Beatitudini, la Magna Charta di Gesù

Primo giorno di scuola del maestro Gesù, all’aperto, sulla collina, il cielo come soffitto, l’erba per pavimento, l’abside del lago sullo sfondo. E il primo argomento che il giovane rabbi di Nazaret tratta nella sua prima lezione, è il tema della felicità: beati voi, ripete per otto volte. La prima rivelazione: Dio vuole figli felici. 
La vita è e non può che essere una ricerca di felicità. La felicità sempre provvisoria dei viandanti. E invece di un discorso alla Robin Williams, nel film L’attimo fuggente, uno di quei discorsi accattivanti e piacioni, fa una lezione drammatica e impopolare. Parla di poveri, di perseguitati, di piangenti, di affamati. Sceglie le ferite delle persone: le Beatitudini sono ferite che diventano feritoie, in cui si affaccia una terra nuova e felice. 
La genialità di Gesù: non imposta il suo progetto su di una morale umana, ma su di una lieta notizia: Dio regala gioia a chi produce amore, aggiunge vita a chi edifica pace. 
Le Beatitudini non raccolgono precetti o divieti, di cui rendere conto, ma sono la bella notizia che chi somiglia a Gesù, affamato di giustizia e di pace, cuore limpido e mite, vive meglio, umanizza il mondo, apre brecce nel muro della storia per sbirciare dentro il Regno, in una umanità nuova e migliore. Una differenza sostanziale rispetto alle dieci parole è il fatto di passare dall’ubbidire a degli ordini all’ubbidire solo alla felicità. 
La beatitudine posta in apertura al primo discorso di Gesù è la chiave di volta, la condizione perché esistano tutte le altre: beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli (Mt 5,3) […]. 
Ci saremmo aspettati: beati perché ci sarà un capovolgimento, la ricchezza passerà in mano vostra. Beati perché sarete i ricchi di domani. No. Il progetto di Dio è più profondo e più delicato. 
Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno, è con voi che Dio cambierà la storia, non con i potenti. Il Signore vuole vedere il mondo con gli occhi dei piccoli e dei poveri. Solo se proviamo anche noi a vedere il mondo così, con lo sguardo dei deboli e degli ultimi, solo allora potrà cambiare questa nostra storia. L’economia della piccolezza attraversa l’intera Bibbia e ne rappresenta un’anima profondissima. Quella di Abele, delle donne sterili e madri, di Giuseppe venduto, di Amos e Geremia, di Betlemme, delle Beatitudini, del Golgota. Dio si rivela a Elia come una sottile voce di silenzio, solo una voce, non si vede e non si tocca; si sceglie come alleato il più piccolo tra i popoli, diventa bambino e poi lascia suo figlio e i nostri figli appesi a una croce. Prendere sul serio l’economia della piccolezza e della povertà ci porta a guardare il mondo in altro modo, e anche le nostre ferite. A cercare i re di domani tra gli scartati e tra i poveri di oggi, a prendere molto sul serio i giovani e i bambini, a trovare meriti là ove l’economia della grandezza sa vedere solo demeriti
La prima beatitudine riemerge come prima motivazione nel discorso inaugurale di Gesù nella sinagoga di Nazaret (Luca 4,18): sono venuto a portare una lieta notizia ai poveri […]. «Il primo sguardo di Gesù nel Vangelo non si posa mai sul peccato dell’uomo, mai, ma sempre sul suo dolore o sul suo bisogno» (Johann Baptist Metz). Beati i poveri in spirito, specifica Matteo: davanti a Dio per l’anima non c’è nulla di meglio che essere nulla, pura trasparenza, come l’aria davanti al sole (Simone Weil). La preoccupazione dell’annunciatore è di essere infinitamente piccolo, solo così l’annuncio sarà infinitamente grande (Giovanni Vannucci). 
Le prime parole di Gesù dicono a tutti i disincantati di allora, a tutti i delusi di oggi: smettetela di essere tristi e sfiduciati, ascoltate, qualcuno ha una cosa bellissima da dirvi, così bella che appare incredibile...La notizia bellissima è questa: Dio è per i poveri, contro la povertà; è all’opera, qui tra le colline e il lago, per le strade di Cafarnao, in cammino su questi sentieri. Per umanizzare la vita e farla respirare. C’è polline divino nel mondo. Il Regno viene, è vicino, è qui, viene e fa fiorire la vita in tutte le sue forme. Beato, che ricorre più di cento volte nelle Scritture, ha un significato più vasto dell’immediata accezione di “felice, lieto, contento”. Possiamo intuirlo aprendo il libro dei salmi, il libro della nostra vita verticale, imbattendoci nel termine da subito, dalla prima parola del primo salmo: «beato l’uomo che non percorre la via dei malvagi». Il salmo collega beatitudine e cammino come nella illuminante ermeneutica di André Chouraqui: “beato” significa «in cammino, in piedi, in marcia, avanti, voi che non seguite la strada dei malvagi, non arrendetevi, non lasciate cadere le braccia». 
In cammino voi poveri; in piedi voi miti; avanti, in marcia, fate il primo passo, in piedi voi che siete a terra, rialzatevi, ricominciate. Dio cammina con voi. 
«La Provvidenza conosce solo uomini in cammino» (san Giovanni Calabria). 
Tratto da Avvenire del 3 marzo 2024

Quando tutto crolla

Ho seguito con commozione il monologo di Allevi all’Ariston di Sanremo. In questo momento sono molto sensibile a certi argomenti 😄. La fragilità, che Allevi non ha avuto alcuna remora a nascondere, diventa la vera forza dell’essere umano, quando non si chiude in se stesso ma si apre al Tutto. Bellissime parole, le sue, che vi consegno integralmente. 
 “All’improvviso mi è crollato tutto. Non suono più il pianoforte davanti ad un pubblico da quasi due anni. Nel mio ultimo concerto, alla Konzerthaus di Vienna, il dolore alla schiena era talmente forte che sull’applauso finale non riuscivo ad alzarmi dallo sgabello. E non sapevo ancora di essere malato. Poi è arrivata la diagnosi, pesantissima. Ho guardato il soffitto con la sensazione di avere la febbre a 39 per un anno consecutivo.Ho perso molto, il mio lavoro, ho perso i miei capelli, le mie certezze, ma non la speranza e la voglia di immaginare. Era come se la malattia mi porgesse, assieme al dolore, degli inaspettati doni. Quali? Vi faccio un esempio.… Non molto tempo fa, prima che accadesse tutto questo, durante un concerto in un teatro pieno, ho notato una poltrona vuota. Come una poltrona vuota?! Mi sono sentito mancare! Eppure, quando ero agli inizi, per molto tempo ho fatto concerti davanti ad un pubblico di quindici, venti persone ed ero felicissimo! Oggi….dopo la malattia, non so cosa darei per suonare davanti a quindici persone. I numeri…non contano! Sembra paradossale detto da qui. Perché ogni individuo, ognuno di noi, ognuno di voi, è unico, irripetibile e a suo modo infinito. Un altro dono! La gratitudine nei confronti della bellezza del Creato. Non si contano le albe e i tramonti che ho ammirato da quelle stanze d’ospedale. Un altro dono. La riconoscenza per il talento dei medici, degli infermieri, di tutto il personale ospedaliero. Per la ricerca scientifica, senza la quale non sarei qui a parlarvi. La riconoscenza per l’affetto, la forza, l’esempio che ricevo dagli altri pazienti, i guerrieri, così li chiamo. E lo sono anche i loro familiari, e lo sono anche i genitori dei piccoli guerrieri. Quando tutto crolla e resta in piedi solo l’essenziale, il giudizio che riceviamo dall’esterno non conta più. Io sono quel che sono, noi siamo quel che siamo. E come intuisce Kant alla fine della Critica della Ragion Pratica, il cielo stellato può continuare a volteggiare nelle sue orbite perfette, io posso essere immerso in una condizione di continuo mutamento, eppure sento che in me c’è qualcosa che permane! Ed è ragionevole pensare che permarrà in eterno. Io sono quel che sono. Voglio andare fino in fondo con questo pensiero. Se le cose stanno davvero così, cosa mai sarà un giudizio dall’esterno? Voglio accettare il nuovo Giovanni. Come dissi in quell’ultimo concerto a Vienna, non potendo più contare sul mio corpo, suonerò con tutta l’anima. Il brano si intitola Tomorrow, perché domani, per tutti noi, ci sia sempre ad attenderci un giorno più bello!”



Il gran lavoratore e il pozzo

Si narra di un uomo conosciuto come un gran lavoratore. Il suo senso del dovere, la sua capacità di sopportare il pesante lavoro, la sua perseveranza nelle difficoltà, ne avevano fatto una leggenda, tanto che il governatore del paese in cui l’uomo abitava, lo additava a tutti come esempio di efficienza e produttività. L’uomo era proprietario di un grande campo, che grazie al suo zelo divenne molto fertile, nonostante in esso mancasse l’acqua per irrigare. Nel campo non vi era un pozzo e la sorgente più vicina si trovana piuttosto lontana, così la maggior parte del lavoro quotidiano consisteva nel procurarsi l’acqua.
 
Ogni mattino, al sorgere del sole, questo uomo infaticabile si incamminva verso la sorgente con le sue taniche e, andando avanti e indietro tutta la giornata, riusciva a portare nel suo campo l’acqua sufficiente soltanto al tramonto. Certamente egli riusciva a far fruttare il suo campo, ma si trattava di una situazione davvero pesante da sopportare, perché quasi tutta la sua giornata era impiegata solo per procurarsi l’acqua. Gli amici che lo incontravano non riuscivano mai a instaurare un dialogo con lui, non solo perché egli non aveva mai tempo, ma anche perché il suo volto era sempre triste e abbattuto. Un giorno, accorgendosi di essere giunto quasi allo stremo delle forze, consigliato dagli amici decise di scavare un pozzo nel suo campo; dopo mesi di fatica, l’uomo riuscì a terminarlo, ricavandone tanta acqua preziosa. Da quel giorno nessuno lo vide più andare avanti e indietro; anzi, lo si vedeva seduto accanto al pozzo con il volto radioso e sereno, circondato dai suoi amici con i quali dialogava felice, mentre essi guardavano a quella risorsa d’acqua.
Un vicino, incuriosito, una mattina si avvicinò all’uomo e gli chiese informazioni a riguardo del pozzo e di quella insolita gioia di vivere attorno ad esso. Il buon lavoratore rispose senza esitare: «Ho scavato un pozzo profondo e, con mia grande sorpresa, ho trovato un uomo!».
A questa risposta il vicino rimase confuso e intimorito: non osò guardare nel pozzo, ma corse a riferire alle persone del villaggio più vicino quanto aveva appreso, così che tutti, in breve tempo, incominciarono a trarre le più disparate conclusioni a riguardo di questa strana vicenda.
Tutti dicevano: «Chi sarà mai quell’uomo ritrovato in fondo al pozzo?». Anche al governatore giunse la notizia, così mandò dei suoi subalterni dal gran lavoratore per avere più informazioni su quanto ormai tutti narravano di lui.
Quando egli li ebbe ascoltati, rispose così alle loro domande: «Sino a poco tempo fa passavo tutte le mie giornate camminando avanti e indoetro per portare l’acqua nel mio campo. Ma ora ho capito: chi troppo lavora non ha tempo per essere uomo! Tutto il mio tempo era solo per il lavoro. Il mio campo viveva grazie a me, ma io, come uomo, avevo smesso di vivere. Oggi che ho un pozzo tutto mio, ho ritrovato me stesso, ho riiniziato a vivere, ho trovato l’uomo che sono chiamato ad essere. Ho scavato un pozzo, ma ritrovando me stesso ho capito che il tempo ci è donato per vivere; e anche ho capito che la vita non ci è stata donata per riempire il tempo ma per ritrovare noi stessi nello scorrere del tempo!
Tratto da: 
D. Cogoni, Nella comunione della Santa Trinità, Cittadella Editrice 2023, pp. 13-15


Chi si prende cura di me?


Quando Franco Battiato canta La cura […] si rivolge innanzitutto alla propria anima, da anemos, vento, il soffio che rende «viventi» tutti gli esseri «animati», ma che in noi uomini è qualcosa di più. 
A noi non basta essere viventi, noi vogliamo essere vivi.
Se i viventi hanno il fiato, noi abbiamo il respiro, che è quel di più: in italiano è lo spirito o spiro, da cui vengono parole come respiro, ispirazione, spirare… che racchiudono il senso della vita «animata» e non solo «animale». Ma mentre negli animali accade, noi possiamo aumentare questo soffio, tanto da riuscire, come dice il cantautore siciliano, a non soccombere a: paure, turbamenti, ingiustizie, inganni, fallimenti, dolori, sbalzi d’umore, ossessioni, malattie. 

Ma qual è il segreto di questa cura di sé? 
Che cosa ci guarisce veramente dalla paura del nulla, dal vuoto di senso che cerchiamo di riempire senza riuscirci? 
[…] Chi può farmi sentire e dire «Amato sulla Terra», quasi fosse il mio vero nome? Può riuscirci un uomo o una donna? Posso riuscirci io? O ci vuole un’altra Cura? 
Non è moralismo La Cura è l’origine dell’umano nell’uomo

Lo racconta un mito creato da Platone. Quando il dio Chronos (Tempo) che pro-curava tutto ai viventi dovette ritirarsi dalla vicenda umana a causa dell’inversione del corso del cosmo, gli uomini furono lasciati a se stessi e dovettero «prendersi cura di sé da se stessi». 
Quando viene affidato a ciascuno (non siamo più del Tempo ma abbiamo del tempo) il tempo umano prende il nome di cura. 

Nella narrazione cristiana addirittura l’Eterno si fa Tempo (carne) e si affida alle cure di una madre, di un padre e di un villaggio: anche Dio se entra nella storia umana ha bisogno di cura, e poi diventerà lui stesso uno che cura. 
Essere «di» e «a» tempo significa «essere per la cura». 
Non è un moralismo ma il modo umano di diventare vivi: noi non ci prendiamo cura degli altri perché li amiamo, bensì impariamo ad amarli se ci prendiamo cura di loro
[…]L’amore allora non è qualcosa di spontaneo o naturale, un sostantivo, ma un impegno per rendere la vita dell’altro più compiuta, un verbo. E non lo faccio per filantropia, ma perché mi conviene: chi cura si cura, che è come dire chi dà tempo riceve tempo. 

Non è un caso che il tatto, senso della cura, sia l’unico il cui mezzo è il senso stesso: la vista vuole la luce, il suono lo spazio, il tatto ha bisogno del… tatto. Io toccando sono toccato, curando sono curato. Avere «tatto» (cura) per la carne del mondo, dà origine all’amore di cui abbiamo bisogno per poterci dire Ama(n)ti sulla Terra. E la cura è il dono del tempo limitato che ho, io sono tempo fatto carne: curare è dare la carne, tras-curare è toglierla. 
[…] L’inferno più profondo è fatto di uomini che mangiano altri uomini e il Satana di Dante ha tre bocche con cui divora costantemente tre dannati. 

Noi, tempo finito che attraverso la cura diventa amore, spesso preferiamo pro-curarci il tempo togliendolo agli altri, «mangiandoli»: usandoli, manipolandoli, distruggendoli, crediamo di «assimilare», come con il cibo, il tempo che ci manca. 
Per la fame di tempo ci sono due possibilità: la cura, sfamare, o il potere, sfamarsi e affamare. Però il potere dà solo l’illusione di aumentare il tempo, perché tempo e potere appartengono a piani di realtà che non si toccano: il potere fa sentire di avere presa sulla vita ma in realtà non le aggiunge un secondo. Evoluti ma cannibali.

Sullo stesso piano del tempo – il mito platonico e il racconto evangelico lo mostrano – c’è invece la cura che, diventando amore, rende il tempo talmente pieno di senso che non si teme più di non averne abbastanza. Quando mi prendo cura della mia amata io sento di trasformarmi: il tempo suo e mio aumenta e non mi può essere più tolto, anche se apparentemente mi sembra di averlo «perso». 
È il paradosso evangelico: «Chi dà la sua vita la trova, chi la trattiene la perde». 

Ma dove trarrò le energie per curare senza sfinirmi? E poi chi si prende cura di me senza stancarsi? Non la Natura, ignara di me, ma il Dio a cui abbiamo rinunciato, finendo con il divorarci in proporzioni mai viste nell’ultimo secolo: noi, i più evoluti e progrediti, siamo diventati anche i cannibali peggiori nella storia. Dostoevskij lo aveva detto: «senza Dio tutto è possibile», perché senza essere curati non si sa come sfamarsi. 
Abbiamo rinunciato al Soffio che Cura ogni cosa
All’inizio di Genesi, prima che cominci la creazione, si dice che «lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque», e il verbo significa letteralmente «covare», e le acque, non ancora create, sono un modo di dire «caos». Questo Respiro «cova» ogni cosa, se ne prende cura perché diventi se stessa. 
È solo una favola consolatoria o c’è qualcosa di vero? Bisogna farne esperienza, questa per me è l’unica via, anche perché tutte le altre, dettate dalla fame, non funzionano: successo, soldi, potere hanno sempre «respiro corto» e portano con sé «affanno». O troviamo ogni giorno il tempo per lasciarci covare (curare), cioè per ricevere questo Soffio infinito, o saremo i morti viventi che non a caso popolano film, serie, videogiochi e romanzi. 

Senza cura la vita non ha senso, perché moriamo di fame (di tempo) e sopravvive solo il più forte, cioè chi mangia di più. Ma io non sopravvivo divorando gli altri, ma perché c’è un Soffio Curatore che mi ha voluto speciale: unico e irripetibile. E altrettanto unica e irripetibile voglio che sia la mia risposta, voglio sorprendere persino Dio, come un giardiniere si sorprende del fiore che sboccia anche se è lui stesso ad averlo piantato. 
Ognuno di noi è chiamato a creare, con e per gli altri, ciò che solo lui può essere e fare, come mi diceva qualche giorno fa un’amica che si prendeva cura del suo bambino di dieci giorni, vincendo le leggi del tempo: «Ora c’è e ci sarà per sempre». Il caos diventa Giardino. 
Solo l’imprevedibile collaborazione con il Soffio (viene da dire che la vita è una co-spirazione per fare altra vita, la co-munità nasce da questo, vuol dire infatti dono, munus, comune), cioè nella Cura, dà respiro al mondo. Io, così limitato, desidero respirare il Respiro che cova il caos e lo rende vita, perché è Amore-Cura che trasforma me in Cura-Amore. 

Attraverso di me, di noi, uniti in questo respiro, un pezzettino di caos (una classe, il bianco di una pagina, la paura della mia amata, il dolore di un amico) può diventare Giardino e il tempo moltiplicarsi come i semi nel frutto: in ogni ghianda c’è un bosco intero. Solo così mi sento Amato sulla Terra e Amante della Terra. E anche se, come nella canzone di Battisti, «l’universo trova spazio dentro me» però «il coraggio di vivere quello ancora non c’è». 
Questo coraggio non è una magia, ma la Cura: una libera scelta di come vivere perché il mondo possa «venire al mondo». […] La cura fa fiorire il deserto e crea un mondo inatteso, sorprendente, vivo, bello.

O si divora o si cura: a ognuno di noi è chiesto di scegliere da che parte stare, non ci sono vie di mezzo per «respirare» e «far respirare» questo mondo. 
E per poter dire, alla fine: nulla è andato sprecato, tutto il tempo che avevo si è trasformato in amore.

Tratto da 
Alessandro D’Avenia in Corriere della Sera, Buone Notizie, 10/01/2023

Accorgersi che Dio scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini

“Dio scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini”.
Spesso me lo sono sentito dire e anche io l’ho ricordato a me stessa e a chi stava attraversando un momento difficile. Non si tratta di rassegnazione, ma di consapevolezza che dal male se ne può uscire più forti se poniamo la nostra vita nelle mani di qualcun altro e, per chi si fida di Gesù, di quel Dio che offre il bene anche negli angoli più bui. 
I tempi che stiamo vivendo ci fanno percepire tutta la fragilità di un sistema che pensavamo ci avrebbe destinato tutti al successo e al benessere. Quanta arroganza in questo modo di pensare!!! Abbiamo costruito un castello sulle sabbie mobili….e ora, invece di sostenerci l’un l’altro, stiamo tirando fuori il peggio di noi. Che amarezza! direbbe la mia cara collega. 
Ne possiamo uscire soltanto convertendo totalmente il nostro cuore e risvegliandoci dal sonno della ragione, perché a prevalere sono purtroppo la rabbia e le soluzioni dettate da un egoismo irragionevole. Chi bazzica un po’ la Bibbia, si sarà imbattuto in brani in cui Dio si rivela nel sogno o in cui il sonno è preludio ad un grande cambiamento. Dio ci sveglia dal sonno per invitarci a realizzare il suo progetto che è per il bene, non solo personale. 
E quando le cose sembrano mettersi male, Dio invita a vedere con il suo stesso sguardo: dal male può venire anche il bene se ci apriamo alla sua provvidente misericordia. 
L’articolo di Mauro Magatti, pubblicato su Avvenire del 30 agosto è un contributo al risveglio 😁. 

 «Le restrizioni che ci sono state imposte dal virus hanno generato un diffuso senso di responsabilità. Ma hanno anche sviluppato forti reazioni che in alcuni casi hanno rasentato la violenza. Una società più sobria ha bisogno di una pedagogia che oggi non c’è. Ecco perché è necessario che tutti coloro che hanno responsabilità pubbliche – dai politici agli imprenditori, dai manager ai docenti – evitino di cavalcare la tigre dell’odio che questa stagione inevitabilmente alimenta. In definitiva, la ‘fine dell’abbondanza’ potrebbe essere il vincolo esterno per avviare quella trasformazione di cui si sente il bisogno ma che non si sa come realizzare. Riuscendo a immaginare una crescita che, senza ridursi all’aumento dei consumi privati, sia capace di rigenerare i legami sociali, di affiancare ai diritti individuali i doveri sociali, di scommettere sulla sussidiarietà intesa come responsabilità diffusa, di investire sulla generazione e sulla formazione, di portare avanti la transizione energetica sapendo della sua urgenza e dei suoi costi. La ‘fine dell’abbondanza’ significa fondamentalmente risvegliarsi dal sonno della ragione che ci ha portati a credere che la crescita sia frutto di un meccanismo automatico, di un funzionamento sistemico, indipendente dalla spinta spirituale e dalla intelligenza che vengono dalle persone e dalla comunità. Nella società che abbiamo la possibilità di costruire non si tratta più semplicemente di rivendicare il proprio benessere individuale, ma di contribuire al bene comune».

Il sorriso di Dio

Confesso che arrivata alla mia età sento il bisogno di mettere i remi in barca (o le scarpette al chiodo 😁). 
Non che non ami questo lavoro, ma è come se avessi la sensazione di aver dato tutto quel che potevo. 
Il brano che riporto (di G. Paolucci, tratto da Avvenire del 30 agosto) mi ricorda che c’è ancora tanto da ricevere dai ragazzi. 
Uno stimolo a continuare a fare del mio meglio (attendendo con santa pazienza la pensione 😉).

Debora ha sempre amato insegnare, per realizzare un sogno che coltivava fin da bambina. Poi un mostro chiamato anoressia l’aveva trascinata sull’orlo del baratro, privandola del sorriso che sempre l’accompagnava. E una notte infelice le aveva rubato un pezzo della vista, fino a una diagnosi che suonava come una condanna: ictus. «Se mi succede qualcosa, raccogliete le mie poesie», aveva detto agli amici: è lì che aveva fissato le gioie e i dolori di un’esistenza sempre tesa a cercare l’ebbrezza della felicità e a comunicarla ai giovani. In pochi mesi con l’aiuto dei medici era riuscita a risalire la china, fino al ritorno a scuola, all’istituto Gadda di Fornovo (Parma), dove ha deciso di rimettersi in gioco. Sarebbe stata capace di farlo?, si chiedeva con tremore quando in dicembre era entrata in una classe sconosciuta. Sono stati loro, gli studenti, la migliore medicina per guarire, hanno acceso nuovamente la passione di insegnare che nessun dolore aveva potuto cancellare. È stando in mezzo a loro che ha ritrovato il gusto per un mestiere bello e complicato, diventato per lei una ragione di vita. Ora non vede l’ora di ricominciare la scuola. «I ragazzi insegnano a me ogni giorno più di quanto io potrò mai insegnare loro. È nei loro sorrisi che l’ho ritrovato, il sorriso di Dio».

Non solo fairplay

Il ciclista prende larga una curva, proprio mentre procedeva appaiato al primo in classifica, e scivola a bassa velocità, senza farsi male. Il campione si volta e rallenta per aspettarlo. Io ci vedo molto di più che il fairplay. Gesti come questo mi riconciliano al mondo 😉.

Una sola parola: Umanità

Mentre l’anno sta per concludersi, condivido questa riflessione: 

Finisce l’anno e arriva il momento di staccare gli ultimi ‘post it’ dalla bacheca dei giorni. Resta il panno verde o il compensato sottile, vuoto come la vecchia lavagna delle medie, appena pulita. Il gessetto bianco la dividerà in due, da una parte i buoni, cioè i ricordi da vetrina. Dall’altra i cattivi, le situazioni che vorresti non aver vissuto. 
Lutti e malattie a parte, sono gli amori deludenti, gli amici che senti lontani, le persone per cui credevi di essere importante e invece eri uno dei tanti. Perché il dolore può essere solitario, ma la felicità è plurale, si alimenta di pensieri condivisi, di sogni comuni, di complicità. E l’io da radice diventa pianta solo quando ha il coraggio di lasciare spazio al ‘noi’, di rallentare il passo, di gioire per un successo non suo. Guardandoci indietro appare chiaro: nel 2021 ai titoli di coda i momenti più belli sono stati quelli regalati agli altri, piccoli mattoni di una casa calda anche in pieno inverno. Più che di cose, di tecnologia, di macchine, infatti l’uomo ha bisogno di attenzione. 
E allora sul primo ‘post-it’ del nuovo anno, scriviamola in maiuscolo e poi non cancelliamola più, sarà un impegno da non dimenticare. Una parola sola: umanità. Che significa ascolto, empatia, perdono. Che, una volta di più, vuol dire speranza. 

(Riccardo Maccioni in Avvenire del 30 dicembre 2021)

 Che il nuovo anno ci trovi più attenti, gli uni verso gli altri. Più solidali. Più umani.



Un ateo e il Natale

Una bellissima pagina su Maria del filosofo francese Jean Paul Sartre. 
Scrisse queste righe per il Natale del 1940, quando si trovava nel campo di prigionia di Treviri, dove rimase fino al 1941. Quanto è lontano questo testo dall’esistenzialismo senza prospettive soprannaturali di cui diverrà maestro! 
In fondo ognuno di noi ha la capacità di cogliere il soprannaturale e più che pretendere risposte dalla religione, dovremmo chiederle che ci aiuti a farci le domande giuste, quelle che ci incamminano verso il senso da dare alla vita. Da questa disponibilità l’incontro con Dio arriverà come grazia. 
Queste righe sono di una tenerezza incredibile verso la figura di Maria. E’ attraverso di lei che possiamo cogliere la meraviglia di questo Dio che si fa toccare.


«Ciò che bisognerebbe dipingere sul viso di Maria è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano. Poiché il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne e il frutto del suo ventre. L’ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. E in certi momenti, la tentazione è così forte che dimentica che è Dio, lo stringe tra le sue braccia e dice: piccolo mio! Ma in altri momenti rimane interdetta e pensa: Dio è là!. E si sente presa da un orrore religioso per questo Dio muto, per questo bambino che mette paura. Poiché tutte le madri sono così attratte davanti a questo frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino che si sentono in esilio davanti a questa nuova vita che è stata fatta con la loro vita e che popolano di pensieri estranei. Ma nessun bambino è stato più crudelmente e più rapidamente strappato a sua madre, poiché egli è Dio ed oltre tutto ciò che lei può immaginare. Ed è una dura prova per una madre aver vergogna di sé e della sua condizione umana davanti a suo figlio. Ma penso che ci sono anche altri momenti, rapidi e difficili, in cui sente nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio. Lo guarda e pensa: questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo, che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive. Ed è in quei momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore, e cercherei di rendere l’espressione di tenera audacia e di timidezza con cui protende il dito per toccare la dolce piccola pelle di questo bambino Dio di cui sente sulle ginocchia il peso tiepido e che le sorride». 
(Jean Paul Sartre, Bariona o il figlio del tuono: racconto di Natale per cristiani e non cristiani)

L’opera d’arte che io sono

Uno scultore stava lavorando col suo martello e il suo scalpello su un grande blocco di marmo. 
Un ragazzino, che passeggiava leccando il gelato, si fermò davanti alla porta spalancata del laboratorio. 
Il ragazzino fissò affascinato la pioggia di polvere bianca, di schegge di pietra piccole e grandi che ricadevano a destra e a sinistra. 
Non aveva idea di ciò che stava accadendo: quell’uomo che picchiava come un forsennato la grande pietra gli sembrava un po’ strano. 
Qualche settimana dopo, il ragazzino ripassò davanti allo studio e con sua grande sorpresa vide un grande e possente leone nel posto dove prima c’era il blocco di marmo. 
Tutto entusiasta, il bambino corse dallo scultore e gli disse: “Signore, dimmi, come hai fatto a sapere che c’era un leone nella pietra?”. 
Da Bruno Ferrero, La vita è tutto quello che abbiamo, Elledici 2002 

Lo scultore già vede in quel blocco di marmo il leone, che ha bisogno del suo lavoro di scalpello per venire fuori. Anche noi siamo come blocchi di marmo in cui a volte rimane imprigionato il capolavoro che dovremmo essere. 
C’è bisogno di qualcuno che ci immagini/sogni come un capolavoro. A volte invece capita di venire denigrati, di percepire che per gli altri non valiamo niente, che da noi non potrà venire nulla di buono. 
Che brutta cosa!!! 
Se si viene pensati male, si finisce per comportarsi male. Se invece qualcuno riesce a vedere oltre e ci restituisce un’immagine di noi positiva, le cose cambiamo. Eccome se cambiano!!!
Chi sono io, allora? Solo il blocco di marmo o il leone che potrei diventare? 
Cosa dice la sapienza della religione? sono marmo e niente più o custodisco una bellezza che è stata pensata da Dio ed ha bisogno di essere espressa?




Un gioco per rilassarvi preview