I Magi: cercatori di senso, cercatori di verità

 

I magi, questi personaggi misteriosi, si mettono in movimento, si allontanano dalla loro terra e camminano alla ricerca di un re, del Re.
Il Vangelo di Matteo (2,1-12) mette in risalto questa realtà attraverso alcuni verbi, che accompagnano lo svolgersi della vicenda: giunsero, siamo venuti, li inviò, andate, partirono, li precedeva, entrati, non tornare, fecero ritorno.
Il percorso fisico dei magi nasconde in sé un viaggio ben più importante e significativo, che è quello della fede; è il movimento dell’anima, che nasce dal desiderio di incontrare e conoscere il Signore. Ma allo stesso tempo è anche l’invito di Dio, che chiama e attira con forza a sé; è Lui che fa alzare in piedi e pone in movimento, che offre indicazioni e non smette mai di accompagnare.
La Scrittura ci offre molti esempi importanti.
Ad Abramo Dio disse: “Vattene dal tuo paese e dalla casa di tuo padre verso il paese che io ti indicherò” (Gen 12, 1). Anche Giacobbe fu pellegrino di fede e di conversione; di lui, infatti, sta scritto: “Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran” (Gen 28, 10) e: “Poi Giacobbe si mise in cammino e andò nel paese degli orientali” (Gen 29, 1). Dopo molti anni il Signore gli parlò e gli disse: “Torna al paese dei tuoi padri e io sarò con te” (Gen 31, 3). Anche Mosè fu un uomo del cammino; Dio stesso gli ha disegnato la strada, l’esodo, dentro al cuore, nelle viscere e ha fatto di tutta la sua vita una lunga marcia di salvezza per sé e per i suoi fratelli: “Ora va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo!” (Es 3, 10).
L’esodo non si è mai interrotto; la liberazione, che viene dalla fede, è sempre in atto. Guardiamo a Gesù, ai suoi apostoli, a Paolo: nessuno sta fermo, nessuno si nasconde. Tutti questi testimoni ci parlano, oggi, attraverso la loro vicenda e ci ripetono: “Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio” (Sal 83, 6).
stella-cometa-Re-MagiPer quanto riguarda la stella, in questo racconto del viaggio dei Magi è un elemento molto importante, perché ad essa è affidato il compito di guidare i magi alla loro meta, di rischiarare le loro notti di viaggio, di indicare con precisione il luogo della presenza del Signore.
In tutta la Bibbia le stelle compaiono come segni di benedizione e di gloria, sono quasi una personificazione di Dio, che non abbandona il suo popolo e, allo stesso tempo, una personificazione del popolo, che non si dimentica del suo Dio e lo loda, lo benedice (cfr. Sal 148, 3; Bar 3, 34).
Per la prima volta il termine stella appare, nella Scrittura, in Genesi 1.16, quando, giunto al quarto giorno, il racconto della creazione narra dell’apparizione nei cieli del sole, della luna e delle stelle, come segni e come luci, per regolare e per illuminare. Il termine ebraico “stella” kokhab (Caf waw (H) caf bet) è molto bello e denso di significato; le lettere che lo formano, infatti, ci svelano l’immensità della presenza che questi elementi celesti portano in sé. Troviamo due caf, che significano “mano” e che racchiudono in sé una waw, cioè l’uomo, inteso nella sua struttura vitale, nella sua colonna vertebrale, che lo mantiene in posizione eretta, che lo fa salire verso il cielo, verso il contatto col suo Dio e Creatore. Dunque, dentro le stelle, appaiono due mani, caf e caf, che stringono in sé, con amore, l’uomo: sono le mani di Dio, che mai cessano di sostenerci, solo che noi ci affidiamo ad esse. Infine compare la lettera bet, che è la casa. Le stelle ci parlano, allora, del nostro viaggio verso casa, del nostro continuo migrare e ritornare là, da dove siamo venuti, fin dal giorno della nostra creazione, ma già fin da sempre.

(adattato da  www.qumran2.net)

Come Caino dicono: a me che importa?

[…]  Mentre Dio porta avanti la sua creazione, e noi uomini siamo chiamati a collaborare alla sua opera, la guerra distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano.
La guerra stravolge tutto, anche il legame tra i fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione: volersi sviluppare mediante la distruzione!
La cupidigia, l’intolleranza, l’ambizione al potere… sono motivi che spingono avanti la decisione bellica, e questi motivi sono spesso giustificati da un’ideologia; ma prima c’è la passione, c’è l’impulso distorto.
L’ideologia è una giustificazione, e quando non c’è un’ideologia, c’è la risposta di Caino: «A me che importa?». «Sono forse io il custode di mio fratello? » ( Gen 4 ,9 ).
La guerra non guarda in faccia a nessuno: vecchi, bambini, mamme, papà…
«A me che importa? ».
[…] Perché? Perché l’umanità ha detto: “A me che importa?”
Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta “a pezzi”, con crimini, massacri, distruzioni… Ad essere onesti, la prima pagina dei giornali dovrebbe avere come titolo: “A me che importa?”.
Caino direbbe: «Sono forse io il custode di mio fratello? ». Questo atteggiamento è esattamente l’opposto di quello che ci chiede Gesù nel Vangelo.
Abbiamo ascoltato: Lui è nel più piccolo dei fratelli: Lui, il Re, il Giudice del mondo, Lui è l’affamato, l’assetato, il forestiero, l’ammalato, il carcerato…
Chi si prende cura del fratello, entra nella gioia del Signore; chi invece non lo fa, chi con le sue omissioni dice: “A me che importa?”, rimane fuori.

[…] Con quel “A me che importa?” che hanno nel cuore gli affaristi della guerra, forse guadagnano tanto, ma il loro cuore corrotto ha perso la capacità di piangere. Caino non ha pianto. Non ha potuto piangere.
[…] Fratelli, l’umanità ha bisogno di piangere, e questa è l’ora del pianto.

Dall’omelia pronunciata da Papa Francesco durante la Messa al Sacrario militare di Redipuglia nel centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale (Avvenire del 15 settembre 2014)

Di fronte al male che c’è

Etty Hillesum, giovane ebrea olandese vit­tima dei nazisti, racconta nel suo Diario di una notte in cui accompagnò un amico al treno diretto a Westerbork, anticamera di Auschwitz. Descrive le spalle fragili del ra­gazzo curve sotto al grande zaino, mentre Amsterdam attorno dorme, e ammutolita scrive:
«In una notte come questa, biso­gnerebbe soltanto inginocchiarsi e prega­re ».
Anche noi, forse, dovremmo inginoc­chiarci e pregare di fronte all’inaudito ma­le in Iraq e in Siria. Inginocchiarci in una supplica inerme; e pregare, come chiede il Papa, per quella infinita moltitudine.

Marina Corradi in Avvenire del 9 settembre 2014

“Dio”: cosa suscita in noi questa parola?

Cari ragazzi di terza, incomincio subito con una provocazione:
Cosa suscita in voi la parola Dio?
Quali certezze, dubbi, emozioni?

Leggiamo insieme da Sri Ramakrishna, Il libro degli esempi, Gribaudi Editore:

“Quante discussioni si sono fatte e si fanno ancora su Dio. Tu che ne pensi?”,
chiese un giorno un discepolo al grande maestro.
“Vedi quell’ape?”, rispose il maestro. “Senti il suo ronzio? Esso cessa quando
l’ape ha trovato il fiore e ne succhia il nettare.
Vedi quest’anfora? Ora vi verso dell’acqua. Ne senti il glu-glu? Cesserà
quando l’anfora sarà colma.
Ed ora osserva questo biscotto che pongo crudo nell’olio bollente. Senti come
frigge e che rumore fa? Quando sarà ben cotto tacerà.
Così è degli uomini. Fino a quando discutono e fanno del gran rumore su Dio, è
perché non l’hanno ancora trovato.
Chi invece l’ha trovato tace e, nel silenzio, adora ed agisce”.

Vi propongo la testimonianza di Fabrice Hadjadj, che da ateo si è convertito al cristianesimo.

«Prima della mia conversione, devo confessarlo, odiavo questa parola. Quando qualcuno diceva “Dio”, mi sembrava che mettesse fine a qualsiasi discussione. Aveva introdotto con l’imbroglio un altro jolly nel mazzo di carte.
Era un abracadabra, una formula magica e mi verrebbe da dire addirittura una “soluzione finale”, con tutto ciò che può comportare di terrorizzante un’espressione del genere. Una soluzione finale all’interno di una discussione che, d’un tratto, veniva soffocata da questa parola grossa e massiccia. La mia conversione consistette dapprima in una conversione di vocabolario.
All’epoca del mio ateismo ero obbligato a confessare un mistero dell’esistenza. Pensavo tuttavia che la parola “Dio” non avesse nulla a che vedere con tale mistero, che fosse addirittura un modo per evitarlo.
Avevo la pretesa di spiegarne l’esistenza nel lessico, sforzandomi di svicolare così: negazione della morte, volontà di potenza, fuga nell’aldilà, sublimazione nevrotica del “papà/ mamma, aiuto!”…
Cos’è accaduto oggi? Sono stato corretto riguardo a tale controsenso. Questa parola non suona più ai miei orecchi come un “tappabuchi”, ma come un “apri-abisso”. È probabile che alcuni la usino come “tappabuchi” (credenti o meno, d’altronde). Non la capiscono affatto, allora. Non ne sentono, per così dire, la musica. Perché il significante “Dio” non discende da un desiderio di soluzione finale: viene dal riconoscimento di un’assenza irrecuperabile. Non sorge tanto come risposta quanto come chiamata. Dà il nome all’evidenza di ciò che mi sfugge, all’esigenza di ciò che mi supera»

(da Avvenire del 3.05.13)

Il vero dialogo

«Io non posso dialogare se sono chiuso all’altro. Apertura? Di più: acco­glienza!
Vieni a casa mia, tu, nel mio cuore. Il mio cuore ti accoglie. Vuo­le ascoltarti.
Questa capacità di em­patia ci rende capaci di un vero dia­logo umano, nel quale parole, idee e domande scaturiscono da un’e­sperienza di fraternità e di umanità condivisa.
Se vogliamo andare al fondamento teologico di questo, an­diamo al Padre: ci ha creato tutti. Siamo figli dello stesso Padre.
Que­sta capacità di empatia conduce a un genuino incontro – dobbiamo andare verso questa cultura dell’in­contro – in cui il cuore parla al cuo­re. Siamo arricchiti dalla sapienza dell’altro e diventiamo aperti a per­correre insieme il cammino di una più profonda conoscenza, amicizia e solidarietà. “Ma, fratello Papa, noi facciamo questo, ma forse non con­vertiamo nessuno o pochi…”.
In­tanto tu fai questo: con la tua iden­tità, ascolta l’altro».

papa Francesco durante l’incontro con i vescovi dell’Asia presso il San­tuario di Haemi da Avvenire del 18 agosto

Scimmiottare adulti rimasti bambini

«Non c’è da stupirsi: oggi si fa sesso prestissimo. Ci sono dei primini (vabbè, non molti, però alcuni sì) che hanno già avuto rapporti sessuali. E’ penoso.
Uno: io credo che il sesso, come l’amore, sia una cosa sacra. Non mi chiamo de Broglie, ma se avessi vissuto oltre la pubertà avrei fatto di tutto perché diventasse un sacramento meraviglioso.
Due: un ragazzo che vuole fare l’adulto resta pur sempre un ragazzino. Pensare che con una serata da sballo e un po’ di sesso ti ritrovi di colpo uomo a tutti gli effetti è come credere che se ti travesti da indiano lo diventi.
E tre: comunque sia, è proprio una strana concezione della vita voler diventare adulti imitando tutto quello che c’è di più catastrofico nell’adultitudine… […]
In fin dei conti, gli adolescenti credono di diventare adulti scimmiottando adulti rimasti bambini che fuggono davanti alla vita. E’ patetico».

tratto da Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, edizioni E/o

Temiano il domani se non sappiamo costruire il presente

«Io ho capito molto presto che la vita passa in un baleno guardando gli adulti attorno a me, sempre di fretta, stressati dalle scadenze, così avidi dell’oggi per non pensare al domani…
In realtà temiano il domani solo perchè non sappiano costruire il presente, e quando non sappiamo costruire il presente ci illudiamo che saremo capaci di farlo domani, e rimaniamo fregati perché domani finisce sempre per diventare oggi, non so se ho reso l’idea
».
tratto da Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, edizioni E/o