I pontefici e l’immigrazione

Gli eventi di questi giorni ripropongono, nella loro drammaticità, il tema dell’accoglienza e della regolazione dei flussi dei disperati che cercano di attraccare nelle nostre coste. La Chiesa su questo tema si è impegnata da molto tempo e ha sviluppato una dottrina che mette al centro la persona e la sua dignità e la necessità di un concerto tra le nazioni affinché si perseveri nel bene comune, in spirito di fraternità.
Papa San Giovanni Paolo II 
Giovanni Paolo II riconobbe un diritto di migrare per salvare la propria vita e quella delle proprie famiglie dalle minacce quali la persecuzione, la fame e la guerra, e per provvedere a se stessi e alle proprie famiglie. Nell’enciclica del 1982 Laborem Exercens il papa ha affermato chiaramente che questo significa che a volte le persone devono lasciare la propria patria per cercare migliori opportunità.
In un’altra enciclica, la Sollicitudo Rei Socialis, il papa ha anche sottolineato che le restrizioni indebite sulle capacità delle persone di esercitare il loro diritto di iniziativa economica sono un terreno legittimo per cercare luoghi dove c’è maggiore libertà di attualizzare tale diritto.
Nello stesso tempo Giovanni Paolo II affermava che ogni essere umano ha «il diritto ad avere una propria patria, a dimorare liberamente nel proprio Paese, a convivere con la propria famiglia, a disporre dei beni necessari per una vita dignitosa, a conservare e sviluppare il proprio patrimonio etnico, culturale, linguistico, a professare pubblicamente la propria religione, ad essere riconosciuto e trattato in ogni circostanza in conformità alla propria dignità di essere umano».
Papa Benedetto XVI
Papa Benedetto XVI mostrava nel 2006 che, anche se i cattolici devono accogliere i migranti, devono anche lasciare alle “autorità responsabili della vita pubblica di stabilire in merito le leggi ritenute opportune per una sana convivenza” (Acton Institute).

E di nuovo Benedetto XVI nel 2013 (nel messaggio per la 99ma giornata del Migrante) ribadiva che: «ogni Stato ha il diritto di regolare i flussi migratori e di attuare politiche dettate dalle esigenze generali del bene comune, ma sempre assicurando il rispetto della dignità di ogni persona umana».
Il diritto della persona ad emigrare
Il diritto della persona ad emigrare – come ricorda la Costituzione conciliare Gaudium et spes al n. 65 – è iscritto tra i diritti umani fondamentali, con facoltà per ciascuno di stabilirsi dove crede più opportuno per una migliore realizzazione delle sue capacità e aspirazioni e dei suoi progetti.
Tuttavia è necessario ricordare che

nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra, ripetendo con il Beato Giovanni Paolo II che «diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione» (Discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni, 1998).
La dignità dei migranti
Molte migrazioni sono conseguenza di precarietà economica, di mancanza dei beni essenziali, di calamità naturali, di guerre e disordini sociali. Invece di un pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza, migrare diventa allora un «calvario» per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vicenda migratoria.
Per questo è doveroso non solo accogliere ma anche integrare i migranti affinché essi non perdano la loro dignità di figli di Dio.
L’integrazione
Molti migranti vivono in condizioni di marginalità e, talvolta, di sfruttamento e di privazione dei fondamentali diritti umani, oppure adottano comportamenti dannosi per la società in cui vivono. Il cammino di integrazione comprende diritti e doveri, attenzione e cura verso i migranti perché abbiano una vita decorosa, ma anche attenzione da parte dei migranti verso i valori che offre la società in cui si inseriscono.
Un punto fermo per i cattolici sono di nuovo le parole di san Giovanni Paolo II:
«I Paesi ricchi non possono disinteressarsi del problema migratorio e ancor meno chiudere le frontiere o inasprire le leggi, tanto più se lo scarto tra i Paesi ricchi e quelli poveri, dal quale le migrazioni sono originate, diventa sempre più grande».
La “prudenza” di Papa Francesco
Papa Francesco ribadisce in ogni occasione la necessità della “prudenza”, come ha fatto nel dicembre 2016 nel suo messaggio al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede.
«Un approccio prudente da parte delle autorità pubbliche non comporta l’attuazione di politiche di chiusura verso i migranti, ma implica valutare con saggezza e lungimiranza fino a che punto il proprio Paese è in grado, senza ledere il bene comune dei cittadini, di offrire una vita decorosa ai migranti, specialmente a coloro che hanno effettivo bisogno di protezione».
Citando Papa Giovanni XIII, sostiene che occorre garantire che i popoli che accolgono i migranti non «sentano minacciata la propria sicurezza, la propria identità culturale e i propri equilibri politico-sociali. D’altra parte, gli stessi migranti non devono dimenticare che hanno il dovere di rispettare le leggi, la cultura e le tradizioni dei Paesi in cui sono accolti».
Da Giovanni XXIII a Francesco il pensiero della Chiesa quindi non né cinico né “buonista”: è evangelico.
Quale strada?
Come diceva papa Paolo VI, nella conclusione dell’enciclica Popolorum Progressio «lo sviluppo è il nuovo nome della pace» (n.76). Infatti la pace non può ridursi alla sola assenza di guerra.

Lo sviluppo che garantisce la pace si realizza nel coniugare sapientemente (con la sapienza di Dio) il comandamento che Dio dà al Popolo di Israele dopo la consegna delle Tavole della Legge: «Amate dunque lo straniero, perché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto (Deuteronomio 10, 19)».
E’ chiaro che chi guida una nazione ha degli obblighi verso di essa e verso chi si è affidato a lui per la propria sicurezza e il proprio benessere. Nessuno è chiamato a rovinarsi per il prossimo, ma nessuno è esentato dallo stendere la mano verso il povero se vuole dirsi cristiano. Oltre ai mezzi ci vuole fraternità, voglia di condividere la vita e di riconoscere nel prossimo un fratello.
Sarebbe dunque cosa buona impegnare risorse e buona volontà perché i paesi in difficoltà possano trovare una via per un loro armonico sviluppo in modo da evitare che la povertà e il bisogno obblighi chi li abita a dover fuggire.
Ma questo richiede di abbandonare gli egoismi personali e nazionali, di avere a cuore il bene comune. Una conversione del cuore, insomma.
Adattato da
Cosa pensano i pontefici sull’immigrazione? di Lucandrea Massaro, in aleteia.org, 12 Giugno 2018

Abitare il mondo, ovvero trovare il senso

«Tutto ha senso, anche questo sassetto. E se sapessi quale, sarei il Padre Eterno. Ma se questo sassetto è inutile, allora tutto è inutile… Anche le stelle».
Così dice il Matto a Gelsomina in una dolceamara scena della Strada di Fellini, in cui la donna si lamenta del fatto che la sua vita non serve a nulla. Il Matto, gentile acrobata ambulante, ha la capacità di trovare il sublime nel quotidiano, per questo non perde mai il buon umore e le dà speranza.
Un’arte che richiede non poco impegno: molto più comodo il lamento (di cui spesso noi Italiani siamo campioni) che rende sterile il potere creativo dell’indignazione. La pigrizia usa spesso la maschera del pessimismo, disinnesca la rivolta e consente di rimanere inerti di fronte al male. Rivoluzionario è invece fronteggiare il male e rimanere di buon umore, perché solo così possiamo combatterlo e scorgere, anche se con impegno e pazienza maggiori, il vero brillare delle cose e delle persone. Certo è difficile scovare la bellezza sottile, offuscata dalla fatica dei giorni, ma se non impariamo a trovare la nostra «casa» ci sentiremo inutili e in esilio.
Abitare viene dal latino avere (habeo), ma nella forma frequentativa, quindi abitare è «continuare ad avere»: è qualcosa che rimane anche quando tutto attorno si muove e si perde. In un’epoca in cui tutto sembra precario, imparare ad abitare, a fare casa dentro e fuori di sé, è essenziale per essere felici. Come? Io «abito», possiedo me stesso e il mondo, quando leggo l’Odissea, quando preparo una lezione con cura e vedo i miei ragazzi gioire, quando ascolto una sonata di Beethoven, che è sempre lì qualsiasi cosa accada, quando sostengo un amico piegato dal dolore o creo con lui un progetto ambizioso, quando riesco a scrivere righe eleganti e veritiere…
Solo la coltivazione della vita interiore trasforma qualsiasi caos in casa. Per questo mi stupisce la lentezza con cui troviamo la bellezza «minuta», che sta appunto nei singoli minuti e rende il mondo casa. Il mio compito di insegnante e narratore è, come quello del Matto, rendere percepibile questa bellezza, perché l’unico modo per essere felici è abitare, ovunque.

Prendo in prestito queste parole di Alessandro D’Avenia  per augurare a voi, “miei” studenti del Liceo, di imparare ad “abitare” il mondo, a trovare il senso del vostro essere qui, ora.
Abbiate a cuore la vostra vita interiore che, come dice lo scrittore D’Avenia, trasforma qualunque caos in casa permettendoci di trovare il senso…..anche di un sassolino.
Buone vacanze, ragazzi!