Tempo che divora o tempo che vola?

La parola tempo viene probabilmente da una radice che indicava «tagliare», così come per analogia alcune misure di tempo vengono dal verbo latino «secare» (tagliare): secondo e secolo. Coerentemente le lancette (diminutivo di lancia) cominciarono a tagliare il silenzio per ricordarci che moriremo.
Nella Genesi le lancette non erano però così cruente: «Dio disse: “Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra”. Dio fece la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. E Dio vide che era cosa buona». 
Nella cultura giudaico-cristiana lo scorrere del tempo è perciò il regolare trascorrere della luce sulle cose, non la violenta lotta del mito greco. In quest’ottica il tempo/luce potrebbe forse riconciliarci con l’incalzante tic tac delle lancette: se ogni rintocco sprigionasse luce, il tempo ci sarebbe meno nemico. La frattura tra luce e tempo è una ferita aperta nel corpo dell’uomo di oggi. Il consumismo frantuma l’esperienza del tempo come alternanza del giorno e della notte: le luci artificiali divorano il sonno. I primi a pagarne le conseguenze sono i ragazzi (da quando esistono gli smartphone, dormono in media un’ora in meno con conseguenze negative sulla loro salute psicofisica). 
Il sonno è vita, non un carica-batterie, né, ancora peggio, una malattia, a cui presto la chimica risponderà diminuendone le ore, per averne di più per «fare» e «consumare». Dopare il tempo è un’illusione tossica. 

Ogni volta che l’uomo si allontana dal ticchettare di luce e buio, Cronos torna a divorare i suoi figli. Espressioni come «ottimizzare» ci illudono di esser noi a misurare il tempo e non lui a misurare noi, così ci abbandoniamo all’umanissimo miraggio di «guadagnarlo» accelerando o aumentando le attività. Definire il tempo in termini di «denaro», «spreco», «perdita» tradisce il fatto che oggi pensiamo di fermarlo con la «produzione». In realtà ciò che è sprecato e perso è l’io: chi sa chi è e che senso ha la sua vita, trova il suo tempo, anche se ne sperimenta la scarsezza. Non sente la necessità di doverlo aumentare e accelerare, ma lo accoglie grazie all’esperienza della «durata». 
Viviamo in modo frenetico non perché ci manca tempo, ma perché ci manca senso: i clacson suonano allo scattare del verde, il passo veloce aggredisce la strada, come se da quei secondi dipendesse la salvezza. 
L’unico modo per non essere «tagliati» dalle lancette è sostare, che non è in-trattenersi, passare il tempo, ma in-dugiare, fare esperienza della durata: abitare il tempo. 
«Abitare» è la forma frequentativa del latino «habere» (avere): chi abita «continua ad avere», è padrone, non servo. Non ha tempo chi non lo abita. Ma come si può indugiare in un mondo frenetico? 
Il tempo acquisisce valore, non in base a ciò che facciamo, ma se siamo interiormente «servi» o «liberi» nel fare le cose. Per me preparare e offrire una lezione su Dante diventa tempo libero: faccio esperienza della durata, quelle ore aprono il tempo, lo vincono perché sono vive e piene di senso. L’«istante» diventa «stare in», indugiare e soggiornare, luminosa durata, e non ripetizione da cui fuggire. Qualsiasi cosa facciamo richiede tempo, e quel tempo è libero o servo in base al senso che gli diamo. 
Il tempo lo si vince «contemplando», cioè quando si ripara la separazione di corpo e spirito. L’azione senza contemplazione diventa schiavitù: non occupa, pre-occupa. Con-templare ha la stessa radice di tempo: significava osservare un ritaglio di cielo, da cui la parola «tempio» (recinto sacro). Se il tempo non è un limite che apre sull’infinito, ci dilania: la trasformazione della domenica, da giorno di relazioni a giorno di acquisti, è una vera e propria vivi-sezione. 
Luce e buio sono lancette per amare. Si guadagna tempo solo amando, perché amare rende il tempo «durata». Accade quando il (ri-)taglio di tempo che ci è assegnato, decidiamo «liberamente» di impegnarlo per qualcosa o qualcuno che ci fa uscire fuori da noi stessi (il tempo libero è quello «liberato per» non semplicemente «da»). 
Solo quando ci diamo anima e corpo, lo scorrere del tempo rallenta, anche se siamo impegnatissimi, perché a segnarlo non è il passo misurabile dagli orologi: il susseguirsi orizzontale dei secondi. L’amore apre la dimensione verticale del tempo, non misurabile, perché è durata: un secondo si dilata e diventa un secolo. Verticale è il tempo dell’artista impegnato nell’opera, verticale è il tempo della madre in attesa, verticale è il tempo delle relazioni vere, verticale è il tempo della preghiera, verticale è il tempo del lavoro appassionato, verticale è il tempo delle foglie più belle prima di cadere, verticale è il tempo delle carezze, verticale è il tempo del perdono, verticale è il tempo dato a un figlio o a un alunno anziché al cellulare…
Il tempo verticale non divora, ma vola: indugiando se ne perde il senso dello scorrere proprio perché se ne vive profondamente il senso dello scorrere, anima e corpo uniti. Diventa nostro, non ci può essere più strappato. 
Il tempo c’è, siamo noi a scegliere per chi è. Il tempo è taglio che, per chi sa abitarlo, diventa tempio, invece resta tomba, pancia di Cronos, per chi lo subisce. Se diamo tempo, cioè senso, al tempo, ci stupiremo di quanta luce può sprigionare ogni ora, il tic tac segnerà il ritmo di ciò che dà vita non di ciò che la toglie, come accade alla scrittrice nel suo studio, perché il tempo, per chi lo abita, cioè per chi ama, non passa: dura.

Liberamente tratto da Alessandro D’Avenia nella Rubrica “Letti da rifare” del Corriere della sera del 3 dicembre 2018 (testo integrale cliccando qui)

Il gran lavoratore e il pozzo

Si narra di un uomo conosciuto come un gran lavoratore. Il suo senso del dovere, la sua capacità di sopportare il pesante lavoro, la sua perseveranza nelle difficoltà, ne avevano fatto una leggenda, tanto che il governatore del paese in cui l’uomo abitava, lo additava a tutti come esempio di efficienza e produttività. L’uomo era proprietario di un grande campo, che grazie al suo zelo divenne molto fertile, nonostante in esso mancasse l’acqua per irrigare. Nel campo non vi era un pozzo e la sorgente più vicina si trovana piuttosto lontana, così la maggior parte del lavoro quotidiano consisteva nel procurarsi l’acqua.
 
Ogni mattino, al sorgere del sole, questo uomo infaticabile si incamminva verso la sorgente con le sue taniche e, andando avanti e indietro tutta la giornata, riusciva a portare nel suo campo l’acqua sufficiente soltanto al tramonto. Certamente egli riusciva a far fruttare il suo campo, ma si trattava di una situazione davvero pesante da sopportare, perché quasi tutta la sua giornata era impiegata solo per procurarsi l’acqua. Gli amici che lo incontravano non riuscivano mai a instaurare un dialogo con lui, non solo perché egli non aveva mai tempo, ma anche perché il suo volto era sempre triste e abbattuto. Un giorno, accorgendosi di essere giunto quasi allo stremo delle forze, consigliato dagli amici decise di scavare un pozzo nel suo campo; dopo mesi di fatica, l’uomo riuscì a terminarlo, ricavandone tanta acqua preziosa. Da quel giorno nessuno lo vide più andare avanti e indietro; anzi, lo si vedeva seduto accanto al pozzo con il volto radioso e sereno, circondato dai suoi amici con i quali dialogava felice, mentre essi guardavano a quella risorsa d’acqua.
Un vicino, incuriosito, una mattina si avvicinò all’uomo e gli chiese informazioni a riguardo del pozzo e di quella insolita gioia di vivere attorno ad esso. Il buon lavoratore rispose senza esitare: «Ho scavato un pozzo profondo e, con mia grande sorpresa, ho trovato un uomo!».
A questa risposta il vicino rimase confuso e intimorito: non osò guardare nel pozzo, ma corse a riferire alle persone del villaggio più vicino quanto aveva appreso, così che tutti, in breve tempo, incominciarono a trarre le più disparate conclusioni a riguardo di questa strana vicenda.
Tutti dicevano: «Chi sarà mai quell’uomo ritrovato in fondo al pozzo?». Anche al governatore giunse la notizia, così mandò dei suoi subalterni dal gran lavoratore per avere più informazioni su quanto ormai tutti narravano di lui.
Quando egli li ebbe ascoltati, rispose così alle loro domande: «Sino a poco tempo fa passavo tutte le mie giornate camminando avanti e indoetro per portare l’acqua nel mio campo. Ma ora ho capito: chi troppo lavora non ha tempo per essere uomo! Tutto il mio tempo era solo per il lavoro. Il mio campo viveva grazie a me, ma io, come uomo, avevo smesso di vivere. Oggi che ho un pozzo tutto mio, ho ritrovato me stesso, ho riiniziato a vivere, ho trovato l’uomo che sono chiamato ad essere. Ho scavato un pozzo, ma ritrovando me stesso ho capito che il tempo ci è donato per vivere; e anche ho capito che la vita non ci è stata donata per riempire il tempo ma per ritrovare noi stessi nello scorrere del tempo!
Tratto da: 
D. Cogoni, Nella comunione della Santa Trinità, Cittadella Editrice 2023, pp. 13-15


Chi si prende cura di me?


Quando Franco Battiato canta La cura […] si rivolge innanzitutto alla propria anima, da anemos, vento, il soffio che rende «viventi» tutti gli esseri «animati», ma che in noi uomini è qualcosa di più. 
A noi non basta essere viventi, noi vogliamo essere vivi.
Se i viventi hanno il fiato, noi abbiamo il respiro, che è quel di più: in italiano è lo spirito o spiro, da cui vengono parole come respiro, ispirazione, spirare… che racchiudono il senso della vita «animata» e non solo «animale». Ma mentre negli animali accade, noi possiamo aumentare questo soffio, tanto da riuscire, come dice il cantautore siciliano, a non soccombere a: paure, turbamenti, ingiustizie, inganni, fallimenti, dolori, sbalzi d’umore, ossessioni, malattie. 

Ma qual è il segreto di questa cura di sé? 
Che cosa ci guarisce veramente dalla paura del nulla, dal vuoto di senso che cerchiamo di riempire senza riuscirci? 
[…] Chi può farmi sentire e dire «Amato sulla Terra», quasi fosse il mio vero nome? Può riuscirci un uomo o una donna? Posso riuscirci io? O ci vuole un’altra Cura? 
Non è moralismo La Cura è l’origine dell’umano nell’uomo

Lo racconta un mito creato da Platone. Quando il dio Chronos (Tempo) che pro-curava tutto ai viventi dovette ritirarsi dalla vicenda umana a causa dell’inversione del corso del cosmo, gli uomini furono lasciati a se stessi e dovettero «prendersi cura di sé da se stessi». 
Quando viene affidato a ciascuno (non siamo più del Tempo ma abbiamo del tempo) il tempo umano prende il nome di cura. 

Nella narrazione cristiana addirittura l’Eterno si fa Tempo (carne) e si affida alle cure di una madre, di un padre e di un villaggio: anche Dio se entra nella storia umana ha bisogno di cura, e poi diventerà lui stesso uno che cura. 
Essere «di» e «a» tempo significa «essere per la cura». 
Non è un moralismo ma il modo umano di diventare vivi: noi non ci prendiamo cura degli altri perché li amiamo, bensì impariamo ad amarli se ci prendiamo cura di loro
[…]L’amore allora non è qualcosa di spontaneo o naturale, un sostantivo, ma un impegno per rendere la vita dell’altro più compiuta, un verbo. E non lo faccio per filantropia, ma perché mi conviene: chi cura si cura, che è come dire chi dà tempo riceve tempo. 

Non è un caso che il tatto, senso della cura, sia l’unico il cui mezzo è il senso stesso: la vista vuole la luce, il suono lo spazio, il tatto ha bisogno del… tatto. Io toccando sono toccato, curando sono curato. Avere «tatto» (cura) per la carne del mondo, dà origine all’amore di cui abbiamo bisogno per poterci dire Ama(n)ti sulla Terra. E la cura è il dono del tempo limitato che ho, io sono tempo fatto carne: curare è dare la carne, tras-curare è toglierla. 
[…] L’inferno più profondo è fatto di uomini che mangiano altri uomini e il Satana di Dante ha tre bocche con cui divora costantemente tre dannati. 

Noi, tempo finito che attraverso la cura diventa amore, spesso preferiamo pro-curarci il tempo togliendolo agli altri, «mangiandoli»: usandoli, manipolandoli, distruggendoli, crediamo di «assimilare», come con il cibo, il tempo che ci manca. 
Per la fame di tempo ci sono due possibilità: la cura, sfamare, o il potere, sfamarsi e affamare. Però il potere dà solo l’illusione di aumentare il tempo, perché tempo e potere appartengono a piani di realtà che non si toccano: il potere fa sentire di avere presa sulla vita ma in realtà non le aggiunge un secondo. Evoluti ma cannibali.

Sullo stesso piano del tempo – il mito platonico e il racconto evangelico lo mostrano – c’è invece la cura che, diventando amore, rende il tempo talmente pieno di senso che non si teme più di non averne abbastanza. Quando mi prendo cura della mia amata io sento di trasformarmi: il tempo suo e mio aumenta e non mi può essere più tolto, anche se apparentemente mi sembra di averlo «perso». 
È il paradosso evangelico: «Chi dà la sua vita la trova, chi la trattiene la perde». 

Ma dove trarrò le energie per curare senza sfinirmi? E poi chi si prende cura di me senza stancarsi? Non la Natura, ignara di me, ma il Dio a cui abbiamo rinunciato, finendo con il divorarci in proporzioni mai viste nell’ultimo secolo: noi, i più evoluti e progrediti, siamo diventati anche i cannibali peggiori nella storia. Dostoevskij lo aveva detto: «senza Dio tutto è possibile», perché senza essere curati non si sa come sfamarsi. 
Abbiamo rinunciato al Soffio che Cura ogni cosa
All’inizio di Genesi, prima che cominci la creazione, si dice che «lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque», e il verbo significa letteralmente «covare», e le acque, non ancora create, sono un modo di dire «caos». Questo Respiro «cova» ogni cosa, se ne prende cura perché diventi se stessa. 
È solo una favola consolatoria o c’è qualcosa di vero? Bisogna farne esperienza, questa per me è l’unica via, anche perché tutte le altre, dettate dalla fame, non funzionano: successo, soldi, potere hanno sempre «respiro corto» e portano con sé «affanno». O troviamo ogni giorno il tempo per lasciarci covare (curare), cioè per ricevere questo Soffio infinito, o saremo i morti viventi che non a caso popolano film, serie, videogiochi e romanzi. 

Senza cura la vita non ha senso, perché moriamo di fame (di tempo) e sopravvive solo il più forte, cioè chi mangia di più. Ma io non sopravvivo divorando gli altri, ma perché c’è un Soffio Curatore che mi ha voluto speciale: unico e irripetibile. E altrettanto unica e irripetibile voglio che sia la mia risposta, voglio sorprendere persino Dio, come un giardiniere si sorprende del fiore che sboccia anche se è lui stesso ad averlo piantato. 
Ognuno di noi è chiamato a creare, con e per gli altri, ciò che solo lui può essere e fare, come mi diceva qualche giorno fa un’amica che si prendeva cura del suo bambino di dieci giorni, vincendo le leggi del tempo: «Ora c’è e ci sarà per sempre». Il caos diventa Giardino. 
Solo l’imprevedibile collaborazione con il Soffio (viene da dire che la vita è una co-spirazione per fare altra vita, la co-munità nasce da questo, vuol dire infatti dono, munus, comune), cioè nella Cura, dà respiro al mondo. Io, così limitato, desidero respirare il Respiro che cova il caos e lo rende vita, perché è Amore-Cura che trasforma me in Cura-Amore. 

Attraverso di me, di noi, uniti in questo respiro, un pezzettino di caos (una classe, il bianco di una pagina, la paura della mia amata, il dolore di un amico) può diventare Giardino e il tempo moltiplicarsi come i semi nel frutto: in ogni ghianda c’è un bosco intero. Solo così mi sento Amato sulla Terra e Amante della Terra. E anche se, come nella canzone di Battisti, «l’universo trova spazio dentro me» però «il coraggio di vivere quello ancora non c’è». 
Questo coraggio non è una magia, ma la Cura: una libera scelta di come vivere perché il mondo possa «venire al mondo». […] La cura fa fiorire il deserto e crea un mondo inatteso, sorprendente, vivo, bello.

O si divora o si cura: a ognuno di noi è chiesto di scegliere da che parte stare, non ci sono vie di mezzo per «respirare» e «far respirare» questo mondo. 
E per poter dire, alla fine: nulla è andato sprecato, tutto il tempo che avevo si è trasformato in amore.

Tratto da 
Alessandro D’Avenia in Corriere della Sera, Buone Notizie, 10/01/2023

ASCOLTARE LA VOCE SAPIENS

Una bella riflessione di D’Avenia sull’essere Homo. Tanti, tanti spunti per il lavoro in classe.

Il genere Homo è apparso più di due milioni di anni fa in Africa e si è diffuso sul globo differenziandosi in specie. Il Sapiens è comparso in Africa non più di 300mila anni fa ed è poi migrato (tra i 100 e i 65mila anni fa) unendosi e scontrandosi con specie stanziate altrove, come il Neanderthal, in Eurasia, e il Denisova, in Asia sud orientale. Ma che cosa ha permesso alla scienza di dire: qui compare un essere che possiamo chiamare Uomo? La novità sta nel fatto che questo essere «sa» di essere: ha coscienza di sé e del mondo, come testimonia uno dei più antichi reperti, in una grotta argentina, una parete con delle mani dipinte, come dire: «Eccomi qui, sono io». E chi sei, tu? 
La novità uomo, rispetto agli altri primati, è segnalata da alcuni fattori: tecnica, sepolture, accoppiamento frontale, linguaggio simbolico (arte). L’uomo è uomo perché ha e fa cultura, cioè tutto ciò che crea per umanizzare la vita, perché, a differenza dell’animale che ha già tutto scritto nel suo istinto, l’uomo diventa uomo. 
Come? Risolve problemi con la tecnica non essendo dotato, come gli animali, di artigli, zanne, pelo… ma di ingegno; è capace di trascendenza (seppellisce i simili); si accoppia guardandosi negli occhi; si relaziona con le cose in modo non solo utilitaristico (non si limita a mangiare gli animali, ma li dipinge). Questo per quanto attiene al genere Uomo. 
Ma perché, tra le specie di Uomo, il Sapiens è l’unica sopravvissuta? Se il Neanderthal era più forte, organizzato e abile, perché si è estinto? Molti studiosi rispondono dicendo che era timoroso e sedentario: non migrava e non osava attraversare il mare. Invece il Sapiens è andato ovunque: nel giro di qualche migliaio di anni dall’Africa lo troviamo in Australia! Era audace, se non folle. 
Il Sapiens è sopravvissuto perché, di fronte all’ignoto, rischiava, un motivo contrario al buon senso: non si metteva al sicuro ma a rischio. 

Ci ha salvato l’inquietudine
: siamo e diventiamo vivi per inquietudine e non per abitudine. Non ci accontentiamo ma cerchiamo, esploriamo, scopriamo. Siamo un motore di ricerca, il desiderio, che non ha pace, ma la cerca. Se questo motore si spegne, ci estinguiamo, che vuol dire «ci spegniamo», perdiamo il fuoco della vita. 
Evolutivamente ci ha salvato un inquieto vivere e non un quieto sopravvivere, allora come oggi. Quando intuii, a 17 anni, che volevo fare l’insegnante, molti mi dicevano: «Non rischiare, c’è già lo studio dentistico paterno, sii realista o sarai un morto di fame…». Per fortuna non ascoltai le voci Neanderthal, e mi fidai della voce Sapiens, lo spirito creativo dentro di me, che mi diceva: «Sarai vivo di fame!». Quella voce mi ha salvato: la voce del vivere arrischiato, che lascia la sicurezza e attraversa il mare (dovevo lasciare la Sicilia e andare, come diciamo noi, nel Continente). E così non mi sono «estinto», spento. 
Purtroppo però da quello stesso slancio del Sapiens viene anche la sua passione per la distruzione (forse le altre specie sono state «estinte» dalla sua violenza) che dà un’ebbrezza simile a quella creativa, ma a spese della vita: non genera il nuovo ma lo divora, come il dio Cronos mangia i figli. 
Ieri come oggi, il Sapiens o fa la vita dandola o si dà la vita togliendola, diventando Rapiens: l’uomo che afferra (da quel verbo viene l’inglese rape, stuprare). 
Lo esemplifico con il racconto del primo traumatico giorno di superiori narratomi da una studentessa. Alla prima ora entra una professoressa, guarda il gruppo assai numeroso di ragazzini, impauriti dall’inizio del percorso liceale, e dice nella lingua del controllo che dà l’ebbrezza del potere a chi la usa: «Siete troppi, vi ridurremo!». 
La lingua del rischio, che è creativa, dà la stessa ebbrezza ma richiede più impegno, avrebbe detto: «Siete tanti, ma voi e io ce la metteremo tutta per trovare i modi di andare avanti insieme». 
La seconda frase genera, la prima de-genera. 
Del racconto di Genesi dimentichiamo che gli alberi dell’Eden sono due: quello della conoscenza del bene e del male, precluso all’uomo a significare che la sua condizione è di creatura e non di creatore (la vita non te la sei data tu); e quello della vita, a sua totale disposizione, a indicare che quella condizione di creatura crea una relazione (la vita ti è donata da Qualcuno). 
Kafka ha scritto che la condizione ferita dell’uomo dipende non solo dall’aver mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male, ma anche dal non aver mangiato quello della vita. L’uomo, scopertosi mortale, deve procurarsi la vita con le sue forze. E allora che cosa è che il Sapiens sa? Che morirà, a differenza dall’animale che vive in un eterno beato presente, come scrive Leopardi nel suo Canto notturno. Questo «saper la morte» è una condanna o una risorsa? 
Il grande scienziato Linneo, a metà del 1700, per catalogare i viventi inventò la classificazione a due nomi (genere e specie) e per l’uomo approdò a Homo Sapiens solo alla decima edizione del suo Sistema della natura. Nelle precedenti edizioni scriveva Homo Nosce Teispum, genere Uomo, specie Conosci te stesso: traduzione latina del monito scritto sul tempio del dio Apollo a Delfi, per ricordare all’uomo, che si recava a interrogare il dio attraverso la sua sacerdotessa, il giusto atteggiamento: sei un mortale, pesa le tue parole. 

La cultura ebraica e quella greca concordano, da prospettive diverse, sulla posizione dell’uomo nel cosmo.
Socrate sceglierà proprio questa frase del tempio di Apollo per sintetizzare il senso dell’esistenza: ogni uomo è chiamato a riconoscere in sé il divino, il daimon, voce immortale che ispira e guida l’azione dell’uomo. Cristo, criticando i gesti ipocriti di coloro che pregano per farsi vedere dagli uomini, dice «quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6). La camera segreta (fisica e del cuore) è dove il Padre dà se stesso a chi lo cerca. Agostino, quattro secoli dopo, ne farà un cammino esistenziale: «Ritorna in te stesso, la verità risiede nell’uomo interiore»
Persino nella stanza dell’Oracolo del film Matrix c’è un’insegna con la scritta in latino (Conosci te stesso), invito al protagonista ad accettare la rischiosa chiamata contro le illusioni oppressive create dal Programma, anche a costo della vita, perché non c’è vita senza verità. 
Chi sei? Qual è il tuo destino? 


Essere Sapiens è essere «Conosci te stesso», cioè accettare la propria finitezza, e non trasformarla in rabbia distruttiva ma in creatività:e non trasformarla in rabbia distruttiva ma in creatività: imperfezione, incertezza, inquietudine sono sinonimo di ricerca e non di paralisi, di audacia e non di paura, di viaggio e non di violenza. 
Per noi stare nella vita è entrare in relazione generativa con ciò che ci supera, fino a scoprire il divino in noi. 
Nella mia vita quando ho cercato di eliminare l’inquietudine, non solo non ci sono riuscito ma ho perso occasioni di crescere e di creare (due verbi che originano dalla stessa antica radice, e che danno lo stesso frutto: l’uomo), perché sono rimasto bloccato dalla paura o, peggio, ho cercato la pace nell’illusione di non morire che dà il potere. 
Invece quando ho deciso di accogliere quell’inquietudine non come debolezza ma come segno della presenza del divino in me, si è sempre trasformata in motore creativo e di crescita: energia per correre il rischio. Rischiando la vita, cioè portandomi avanti con il fatto che dovrò morire, ho scoperto come si vince la morte trovando più vita, come sembra sia proprio del Sapiens. Altrimenti mi sarei estinto, in anticipo, in vita. 
Non credo sia un caso che molti eroi del passato di culture diverse, da Ulisse a Sinbad, siano uomini che, per vivere, hanno vinto il mare. Ognuno ha il suo e il coraggio per affrontare l’ignoto lo trova nel suo DNA di Conosci te stesso. 
Un’educazione che rimette al centro il nostro essere Sapiens, non solo non nasconde ai ragazzi la fatica della condizione di uno che sa che morirà (o rischi o ti estingui), ma svela anche la terribile ambiguità di quel rischiare per riuscire a non morire (o crei altra vita o divori quella che c’è). A noi la scelta.

Accorgersi che Dio scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini

“Dio scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini”.
Spesso me lo sono sentito dire e anche io l’ho ricordato a me stessa e a chi stava attraversando un momento difficile. Non si tratta di rassegnazione, ma di consapevolezza che dal male se ne può uscire più forti se poniamo la nostra vita nelle mani di qualcun altro e, per chi si fida di Gesù, di quel Dio che offre il bene anche negli angoli più bui. 
I tempi che stiamo vivendo ci fanno percepire tutta la fragilità di un sistema che pensavamo ci avrebbe destinato tutti al successo e al benessere. Quanta arroganza in questo modo di pensare!!! Abbiamo costruito un castello sulle sabbie mobili….e ora, invece di sostenerci l’un l’altro, stiamo tirando fuori il peggio di noi. Che amarezza! direbbe la mia cara collega. 
Ne possiamo uscire soltanto convertendo totalmente il nostro cuore e risvegliandoci dal sonno della ragione, perché a prevalere sono purtroppo la rabbia e le soluzioni dettate da un egoismo irragionevole. Chi bazzica un po’ la Bibbia, si sarà imbattuto in brani in cui Dio si rivela nel sogno o in cui il sonno è preludio ad un grande cambiamento. Dio ci sveglia dal sonno per invitarci a realizzare il suo progetto che è per il bene, non solo personale. 
E quando le cose sembrano mettersi male, Dio invita a vedere con il suo stesso sguardo: dal male può venire anche il bene se ci apriamo alla sua provvidente misericordia. 
L’articolo di Mauro Magatti, pubblicato su Avvenire del 30 agosto è un contributo al risveglio 😁. 

 «Le restrizioni che ci sono state imposte dal virus hanno generato un diffuso senso di responsabilità. Ma hanno anche sviluppato forti reazioni che in alcuni casi hanno rasentato la violenza. Una società più sobria ha bisogno di una pedagogia che oggi non c’è. Ecco perché è necessario che tutti coloro che hanno responsabilità pubbliche – dai politici agli imprenditori, dai manager ai docenti – evitino di cavalcare la tigre dell’odio che questa stagione inevitabilmente alimenta. In definitiva, la ‘fine dell’abbondanza’ potrebbe essere il vincolo esterno per avviare quella trasformazione di cui si sente il bisogno ma che non si sa come realizzare. Riuscendo a immaginare una crescita che, senza ridursi all’aumento dei consumi privati, sia capace di rigenerare i legami sociali, di affiancare ai diritti individuali i doveri sociali, di scommettere sulla sussidiarietà intesa come responsabilità diffusa, di investire sulla generazione e sulla formazione, di portare avanti la transizione energetica sapendo della sua urgenza e dei suoi costi. La ‘fine dell’abbondanza’ significa fondamentalmente risvegliarsi dal sonno della ragione che ci ha portati a credere che la crescita sia frutto di un meccanismo automatico, di un funzionamento sistemico, indipendente dalla spinta spirituale e dalla intelligenza che vengono dalle persone e dalla comunità. Nella società che abbiamo la possibilità di costruire non si tratta più semplicemente di rivendicare il proprio benessere individuale, ma di contribuire al bene comune».

Carlo e Alberto: storia di un’amicizia stra-ordinaria

Alberto Michelotti e Carlo Grisolia sono due ragazzi genovesi che hanno vissuto, fra di loro e con i loro coetanei, una storia di amicizia, aperta ed alimentata da un obiettivo comune: portare a tutti il dono dell’ideale evangelico del mondo unito, della fraternità universale. 
Per una veloce conoscenza:

   
Il trailer del documentario che è stato realizzato:

    

Per chi volesse vederlo per intero, cliccare qui.

L’uomo raccontato dalla religione

Nel giorno in cui, oggi, è promossa una preghiera globale per chiedere a Dio “preghiere e suppliche” per porre fine alla pandemia di COVID-19, posto il percorso di apprendimento pensato per il primo liceo Scienze Umane. Con l’obiettivo di mantenere il dialogo educativo a distanza, soprattutto per le volte che non ci vedevamo in meet,ho preparato per i ragazzi un wakelet e altro materiale che inserisco qui. Per il wakelet cliccare sulla prima immagine. 


Aggiungo altre immagini che aiutano a ricostruire il percorso.




Quanta bellezza tra scienza e Dio

Di sicuro Matteo Benedetto fa un lavoro affascinante: è ricercatore all’osservatorio astronomico della Valle d’Aosta, ed è anche membro dell’Azione cattolica, e questo fa sì che la nostra chiacchierata riproponga, al contempo, nuove ed antiche domande.
È possibile una conciliazione tra fede e scienza? O invece, come affermava qualcuno, lentamente la scienza arriverà a fare chiarezza su tutto quello che noi per ora non ci spieghiamo?
o credo che fede e scienza possano tranquillamente e serenamente convivere. Ricordo che tempo fa in un momento di formazione che feci in parrocchia uscì che «la scienza ci spiega il come e il dove, la fede parla del chi e del perché». Mi piace immaginare fede e scienza come due treni che viaggiano su binari paralleli, ciò che li accomuna è il carburante che li muove: la curiosità, la ricerca, la voglia di crescere. I problemi nascono quando si tenta di farli andare sullo stesso binario.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg, assieme alla teoria dei quanti, ha davvero sconvolto le basi della scienza intesa come strumento per arrivare a capire tutto, prima o poi?
È vero che il principio di indeterminazione di Heisenberg pone dei limiti fisici a ciò che si può conoscere, soprattutto se applicato all’origine dell’universo, tuttavia non credo che Dio sia da ricercare dove la scienza non arriva. Perché il suo operato dovrebbe esserci nascosto per forza? La scienza è un modo per squarciare il velo e scoprire come Dio “lavora”. Tutto l’universo intorno a noi è un miracolo straordinario, il modo in cui tutto si muove e interagisce è già di per sé miracoloso, non dobbiamo immaginare Dio come un mago che opera per forza in maniera antiscientifica e inspiegabile.
Il professor Zichichi mi disse nel corso di un’intervista che il mondo è retto da una logica, e che se c’è una logica deve esserci un creatore…
Come ho detto, il modo in cui tutto interagisce è tutto già un miracolo di per sé. Non serve un telescopio per trovare Dio, lui non è in cielo, ma intorno a noi. In una serie tv che ho visto tempo fa un cardinale diceva: «Guardate lassù… Lo vedete il cielo? Lo vedete Dio? No? Non lo vedete? Non fa niente… Adesso guardate colui che è al vostro fianco… Guardatelo con gli occhi della gioia e ricordatevi di quando Sant’Agostino ha detto: “Se vuoi vedere Dio hai a disposizione l’idea giusta: Dio è amore”.
Avere a che fare ogni giorno con le strutture alla base dell’universo stimola anche un senso di ammirazione per la bellezza del creato?
Sicuramente sì, l’universo attorno a noi è davvero straordinario. Spesso osserviamo galassie distanti miliardi di anni luce da noi e pensare che quella luce è partita quando ancora il nostro sistema solare doveva formarsi è davvero disarmante. A volte però il famoso disincanto di cui parlava Nietzsche salta fuori: corriamo il rischio di limitarci a maneggiare numeri e codici al computer. Per questo ogni buon ricercatore ha bisogno di fare divulgazione scientifica e riavvicinare l’occhio a un telescopio, per non scordare la grandezza e l’immensità di ciò che sta studiando.
C’è qualcosa in particolare che le fa pensare che davvero ci sia un disegno finalistico alla base dell’esistenza del tutto?
Se ribaltiamo un tappeto e ne osserviamo la parte sotto, vediamo un ammasso di fili che sembrano messi un po’ a caso e di cui non riusciamo a comprendere il senso. Soltanto guardando il tappeto dalla parte giusta ne scorgiamo il disegno e i ricami. Io ritengo che ci troviamo dal lato sbagliato del tappeto, tutto ci sembra insensato, casuale, assurdo, ma proprio per questo dobbiamo avere fede, proprio per questo dobbiamo continuare a fidarci. Il disegno c’è ed è bellissimo.
[intervista con Matteo Benedetto di Marco Testi in segnoweb 3 del 2019]