I padri e le madri che hanno sconfitto l’odio

di Andrea Avveduto in Avvenire del 26 luglio 2014

Una madre israeliana scrive una lettera ai genitori di un giovane palestinese appena arrestato, messo in carcere perché solo pochi mesi prima aveva ucci­so suo figlio David, di 28 anni. «Do­po che vostro figlio è stato arresta­to – scrive Robi Damelin – ho tra­scorso diverse notti insonni chie­dendomi cosa fare: far finta di nul­la o cercare di trovare una strada per chiudere il cerchio? E poi ho de­ciso di cercare la via della riconci­liazione ». La lettera di Robi venne pubblicata su Haaretz, il giorno di Yom Kippur, con il titolo: «Io l’ho perdonato». Quella donna coraggiosa aveva in­carnato nella lettera lo spirito di Pa­rent’s Circle, un’associazione nata esclusivamente dal desiderio di in­centivare il dialogo tra israeliani e palestinesi. «Noi, che abbiamo per­so i nostri figli nella guerra fra i due popoli, sosteniamo la pace. Noi, madri e padri, vogliamo arrivare a un accordo fra i due popoli, perché non accada più a nessuno quanto è successo ai nostri figli». Erano so­lo dieci nei primi anni Novanta, quando è nata l’associazione. Og­gi sono più di seicento. Ogni gior­no girano per le scuole, racconta­no le loro storie di sofferenza, co­me quella di Robi e di suo marito, e soprattutto raccontano perché hanno scelto di perdonare. Storie che toccano i cuori. Come quella di Yitzhak Frankenthal , ebreo os­servante e padre di cinque figli. Nel 1994 suo figlio Arik stava prestan­do il servizio di leva, quando un commando di Hamas lo sequestrò e lo uccise. Scartata l’idea di chie­dere vendetta, il padre scrisse una lettera a Yitzhak Rabin, il primo mi­nistro di allora, per chiedergli di raggiungere un accordo con i pale­stinesi. «La morte di mio figlio è av­venuta – scrisse al leader della K­nesset – perché non avete ancora preso la decisione seria di fare la pace con i palestinesi». Il tono di questa lettera fu così commovente che Rabin – candidato al Nobel per la pace – chiese a Frankenthal di accompagnarlo a Oslo per assiste­re alla cerimonia di conferimento del premio. Nel corso degli anni le iniziative na­te all’interno dell’Associazione si sono moltiplicate. «Way to reco­very » è una delle ultime, nata per ri­solvere il problema degli sposta­menti sanitari. Perché può capita­re che un paziente palestinese ri­ceva il permesso per curarsi in un ospedale israeliano, soprattutto quando le tecnologie palestinesi non permettono di affrontare ade­guatamente il caso. Il problema è raggiungere l’ospedale. Le ambu­lanze dell’Autorità non possono in nessun caso varcare il checkpoint israeliano, ed è necessario che macchine con la targa gialla (israe­liana) entrino nei territori per pren­dere il paziente e trasferirlo a Tel A­viv, Haifa o Gerusalemme. Per que­sto si è attivata subito una rete di volontari che ha messo a disposi­zione macchine e pulmini. Una spola umanitaria, che «prepara il terreno per costruire un rapporto più stretto tra i nostri due popoli», come dice Yuval Roth. «Dobbiamo partire dai gesti concreti per dimo­strare che è possibile». Come acca­de nelle ambulanze gialle in giro per il Paese, dove le “donazioni in­crociate” non guardano letteral­mente in faccia a nessuno. Sangue palestinese per le vene israeliane e viceversa. In questi giorni di vio­lenza le donazioni si sono intensi­ficate, perché «con tutto il sangue che viene sparso, bisogna gridare al mondo che è più giusto donar­lo ». Non importa se sono israeliani o palestinesi. Lo ha fatto scrivere an­che Robi, sulla tomba di suo figlio David: «La terra è il mio luogo di nascita e tutti gli uomini sono miei fratelli». Lei che è «ebrea e israelia­na. Ma prima di tutto un essere u­mano ».

Sul perdono

Per risanare le ferite profonde delle relazioni primarie della nostra vita (la fraternità ), c’è un bisogno vitale di tempo. Non ci riconciliamo veramente se non permettiamo che il dolore­amore penetri fino alle midolla della relazione malata, venga assorbito e, lentamente, la curi. E servono soprattutto azioni, che dicano con il linguaggio del comportamento che vogliamo, veramente, ricominciare. […]Dopo un tradimento coniugale, un grande inganno di un fratello o del mio socio, le parole ‘perdonami’, ‘scusa’ non bastano. Sono necessarie, ma non sono sufficienti: occorrono fatti, comportamenti, espiazioni, penitenze. Non si tratta di vendetta né di ritorsione, ma del loro opposto: è tutto amore.
Se hai tradito intenzionalmente il nostro patto matrimoniale, se vogliamo veramente reinvestire nella nostra famiglia e ricominciare, non bastano le parole, né un regalo, né una cena. Occorre che tu mi dimostri con degli atti ‘costosi’ e inequivocabili che vuoi davvero ricominciare, che vuoi veramente credere di nuovo nel nostro rapporto, che vuoi che saniamo insieme quella ferita che hai procurato al nostro rapporto. Il perdono biblico è il per-dono che fa risorgere, non è un ‘dimenticare’ il passato, ma un ricordare doloroso per ricostruire un nuovo futuro. È perdono teso alla riconciliazione.
Ogni famiglia, ogni fraternità, ogni comunità, sa quali sono le azioni concrete necessarie, ma senza questi atti la riconciliazione non c’è, o è troppo fragile. I rapporti sono realtà ‘incarnate’, non sono solo sentimenti o buone intenzioni. I nostri rapporti sono dei ‘terzi’ che stanno di fronte a noi, sono vivi con noi e come noi. Come i nostri figli, prendono le nostre ‘carni’, e quando un rapporto è negato o tradito sono le sue carni che vengono ferite, e sono questi carni che devono essere, con tempo e azioni, sanate. Questo è un grande insegnamento dell’umanesimo biblico, che ci svela la logica del sacramento della penitenza (non si capisce nessun ‘sacramento’ senza avere un’idea ‘incarnata’ dei rapporti e della vita), e che ha consentito che un giorno un rapporto (lo Spirito) potesse essere chiamato Persona.

Tratto da L Bruni, La fraternità non si compra, in Avvenire del 13 luglio 2014

Se vince l’odio

«Un bambino che ha visto distruggere la sua casa e ha assistito all’uccisione del padre porterà dentro tutta la vita odio e risentimento, è necessario che qualcuno l’accompagni, si faccia carico della sua sete di vendetta. Quando si fa festa per la morte di un uomo perché nemico, quando si disprezza e si umilia l’altro fino a togliergli la dignità, quando non sappiamo far silenzio e piangere di fronte alla barbarie dell’uccisione di adolescenti semplicemente perché nati aldilà di un confine, significa che l’odio ha ucciso la coscienza. Da lì dobbiamo ripartire se vogliamo una pace duratura,che non sia solo tregua temporanea. Ripartire dall’educarci a vedere nell’altro non un nemico, ma un uomo, un figlio di Dio, un fratello scomodo e difficile la cui dignità umana non va calpestata per nessuna  ragione».
Ernesto Olivero intervistato da Paolo Lambruschi, in Avvenire del 22 luglio 2014

La follia della guerra in Terra santa

«In Terra Santa la follia della guerra non si è mai fermata. Il clima di sospetto e paura, i sentimenti di vendetta con cui crescono i bambini e i ragazzi israeliani e palestinesi sono armi pronte a esplodere. […] Occorre capire le ragioni di entrambi e riconoscere il diritto dei due popoli ad abitare una terra propria, ma devono imparare a riconoscere oltre che i reciproci diritti la comune sofferenza perché non ci può essere pace dove si calpesta la dignità umana. A Madaba, in Giordania, all’Arsenale
dell’Incontro, accogliamo piccoli disabili e quando i bambini danzano, giocano e cantano non capisci chi è cristiano o musulmano. La disponibilità a incontrarci, chinandoci insieme sulle fatiche degli altri ha permesso a compassione e solidarietà di vincere diffidenza e odio. Allora chiedo che capi saggi guardino all’esempio dei piccoli e si siedano a un tavolo con apertura di cuore e di mente a dialogare. Oggi più che mai servono persone autorevoli e buone che, come papa Francesco, siano capaci di indicare una strada e di percorrerla con coraggio, consapevoli che dove il bene si fa strada, il male si accanisce con tutta la sua violenza».
Ernesto Olivero intervistato da Paolo Lambruschi, in Avvenire del 22 luglio 2014

Vi lascio anche un video che ripercorre le tragedie vissute da questa terra, con una guida, fornita dalla stessa autrice del video, che ci aiuta a capire chi sono i popoli che si sono scontrati rivendicando il possesso della Palestina e dove porterà questo odio senza fine. Cliccate qui.

Per-corsi di religione: proposta per la costruzione di unità di lavoro per l’irc

Per fare memoria di un anno di scuola, ho raccolto le unità di lavoro realizzate in questo anno scolastico in una pubblicazione.
Dopo aver sistemato il tutto in un file pdf l’ho pubblicato con joomag.
Spero che questo lavoro possa essere di qualche utilità per i colleghi che invito a segnalarmi le criticità, perché ciò che mi ha ispirato a realizzare questo lavoro non è il desiderio di fare la prima della classe, ma quello di sperimentare e condividere per poter crescere e migliorare professionalmente. Cliccando sull’immagine si aprirà la consultazione del “libro”.
 

Per-corsi di religione.pdf

Religione vuol dire relazione

Religione vuole dire relazione.
Quando lo dico, gli studenti si sorprendono, non se l’aspettano, pensano che religio, significhi ‘re­gola’, che la religione sia questo: u­na rete di regole, convenzioni, ob­bligazioni, qualcosa di pesante, di insopportabile. Anche quelli che ignorano il latino e l’etimologia sono convinti che la re­ligione sia fondamentalmente una gabbia, una costrizione, un codice fatto per lo più di doveri, senza dirit­ti e pieno di molti cavilli antiquati.
Ed invece io ricordo a tutti che religio viene da res-ligare, un verbo che cer­ca di descrivere quel fenomeno, che l’uomo coglie con stupore e trepida­zione, per cui tutte le cose sono col­legate, connesse una con l’altra. La vita stessa è relazione, proviene dalla relazione e alla relazione tende. Qui è facile spiegare: la nostra nasci­ta scaturisce dalla relazione dei nostri genitori, e il figlio è così strettamen­te collegato alla madre da essere ‘le­gato’ a lei da una ‘corda’, il cordone ombelicale. Un legame che si rom­perà definitivamente solo quando verrà sostituita da un’altra relazione, quella amorosa.
E qui c’è un’altra bellissima parola per dire relazione: storia. Ecco cos’è la religione che scaturisce dalla Bib­bia, una storia, una storia d’amore e quindi di salvezza. O l’esistenza u­mana è una storia oppure è mera vi­ta biologica, ma per essere storia de­ve esserci relazione, quella cosa che ci sostiene ogni giorno sino alla fine.
Eppure, oggi, questa parola, non è perduta, ma sfuggente: per alcuni si­nonimo di relazione è ‘resoconto’, per altri il significato giusto è ‘rap­porto’, è però faticoso fare uscire quell’altra parolina, ‘legame’, a con­ferma della ‘liquidità’ della nostra società contemporanea, dove a es­sersi liquefatti sono innanzitutto i le­gami tra gli esseri umani.
Mi faccio allora aiutare da un con­temporaneo cantautore romano, an­che se è già ‘vecchio’ per i miei stu­denti nati nel terzo millennio, Lo­renzo Cherubini in arte Jovanotti. Non ricordo più come andò la prima volta, ma durante una lezione in­centrata sul res-ligare è venuto qua­si spontaneo citare il ritornello del­la canzone Mi fido di te, che dice: «…forse fa male, eppure mi va,/ di stare collegato, di vivere d’un fiato/ di stendermi sopra al burrone/ di guardare giù/ la vertigine non è/ paura di cadere/ ma voglia di vola­re. /Mi fido di te/ cosa sei disposto a perdere?».
Stare collegato può far male, ma è ciò che l’uomo desidera più di ogni altra cosa, per vivere intensamente (d’un fiato); essere legati gli uni agli altri è ciò che rende umani perché la rela­zione è un rischio vertiginoso, che comporta sempre ingenti costi (cosa sei disposto a perdere?) ma risponde al bisogno più antico inscritto nel cuore dell’uomo.

Andrea Monda in Avvenire del 9 luglio 2014 (Relazione e storia, a volte serve anche Jovanotti)

La nostra società, i sogni, gli interpreti

Le carestie sono molte e diverse.
Il nostro tempo sta attraversando la più grande carestia di sogni che la storia umana abbia conosciuto. La carestia di sogni prodotta da questo capitalismo individualistico e solitario è una forma molto grave di indigenza, perché mentre la mancanza di pane non estingue la fame, se ci priviamo dei sogni finiamo per non accorgerci più della loro assenza; ci abituiamo a un mondo impoverito di desideri sempre più soffocati dalle merci, e presto diventiamo talmente poveri da non riuscire ad accorgerci di questa povertà.
Come è possibile sognare angeli, il paradiso, i grandi fiumi d’Egitto quando ci addormentiamo di fronte alla tv accesa? Per i sogni grandi occorre addormentarsi con una preghiera sulle labbra, o svegliarsi con un libro di poesie aperto sopra il petto, che ha vegliato sul nostro sonno.
Il giovane Giuseppe si ritrovò innocente in una prigione, rigettato di nuovo in fondo a un «pozzo» (Genesi 40,15). Quella prigione divenne, però, anche il luogo della piena fioritura della sua vocazione, quella annunciatagli dai sogni profetici di ragazzo. Quei primi sogni lo avevano fatto arrivare schiavo in Egitto; i sogni che interpreterà nella terra del Nilo saranno la strada che consentirà ai suoi grandi sogni giovanili di avverarsi, e di ritrovare i suoi fratelli-venditori e suo padre.
È in un carcere dove inizia una nuova fase della vita di Giuseppe, quella decisiva per sé e per il suo popolo (non è raro che un ‘carcere’ diventi il luogo di inizio di una vita nuova). In quel «pozzo», da raccontatore dei suoi sogni Giuseppe diventa interprete dei sogni degli altri.
Quand’era ragazzo narrava i suoi sogni, ma non li interpretava. Il dolore per essere stato odiato e venduto dai fratelli, la servitù e poi il carcere, lo avevano maturato e gli avevano rivelato se stesso. E nel crogiuolo delle sofferenze e delle ingiustizie scoprì la sua vocazione, divenne servitore dei sogni degli altri. […]
Il valore morale di un interprete di sogni si misura dalla sua onestà, cioè dalla capacità e dal coraggio di dirci anche le interpretazioni che non vorremmo sentire. Sono troppi, ieri e oggi, gli interpreti ruffiani che ci dicono soltanto le interpretazioni che ci piace sentire. A volta le interpretazioni sbagliate possono provenire anche da interpreti onesti, che però non hanno abbastanza coraggio e amore – anche se il carisma dell’interpretazione dei sogni si spegne se non lo si custodisce nella sofferenza delle interpretazioni difficili. Ho conosciuto giovani ai quali è stata resa la vita molto difficile, a volte guastata, da cattivi interpreti dei loro sogni, che di fronte ad evidenti segni di vocazione diversa da quella che quel giovane pensava di avere, non hanno avuto né l’onestà né il coraggio della interpretazione vera; e così invece di prendere su di loro il dolore per quella verità costosa, hanno manipolato i sogni e alimentato in quei giovani illusioni, delusioni, frustrazioni, infelicità. Fidarsi di un manipolatore di sogni è più dannoso della morte del sogno per mancanza di interpreti. […]

Giuseppe interpreta il sogno del Faraone, c. 1645

 

La nostra società abbonda di consulenti for-profit, è sempre più inondata da maghi e da oroscopi, ma ci mancano troppo i buoni interpreti di sogni – e quei pochi che ci sono non vengono né cercati né ascoltati, e così rischiano di estinguersi per mancanza di domanda. […]
Le carestie da vacche magre passano. Queste carestie, prima o poi, finiscono naturalmente, anche se a volte con grandi costi. Le carestie di sogni, invece, non terminano da sole. Finiscono soltanto se, a un certo preciso punto, decidiamo di reimparare a sognare. Non è impossibile. Lo abbiamo saputo fare dopo miserie infinite e indicibili: dopo le guerre e le dittature, dopo i fratricidi, dopo le morti dei bambini. Abbiamo voluto, insieme, ricominciare a sognare. Abbiamo così ascoltato i poeti, i santi, gli artisti, che hanno saputo interpretare i nostri nuovi sogni. Abbiamo pregato e pianto insieme, recitato le loro-nostre poesie, cantato le loro-nostre canzoni. Le persone e i popoli rinascono e risorgono veramente soltanto così. «Il faraone si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe; lo fece rivestire di abiti di lino finissimo e gli mise al collo un monile d’oro» (Gen 41,42).

Tratto da Luigino Bruni in Avvenire del 6/07/2014 (Gli occhi onesti del profeta)

Impara dagli errori degli altri

La droga fa male. Leggera o pesante che sia.
Non ci si può scherzare sopra; non ci si può neanche illudere di tenerla sotto controllo.
Non è mia intenzione fare del terrorismo becero, però le immagini che seguono fanno veramente una brutta impressione. Gli effetti delle droghe non sono per niente “stupefacenti”, ma terrificanti.
Le immagini che seguono sono tratte dalla la campagna shock di Rehab, guida online per i centri di riabilitazione. In esse è raccontata la trasformazione fisica procurata dalle droghe, anche solo sei mesi dopo la loro assunzione.
Il progetto della campagna nasce nel 2004 dall’esperienza di un vice sceriffo dell’Oregon, negli Stati Uniti, che dopo aver arrestato svariate volte lo stesso tossicodipendente cominciò a notare quanto il viso si deteriorasse nel corso del tempo. Il poliziotto ha iniziato a documentare le immagini con il desiderio di educare i ragazzi sulla realtà della droga.

Impara dagli errori degli altri: non puoi vivere così a lungo da farli tutti da te“, è la citazione di Eleanor Roosevelt fatta propria da questa campagna contro le droghe.

Basta così poco!

A volte basta poco per far sentire agli altri la nostra vicinanza e il nostro sostegno.
Così gli infermieri di un reparto di un ospedale, per incoraggiare una paziente che sta per sottoporsi ad una operazione di mastectomia per tumore al seno, ballano con lei tra le corsie dell’ospedale.