbiamo dimenticare cosa fosse nel dopoguerra veramente il lavoro in Italia e nel mondo. Se a scrivere quell’articolo 1 non fossero stati professori, politici e giuristi ma lavoratori della terra, delle fabbriche, dei cantieri, le lavoratrici delle filande e delle risaie, difficilmente avrebbero fondato il nuovo patto sociale su quel loro lavoro concreto – il lavoro ha sempre sofferto per narrative scritte da non-lavoratori. Perché le parole dei lavoratori veri erano ‘“schiene incurvate”, “miseria e fame”, “padrone e servo”, “travaglio”.
Il lavoro è stato quasi sempre esperienza non troppo diversa dalla servitù, se si eccettuano poche élite di artisti, di artigiani e di professioni liberali. La Bibbia, espertissima di umanità prima di essere esperta di Dio, quando pensava al lavoro andava subito alla produzione forzata di mattoni in Egitto. E quando quegli uomini e donne scrissero « L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» guardarono, profeticamente, al lavoro di domani. Guardarono negli occhi il lavoro del loro tempo e gli dissero: “Diventa quello che non sei ancora, lo puoi diventare”. E fu come una preghiera. 
Oggi le profezie della Costituzione sono sempre più lontane, e torna minaccioso all’orizzonte l’ombra del lavoro per umiliare i deboli e i poveri, i mattoni d’Egitto cercano ogni giorno di riprendere il posto del lavoro degno e congruo. L’articolo 1 è l’articolo dell’inizio, è il padre del mattino del giorno che non c’è ancora ma che deve arrivare. 
Infine, spiritualità
Siamo dentro una immensa carestia di spiritualità. 
Abbiamo ottenuto risultati straordinari nel “foro esterno” della nostra civiltà – tecnica, economia, scienza –, ma nel “foro interno” siamo regrediti di secoli, se non di millenni. L’homo sapiens post-moderno è un analfabeta spirituale di ritorno. È sempre più urgente che le Chiese e le religioni lascino i loro recinti e le loro “comfort zone” di consumo sacro e opere sociali e aiutino il mondo a ricostituire un nuovo capitale spirituale. Il capitale spirituale è la “casa” di tutti i capitali di una società: senza di esso tutti gli altri vagano nomadi, esposti a ogni pericolo. C’è un bisogno urgente di una rivoluzione narrativa delle religioni e della spiritualità: è ora di mettersi a lavoro. 

Liberamente tratto da L.Bruni, La rivoluzione è un’eredità,  in Avvenire del 3/01/2023

QUEL GIORNO A SARAJEVO, A VIVER DI PACE

Dopo tanto silenzio – la scuola quest’anno mi sta impegnando come non mai, per quanto stia cercando di mollare tanti impegni 🙄 – oggi sono riuscita a trovare un po’ di tempo per riprendere a pubblicare quanto vado raccogliendo.

Di fronte alla guerra alle porte dell’Europa, ma anche con il pensiero a tutte le guerre che infestano questo mondo, mi sono ricordata di quanto avvenne trent’anni fa. A dir la verità è stato il giornale Avvenire a pemettermi di ravvivare nella mia memoria la storia dei 500 che arrivarono a Sarajevo, assediata durante la guerra nei Balcani.
Vi riporto alcuni brani dell’articolo pubblicato il 7 dicembre 2022.

Ancona, 13 dicembre ‘92: a destra don Tonino Bello, a sinistra don Albino Bizzotto dei “Beati i costruttori di pace”, di ritorno da Sarajevo 

La nave dei “folli” si staccò dal porto di Ancona il 7 dicembre di trent’anni fa sotto un cielo da paura. A bordo del Liburnija 496 persone dirette a Sarajevo, la città bosniaca martirizzata da nove mesi e stretta sotto assedio dalle milizie serbe: un esercito di “pacifisti” armati solo del loro essere inermi, pronti ad irrompere nel cuore del conflitto per costringerlo a una tregua anche solo di ore.
«In 100.000 a Sarajevo!» era lo slogan con cui don Albino Bizzotto, guida di “Beati i costruttori di pace”, aveva chiamato all’invasione pacifica della città insanguinata. Risposero in 500. Tra loro c’erano giovani e vecchi, credenti e atei, suore e obiettori di coscienza, anarchici e sacerdoti, anche due vescovi, Luigi Bettazzi e Tonino Bello, suo successore alla testa di Pax Christi.
Ha 58 anni, don Tonino Bello, ed è minato dal cancro, ma è deciso a interporsi fisicamente tra le parti in guerra per dimostrare che la nonviolenza può funzionare. Quel 7 dicembre coloro che si imbarcano sanno bene che l’impresa può essere senza ritorno, in molti hanno cercato di farli desistere, ma loro hanno raccolto il sogno e sono partiti, nello zaino acqua e cibo per quattro giorni, poi si vedrà.

La prima tappa è Spalato, 7 ore di traversata, ma l’Adriatico scatena una tempesta di tale violenza che il Liburnija, dato per disperso dalle agenzie di stampa, arriverà sull’altra sponda con 12 ore di ritardo. «Siamo passati per l’acqua e per il fuoco e il Signore ci ha liberati», dirà poi don Tonino citando la Bibbia, «l’acqua di quel mancato naufragio terrificante, il fuoco delle granate».
Vogliono entrare a Sarajevo il 10 dicembre, Giornata mondiale dei Diritti umani, ma i continui posti di blocco e le estenuanti trattative con i capi militari dei diversi eserciti rallentano la marcia. Dell’arrivo della carovana è preavvisata l’Onu, sono preavvisati i rappresentanti delle fazioni in lotta, ma per i 500 non ci sarà protezione, nessuna garanzia, procederanno a loro rischio e pericolo, a bordo di dieci pullman malmessi e due ambulanze portate in dono dall’Italia, una per fronte.
L’ 11 dicembre l’arrivo sulla montagna innevata che sovrasta Sarajevo, ma ancora non è finita: «Una delegazione di dieci di noi si reca a Ilidža a parlamentare con le autorità militari serbe, è una trattativa lunghissima – racconta don Tonino –.
Intanto la gente del posto viene sui pullman a offrirci tè caldo. Una signora serba ha visto gli autisti intirizziti dal freddo e, benché fossero croati, li ha portati a casa sua e ha offerto un pranzo per loro».
È l’inizio del miracolo umano.
La popolazione, prima incuriosita e poi commossa, li attornia, li abbraccia, «un uomo ha visto la mia croce al collo e l’ha baciata, poi mi ha invitato a casa sua dove era in corso il banchetto funebre per suo padre. Sono entrato e mi ha detto: “Io sono serbo, mia moglie è croata, queste mie cognate sono musulmane, eppure viviamo insieme da sempre e ci vogliamo bene. Perché questa guerra? Chi la vuole?” A vedere quella gente seduta alla stessa mensa ho pensato alla convivialità delle differenze: questa è la pace».
Infine i 500 entrano in città nel silenzio allucinato delle 7 di sera, quando ormai nessun essere umano oserebbe percorrere il “vialone della morte” crivellato dai cecchini. 
 «Da nove mesi dopo le quattro del pomeriggio neppure le camionette dell’Onu hanno il coraggio di entrare», annota don Tonino, «ma stasera qui c’è un’altra Onu, un’Onu rovesciata ». Le bombe chiamano bombe, il loro essere lì in pace sta provando al mondo intero che un’alternativa esiste e funziona: «A questa Onu che scivola in silenzio nel cuore della guerra il cielo vuole affidare un messaggio: che la pace va osata».

Siamo abituati a pensare che “osare” sia il verbo del combattere, quando per morire e ammazzare ci vuole coraggio, invece è la pace che va osata e che davvero richiede coraggio. Solo il giorno prima Sarajevo è stata colpita da tremila granate, ma per la durata in cui gli inermi percorrono il terreno di guerra è evidente che i militari hanno abbassato l’intensità del fuoco.
L’ indomani, 12 dicembre, «è incredibile l’accoglienza della gente lungo le strade e dalle finestre», quel gruppo venuto da fuori significa che il mondo esterno non li ha dimenticati. Poi nel buio e nel gelo del cinema don Tonino Bello tiene il discorso destinato a restare nella storia, ad ascoltarlo anche i capi delle diverse religioni in lotta. Nel 1992 non esistono i cellulari e le autorità hanno vietato le riprese, ma don Renato Sacco, consigliere di Pax Christi, registra di nascosto consegnando al futuro un documento di rara potenza: 

«Questa è la realizzazione di un sogno – dice il vescovo, il corpo crocifisso dalla malattia ma lo sguardo acceso di passione – di una grande utopia che abbiamo tutti portato nel cuore, probabilmente sospettando che non si sarebbe realizzata. Ma ringrazio il Signore che, attraverso il nostro gesto folle, ha realizzato l’utopia». Parola che nel suo vocabolario significa azione che contrasta la rinuncia, movimento che contrasta la staticità: «Queste forme di utopia dobbiamo promuoverle, altrimenti le nostre comunità che cosa sono? Sono solo le notaie dello status quo, non le sentinelle profetiche che annunciano tempi nuovi». Le sue parole infuocano e consolano la popolazione piegata da mesi di tragedia. «Quanta fatica si fa a far capire che la soluzione dei conflitti non avverrà mai con la guerra ma con il dialogo – continua il vescovo –, abbiamo fatto fatica anche qui con i rappresentanti religiosi, perché è difficile questa idea della soluzione pacifica dei conflitti. Ma noi siamo venuti a portare un germe: un giorno fiorirà». […]

[…] don Tonino Bello tornando a casa si interrogava, «qual è il tasso delle nostre colpe di esportatori di armi in questa delirante barbarie che si consuma sul popolo della Bosnia? Fino a quando la cultura della nonviolenza rimarrà subalterna?». Era il 13 dicembre 1992, i 500 “folli” tornavano vincenti, contro ogni pronostico erano arrivati fin dentro la guerra e in loro presenza le armi avevano taciuto. Don Tonino, tra «il rimorso del poco che si è potuto seminare» e «l’incontenibile speranza che le cose cambieranno», si avviava verso l’ultima Grande Partenza avvenuta il 20 aprile 1993. 

A Facen di Pedavena (Belluno) in un museo che da decenni osa la pace, tra le stole dei santi è conservata anche quella del venerabile don Tonino Bello, non un segno di potere ma il potere di un segno, il «grembiule che ci fa lavapiedi del mondo», come la definiva il vescovo di Molfetta. Nello stesso “Museo dei Sogni, della Memoria e della Coscienza” sono conservati 25 grandi pani impastati lo scorso Natale nei luoghi più simbolici della terra, tra questi la pagnotta che sulla crosta porta l’impronta della croce di don Tonino: «Sono pani impastati con il sale giunto da 50 nazioni – spiega il direttore Aldo Bertelle – e ora viaggeranno a ritroso, ognuno verso un luogo di conversione ». Il pane di don Tonino Bello passerà di mano in mano sul Ponte di Sarajevo.

i pani conservati nel “Museo dei Sogni, della Memoria e della Coscienza”


Accorgersi che Dio scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini

“Dio scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini”.
Spesso me lo sono sentito dire e anche io l’ho ricordato a me stessa e a chi stava attraversando un momento difficile. Non si tratta di rassegnazione, ma di consapevolezza che dal male se ne può uscire più forti se poniamo la nostra vita nelle mani di qualcun altro e, per chi si fida di Gesù, di quel Dio che offre il bene anche negli angoli più bui. 
I tempi che stiamo vivendo ci fanno percepire tutta la fragilità di un sistema che pensavamo ci avrebbe destinato tutti al successo e al benessere. Quanta arroganza in questo modo di pensare!!! Abbiamo costruito un castello sulle sabbie mobili….e ora, invece di sostenerci l’un l’altro, stiamo tirando fuori il peggio di noi. Che amarezza! direbbe la mia cara collega. 
Ne possiamo uscire soltanto convertendo totalmente il nostro cuore e risvegliandoci dal sonno della ragione, perché a prevalere sono purtroppo la rabbia e le soluzioni dettate da un egoismo irragionevole. Chi bazzica un po’ la Bibbia, si sarà imbattuto in brani in cui Dio si rivela nel sogno o in cui il sonno è preludio ad un grande cambiamento. Dio ci sveglia dal sonno per invitarci a realizzare il suo progetto che è per il bene, non solo personale. 
E quando le cose sembrano mettersi male, Dio invita a vedere con il suo stesso sguardo: dal male può venire anche il bene se ci apriamo alla sua provvidente misericordia. 
L’articolo di Mauro Magatti, pubblicato su Avvenire del 30 agosto è un contributo al risveglio 😁. 

 «Le restrizioni che ci sono state imposte dal virus hanno generato un diffuso senso di responsabilità. Ma hanno anche sviluppato forti reazioni che in alcuni casi hanno rasentato la violenza. Una società più sobria ha bisogno di una pedagogia che oggi non c’è. Ecco perché è necessario che tutti coloro che hanno responsabilità pubbliche – dai politici agli imprenditori, dai manager ai docenti – evitino di cavalcare la tigre dell’odio che questa stagione inevitabilmente alimenta. In definitiva, la ‘fine dell’abbondanza’ potrebbe essere il vincolo esterno per avviare quella trasformazione di cui si sente il bisogno ma che non si sa come realizzare. Riuscendo a immaginare una crescita che, senza ridursi all’aumento dei consumi privati, sia capace di rigenerare i legami sociali, di affiancare ai diritti individuali i doveri sociali, di scommettere sulla sussidiarietà intesa come responsabilità diffusa, di investire sulla generazione e sulla formazione, di portare avanti la transizione energetica sapendo della sua urgenza e dei suoi costi. La ‘fine dell’abbondanza’ significa fondamentalmente risvegliarsi dal sonno della ragione che ci ha portati a credere che la crescita sia frutto di un meccanismo automatico, di un funzionamento sistemico, indipendente dalla spinta spirituale e dalla intelligenza che vengono dalle persone e dalla comunità. Nella società che abbiamo la possibilità di costruire non si tratta più semplicemente di rivendicare il proprio benessere individuale, ma di contribuire al bene comune».

Buddha e Gesù costruttori di pace

Oggi sentiamo con particolare intensità che la pace è un bene estremamente fragile. Abbiamo visto come ci voglia pochissimo per passare da una situazione di “normalità” ad una in cui ogni giorno ti chiedi se ci sarà un domani e come questo sarà. 
La pace non è comunque l’assenza di guerra, ma è una rivoluzione da fare nel cuore e nella mente. Richiede fiducia, dialogo, umiltà; insomma qualità di cui il nostro mondo, purtroppo😔, non abbonda. Papa Francesco, rivolto alla delegazione di autorità del Buddhismo in Mongolia (28 maggio) si è così espresso: 
La pace è oggi l’ardente anelito dell’umanità. Pertanto, attraverso il dialogo a tutti i livelli, è urgente promuovere una cultura della pace e della nonviolenza e lavorare per questo. Questo dialogo deve invitare tutti a rifiutare la violenza in ogni sua forma, compresa la violenza contro l’ambiente. Purtroppo, c’è chi continua ad abusare della religione usandola per giustificare atti di violenza e di odio. Gesù e Buddha sono stati costruttori di pace e promotori della nonviolenza.
Anche Gesù visse in tempi di violenza. Egli insegnò che il vero campo di battaglia, in cui si affrontano la violenza e la pace, è il cuore umano […]. Egli predicò instancabilmente l’amore incondizionato di Dio che accoglie e perdona e insegnò ai suoi discepoli ad amare i nemici (cfr Mt 5,44) […], tracciò la via della nonviolenza, che ha percorso fino alla fine, fino alla croce, mediante la quale ha realizzato la pace e distrutto l’inimicizia (cfr Ef 2,14-16). 
Perciò, «essere veri discepoli di Gesù oggi significa aderire anche alla sua proposta di nonviolenza» (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1 gennaio 2017, 3). 
Il messaggio centrale del Buddha era la nonviolenza e la pace. Insegnò che «la vittoria si lascia dietro una scia di odio, perché il vinto soffre. Abbandona ogni pensiero di vittoria e sconfitta e vivi nella pace e nella gioia» (Dhammapada, XV, 5 [201]).
Sottolineò inoltre che la conquista di sé è più grande di quella degli altri: «Meglio vincere te stesso che vincere mille battaglie contro mille uomini» (ibid., VIII, 4 [103]). 
In un mondo devastato da conflitti e guerre, come leader religiosi, profondamente radicati nelle nostre rispettive dottrine religiose, abbiamo il dovere di suscitare nell’umanità la volontà di rinunciare alla violenza e di costruire una cultura di pace. 
[…] la Chiesa si impegna pienamente a promuovere una cultura dell’incontro, seguendo il suo Maestro e Fondatore il quale ha detto: “Amatevi come io vi ho amato” (cfr Gv 15,12). Rafforziamo la nostra amicizia per il bene di tutti.

Non bisogna guardare dall’altra parte se hai di fronte l’ingiustizia

Lascio questo editoriale di Michele Brambilla, pubblicato sul Resto del Carlino di mercoledì 16/03/2022, perché si collega con la tematica che stiamo affrontando a scuola. Perché la giornalista russa Marina Ovsyannikova ha interrotto il tg di Stato esibendo un cartello con scritto “No war, non credete alla propaganda, qui vi stanno ingannando”? Forse pensava che nel giro di poche ore una rivolta popolare o una congiura di palazzo avrebbe rovesciato Putin e fermato la guerra? O più semplicemente s’illudeva di cavarsela con una lettera di richiamo del direttore del personale? No, sapeva benissimo che il despota non sarebbe caduto. E sapeva benissimo a quali rischi (al di là della multa di trentamila rubli, che è fumo negli occhi) va ora incontro. Eppure, quel che ha fatto, l’ha fatto ugualmente, contro ogni speranza. Perché? Forse per lo stesso motivo per cui don Giovanni Fornasini, il parroco di Marzabotto ucciso dai nazisti a 29 anni il 13 ottobre del 1944, pedalò per chissà quanti chilometri per salvare la sua gente. Sapeva che non avrebbe potuto sconfiggere Hitler: ma quello che sentiva di fare, lo fece.
O forse Marina Ovsyannikova l’ha fatto per lo stesso motivo per cui il carabiniere Salvo D’Acquisto, il 23 settembre del 1943 alla periferia di Roma, confessò ai nazisti un attentato che non aveva commesso e si fece fucilare salvando la vita ai ventidue civili rastrellati per la rappresaglia. Aveva 23 anni e sapeva che il suo gesto non avrebbe cambiato le sorti della guerra. Ma lo fece.
O forse la giornalista russa ha fatto quello che ha fatto per lo stesso motivo per cui padre Massimiliano Kolbe, il 14 agosto del 1941, ad Auschwitz, si offrì di prendere il posto di un padre di famiglia destinato al bunker della fame. E morì a 47 anni.
O forse la Ovsyannikova ha pensato ai ragazzi della Rosa Bianca, decapitati nel 1943 su ordine di Goebbles per aver distribuito opuscoli e volantini contro la guerra di Hitler.
O forse ha pensato a quel cinese di cui neppure si conosce il nome – oltre che la sorte – che il 4 giugno 1989 si parò davanti ai carri armati del regime comunista cinese in piazza Tienanmen a Pechino.
Marina Ovsyannikova ci ricorda che esistono ancora donne e uomini capaci di un’eroica disobbedienza civile, e mostra – a chi sostiene che Zelens’kyj deve abdicare – ciò che più disturba i dittatori: l’esistenza di qualcuno che dice no. Il 20 luglio del 1944 l’ufficiale tedesco Claus Schenk von Stauffenberg cercò di uccidere Hitler per fermare la guerra. L’attentato fallì e lui fu fucilato alla schiena la sera stessa. Sua moglie Nina era incinta e partorì prigioniera della Gestapo. Nacque Konstanze, alla quale, molti anni dopo la fine della guerra, chiesero che cosa avesse imparato dalla storia di suo padre. Rispose: “Che non bisogna guardare dall’altra parte se hai di fronte l’ingiustizia”.

Nuovi stili di vita per salvare la Terra

 Per confermare che ci sono giovani che stanno modificando i loro stili di vita, affinché siano più compatibili con la difesa dell’ambiente, vi riporto alcuni stralci, adattati, da un articolo pubblicato su Avvenire del 2 ottobre 2021.

Emma studia biologia alla Bicocca e a chi le dice che i giovani non vogliono fare sacrifici risponde: «Sono disposta a rinunciare a tutto quello che serve e servirà e lo faccio ora perché non abbiamo più tempo». Te lo dice guardandoti negli occhi mentre con le mani tiene lo striscione che apre il corteo.

Lorenzo, 20 anni, studente e lavoratore: «Uso i trasporti pubblici e quando prendo la macchina cerco di farlo in condivisione con gli altri. E non fumo – aggiunge sorridendo –. Dunque niente mozziconi da smaltire». 

Maria Beatrice, 27 anni: «Ho cominciato a pensare a quello che compro per ogni ambiente della casa – spiega –. Sono partita dal bagno: eliminati tutti i prodotti con packaging di plastica». Maria Beatrice non nasconde le difficoltà di abbracciare uno stile di vita green: «La prima volta ho tentato di fare cambiamenti drastici, tutti insieme, ma non sono riuscita a portarli avanti, così mi sono demoralizzata e ho smesso. Non serve essere perfetti, ma iniziare da qualche parte». 

Walter , 24 anni, studente di lingue e culture per la comunicazione internazionale: «Io sono siciliano e arrivare a Milano mi ha aperto gli occhi, ho capito che si doveva e poteva fare di più». Nella sua quotidianità usa «filtri per l’acqua », evita la plastica e compra soprattutto «vestiti di seconda mano». «Salvare l’ambiente costa, però nel nostro piccolo qualcosa dobbiamo fare e quando non ci riusciamo possiamo sensibilizzare gli altri a farlo». 

Anna, 23 anni studentessa di relazioni internazionali, una volta iniziata l’università ha capito che «il problema è reale e vivendo a mie spese e non più dai miei, mi sono resa conto di quanta plastica produco». 

Rachele di anni ne ha 18, studia scienze politiche: «Sono qui perché un futuro io lo voglio. Ho capito che dovevo muovermi quando ho sentito parlare Greta per la prima volta e mi ha illuminata». Nessun dubbio nemmeno sul suo obiettivo per i prossimi anni: «Avere uno stile di vita sempre più green. Ora prendo i mezzi e non uso plastica, ma so che posso fare di più». 

Daniela, 22 anni, laureanda in comunicazione d’impresa: «Io e mia sorella usiamo spazzolini non in plastica ma in bambù, shampoo solido, creme e qualsiasi cosa dentro vasetti di vetro con tappo in alluminio». Cosa fare ancora? «Migliorare l’alimentazione e cercare di comprare sempre meno carne. Io sono una studentessa e ho poco tempo quindi quella già pronta al supermercato è comoda, ma voglio riuscire ad essere più attenta anche in questo ambito. È difficile, lo so, però si può provare». 

Laura, 29 anni, sta facendo un dottorato di ricerca in psicologia e neuroscienze, è vegana da 9 anni per una scelta etica: «Le emissioni e il disboscamento causate dall’industria dei prodotti animali sono più alte di quelle dei mezzi di trasporto», spiega. Compra vestiti usati, d’inverno si veste di più e accende meno il riscaldamento per non inquinare, fa molto attivismo. 

Michela e Elena hanno 13 anni, sono in terza media e nel loro piccolo hanno incominciato ad agire. «Faccio la raccolta differenziata, vado sempre a scuola a piedi e cerco di sprecare poca plastica e bere dal rubinetto», racconta Elena, che ha anche un rimprovero da fare: «Dagli adulti mi aspetto che facciano qualcosa anche se, con tutto il rispetto, non mi sembra lo stiamo facendo». Anche Michela è diretta: «Manifesto perché è un problema che riguarda la nostra generazione, non c’è più tempo, ho tredici anni e mi trovo questo peso, devo pensare a come vivere. Questa può essere una cosa che fa crescere, però è anche un po’ pesante». Sulla plastica ha le idee chiare: «Non compro mai, ma proprio mai, le bottiglie di plastica, uso sempre quelle di vetro o bevo l’acqua del rubinetto». 

Eliana, 29 anni fa l’insegnante, crede che i bambini siano i primi a dover essere sensibilizzati, e racconta nelle scuole cos’è il cambiamento climatico: «Siamo persone qualunque, ma ci impegniamo». Non crede nel “noi” e nel “loro”: «I problemi sono grandi e bisogna fare comunità, ascoltare tutti gli attori, cittadini e aziende – dice –. Non ci deve essere divisione, non ha senso, perché così non si costruisce nulla e invece noi abbiamo bisogno di costruire insieme qualcosa di buono».

 

Non c’è più tempo

Dovremmo svegliarci un po’ tutti. Non credo che la Terra possa aspettare ancora molto. 

A scuola, parlando dell’equilibrio a cui tendono tutti i sistemi, vi ho fatto notare che tanto più elevato è il disequilibrio, tanto più è potente è la reazione. La Terra sta gridando il suo disagio, ma anche i popoli lo stanno facendo, perché lo squilibrio ambientale è causa o conseguenza di uno squilibrio sociale che si sta facendo sempre più grave. I ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri e numerosi, perché stiamo assistendo allo scivolamento di tante persone, che fino a poco tempo fa vivevano una vita decorosa, verso la soglia della povertà. 
Dobbiamo svegliarci tutti, imparando ad essere, noi occidentali, più sobri nelle richieste che facciamo. Qualcuno, nel web, scriveva che i giovani che stanno manifestando per il clima sono la generazione cresciuta nelle comodità (aria condizionata, cellulari, motorini, consolle per i videogiochi, ecc…), per cui le loro proteste sono un po’ stucchevoli e contradditorie. Se così fosse, la colpa è di noi adulti che non abbiamo saputo educarli, tanto da non renderci conto che stavamo tirando su persone egoiste. 
Io non vorrei pensare così, anche perché le ragioni che stanno presentando questi ragazzi, pur nelle loro eventuali contraddizioni, sono vere. 
Dobbiamo rimboccarci le maniche tutti, perché l’inerzia sta facendo pagare un prezzo troppo alto a chi vive nella “parte sbagliata” del Mondo. 
Ascoltate con attenzione l’appello di Vanessa Nakate, ugandese, giovane attivista per il clima.

 

Un appello di pace

Dal 12 al 14 settembre a Bologna si è tenuto il G20 Interfaith Forum. 

Per tre giorni autorità religiose, intellettuali, accademici e politici si sono confrontati, in vista del G20 di ottobre, il vertice che vedrà riuniti a Roma i leader mondiali. 
Cosa hanno da dire le religioni al mondo? 
Eccovi alcuni punti che sono emersi da questo incontro:
– nessuna religione può mai accettare di essere utilizzata per la violenza e per la guerra
– l’attenzione all’altro è il vero modo per servire Dio
– bisogna inaugurare il tempo del prendersi cura gli uni degli altri, altrimenti la pace e la tolleranza, che sono valori universali, non potranno realizzarsi
– i Grandi della Terra si impegnino per «guarire il mondo» da guerra e ingiustizia.
Il cardinale Zuppi, arcivescovo di Bologna, ha sottolineato che in gesti piccoli ma concreti dobbiamo affermare quanto «la sofferenza di ciascuno ci riguardi». Ha continuato dicendo che «Non possiamo perdere la consapevolezza che tragicamente ci ha dato la pandemia. Non possiamo semplicemente metterla tra parentesi e dimenticarla. Dobbiamo cogliere questo tempo», «non arrivarci per contrarietà» (citazione da Eskimo, canzone di Francesco Guccini).
«Quante strade – ha domandato il cardinale, parafrasando la celebre Blowin’ in the wind di Bob Dylan – deve percorrere un uomo prima di essere chiamato uomo?». 
La pace, è stato sottolineato in questo Forum, deve essere un obiettivo da raggiungere giorno dopo giorno, con costanza, pazienza, passione. Dal Forum è partito un appello delle autorità religiose, strutturato in tre preposizioni:
– «noi non uccideremo» 
– «noi ci soccorreremo» 
– «noi ci perdoneremo ».
Essere e voler essere ‘fratelli tutti’ è il ‘punto di Archimede’, l’antidoto autentico contro quello che è stato definito il «riscaldamento globale del religioso» che assume i tratti dell’intolleranza e del fanatismo religioso.