La lingua araba e l’Italia

L’Italia è sempre stata un paese crocevia di popoli, fin dall’antichità. Così molte parole del nostro vocabolario hanno un’origine straniera, anche di paesi lontani.
Avreste mai pensato, ad esempio, a quanto importante sia stato l’influsso della lingua araba nel nostro vocabolario?
Comincio a farvi un elenco di alcune parole di uso corrente che hanno un’origine araba.
Alambicco: dall’arabo al-anbiq, a sua volta derivato dal greco ámbix, tazza.
Albicocco: dal vocabolo arabo collettivo al-barqu¯q, con variante fonetica (birqq), che significa prugne, susine.
Almanacco: l’etimo è dall’arabo al-mana¯hŠ, clima, calendario.
Ammiraglio: la voce ammiraglio trae origine dall’arabo amª°r (comandante, principe, governatore) passato attraverso il greco amerâs.
Assassino: deriva dalla parola araba hashishiyya o anche hashshashiyya, che significa letteralmente fumatore di hashish. Il termine fu usato per indicare gli adepti del gruppo ismailita dei Nizariti di Alamut in Persia, che seguivano con obbedienza cieca il loro capo noto come “il Veglio della Montagna”. Gli aderenti alla setta avevano costituito una sorta di organizzazione terroristica ante litteram, per realizzare azioni violente e assassini politici in vari paesi del Vicino Oriente. Si dice che, prima di andare a compiere simili imprese, i membri del gruppo si inebriassero, fumando cospicue quantità di hashish: da qui la denominazione, dalla connotazione denigratoria, di hashishiyya che fu loro attribuita. L’uso del termine è stato poi esteso ad indicare l’omicida, senza particolari attributi.
Baldacchino: dall’arabo bagdādī, aggettivo con il senso di “di Bagdad”, che già in Levante significava tanto una “stoffa preziosa di Bagdad” quanto “ornamento a forma di cupola, che sovrasta qualche cosa”.
Bizzeffe: nella locuzione avverbiale a bizzeffe nel senso di “in grande quantità, a iosa”; direttamente dall’arabo magrebino bizzaf, “molto, in abbondanza”.  
Cassero: il termine, che indica la parte più elevata e munita di un castello, si riconnette all’arabo qasòr, castello, che deriva dal greco bizantino kástron, a sua volta proveniente dal latino castrum, castello, fortezza.
Limone: dall’arabo e persiano limun, a sua volta derivato probabilmente da una lingua orientale. Arrivò in Occidente insieme al frutto, durante le Crociate.
Materasso: dall’arabo matrah dalla radice taraha “gettare”, cioè “luogo dove si getta qualcosa”, ad esempio un “tappeto sul quale coricarsi”. La parola compare quasi contemporaneamente in Italia, Francia, Germania e Inghilterra, ma l’ipotesi più probabile e che il punto primo di diffusione, necessariamente meridionale, sia stato l’Italia. 
Ragazzo: è una voce sulla cui origine si è molto discusso. Tra le molte proposte avanzate, oggi generalmente accettata dagli studiosi è la provenienza araba del vocabolo che deriverebbe dalla parola raqqa¯sò. Raqqa¯sò, nel Magreb, significa corriere che porta le lettere, messaggero (dal secolo XIII) ed è un termine molto probabilmente penetrato dalla Sicilia in Italia (o attraverso la terminologia della dogana).
Zafferano: voce entrata in italiano dall’arabo za‘faran, cioè giallo.
Tante altre parole derivano dall’arabo, e potreste divertirvi a trovarle.
Voglio ricordarvi che anche tanti cognomi hanno un’origine araba.
I Camilleri, ad esempio,dovrebbero aver avuto come loro antenato un cammelliere, perchè il termine arabo al-qamillari– da cui deriverebbe questo cognome – sta a indicare chi si occupava dei cammelli, un tempo mezzo di trasporto parecchio diffuso.
Gli avi degli Zagame e degli Zagami, invece, nei tempi antichi devono aver avuto a che fare con un altro ruminante: con la parola àamah – che significa «vacca» – gli arabi indicavano chi era dedito all’allevamento dei bovini. 
Per concludere un’altra curriosità. L’Etna, che i  siciliani chiamano Mongibello, deve questo nome al fatto che, ai tempi della dominazione araba era chiamato gebel, ossia, molto genericamente, il monte, la montagna.
I normanni credettero che Gebel fosse un nome specifico e quindi ci misero davanti il «Mont». Basta non pronunciare la t (come i francesi) ed arriviamo al Mongibello, che quindi sarebbe il “monte monte”.

L’amore per l’apprendimento

Ho letto du Avvenire del 12 aprile che ai ragazzi italiani la scuola non piace. Questo è quanto risulta dall’indagine Hbsc-Italia 2010, uno studio multicentrico internazionale condotto ogni quattro anni in collaborazione con l’Ufficio regionale dell’Organizzazione mondiale della sanità per l’Europa. Vi partecipano 43 Paesi su 53 stati membri e l’Italia ha iniziato la collaborazione nel 2000. A 77.000 ragazzi italiani di prima e terza media e di seconda superiore, campione rappresentativo di tutte le regioni e di realtà sia statali sia paritarie, è stato somministrato un questionario anonimo con la specifica richiesta di esprimersi sul gradimento della scuola, da “mi piace molto” a “non mi piace per niente”. A livello nazionale risaltano tre macrodati: il gradimento diminuisce al crescere dell’età, ai maschi la scuola piace meno che alle femmine e non vi sono significative differenze regionali. In prima media al 25% dei ragazzi e al 34,5% delle ragazze la scuola “piace molto”, contro il 6,7% dei maschi e il 10,8% delle femmine in seconda superiore. Con questi dati ci collochiamo pesantemente sotto la media internazionale, al quartultimo posto per il livello di gradimento dei quindicenni su 41 Paesi.

Mentre leggevo questa notizia ho pensato ai vari G, L, M (mi vengono in mente solo alcuni), alunni che faccio fatica ad entusiasmare o a coinvolgere. Me li vedo davanti a me, seduti in maniera più o meno scomposta,  annoiati, sofferenti e insofferenti, incapaci di stupirsi ed entusiasmarsi di fronte ad ogni proposta scolastica, qualunque essa sia.

Forse non sono una brava insegnante, o forse è che voi avete deciso, per i motivi più svariati, che la scuola non vi appartiene.
Date un’occhiata a questo video. Non ci sono ragazzi annoiati e insofferenti.
Per questo può offrire lo spunto a qualche riflessione da condivere in classe.

Nel servizio la gioia

Alcuni giorni fa vi parlavo della collaborazione. Oggi vi voglio proporre una riflessione sul servizio, e lo faccio con le parole del poeta indiano Tagore.

Dormivo e sognavo
che la vita era gioia.
Mi svegliai e vidi
che la vita era servizio.
Volli servire e vidi
che servire era gioia.
Vi ricordate quando parlavamo della spensieratezza? e di come sia un’illusione?
Chi pensa che la felicità sia nell’essere spensierati è come se dormisse, e dormendo sogna che la gioia stia nel non avere responsabilità, nè nei confronti di se stessi, nè nei confronti degli altri. Ma come dice il poeta, la vita vera (non quella dei sogni) è servizio. Il servizio è responsabilità, è cura verso qualcuno o qualcosa, è anche fatica, ma nel servizio c’è gioia. Perchè? perchè ti rendi conto del valore della vita, che non può essere gettata via per l’incapacità di essere responsabili.
Il primo servizio che dovete è proprio a voi stessi. Non dovete essere così superficiali da estraniarvi da ogni responsabilità, ma dovete avere a cuore la vostra crescita.
Come?
Siate attenti alle amicizie.
Non cercate esperienze che possono arrivare a distruggervi.
Imparate a donare con gratuità.
Sentitevi responsabili di chi è più indifeso e in difficoltà.
Non continuo con l’elenco, perchè già l’ho fatta lunga. Ma pensateci su.
Meditate ragazzi, meditate!

Buona Pasqua di Risurrezione

Nelle tradizioni popolari, che si esprimono nelle tante processioni del venerdì santo, si dà molto risalto alla passione e morte di Gesù. Nel mio paese la processione è accompagnata da uomini incappucciati che portano in spalla una croce e trascinano catene a piedi nudi. Ai miei occhi di bambina quelle figure mi inquietavano, come il suono sinistro delle catene.
Sarà per questo che alle processioni preferisco le Via Crucis, per riflettere sul mistero di quella morte che anticipa la gioia della risurrezione. Perchè Pasqua è Gesù che risorge, è la vittoria sul male, è il Destino a cui siamo chiamati.
Mi piace pensare, con un po’ di orgoglio femminile, che nulla vuol togliere ai maschi, che noi donne forse siamo più pronte a cogliere la gioia che può nascere dalla sofferenza. Non è un caso che siano state le donne a dare il primo annuncio della Risurrezione e che gli angeli alle donne siano apparsi quando erano sveglie, mentre agli uomini lo hanno fatto solo in sogno. E’ che noi donne siamo capaci, ma non per merito nostro, di andare oltre la realtà, pur rimanendo nella realtà. Forse la dimensione spirituale ci è più facile, forse è la nostra stessa struttura fisica e psichica che ci porta all’attesa e alla speranza. In fondo, soprattutto chi di noi è mamma, ha conosciuto il travaglio del parto e ha sperimentato la gioia di una nuova vita donata al mondo. Accettare la sofferenza, abbandonarcisi nella fiducia che è un passaggio verso la gioia: questa è un’esperienza che solo a noi donne è data.

Mi piace concludere con l’immagine di Maria Maddalena che si reca alla tomba. Ha preparato gli unguenti profumati ed è partita. Non teme per la sua vita e nel buio si incammina per porgere l’ultimo saluto a quel Gesù da cui si era sentita apprezzata, riconosciuta, amata. La notte è stata come un travaglio: paura, delusione, sconcerto hanno attraversato la mente e il cuore dei discepoli. Ma Maria, la madre di Gesù, la Maddalena e le altre donne hanno preparato gli unguenti, si sono fatte forza, perchè nel loro intimo sentivano che ci sarebbe stata una via d’uscita. Non potevano sapere come, perchè ancora tutto era confuso, ma si sono lasciate attraversare dal dolore per lasciare spazio alla speranza. Ecco, in questo noi donne siamo capaci, più forti degli uomini nel sostenere la sofferenza e più disponibili alla speranza.
E Gesù compare alle donne perchè attraverso di esse e con loro, anche gli uomini Lo possano trovare. 
Una bella responsabilità, ma anche una gioia, perchè a noi donne Dio ha riservato il compito di portare alla vita. Ma una vita fisica da sola non basta. Che questa Pasqua faccia riscoprire a noi donne il compito di accompagnare i nostri figli alla vita anche spirituale e ai nostri compagni l’impegno di esserci accanto con il loro senso di realtà e la loro concretezza.
Buona Pasqua a tutti!

La fede non è passività

La fede non è passività. Apre alla vita. È lucidità, stupore, camminare e partecipare alla comprensione della vita. Se non mi stupisco, non capisco il mondo. Non parlo di Dio, ma d’intuire qualcosa che mi sfugge, di curiosità, perché tutti nasciamo e abbiamo davanti a noi la morte. E io sono molto curiosa di sapere: c’è troppa realtà, perché intorno ci sia soltanto questa realtà“.

Susanna Tamaro 

(in http://archiviostorico.corriere.it/2008/novembre/28/Guardarsi_dentro_con_senza_fede_co_9_081128070.shtml)

In preparazione alla Pasqua

I
Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Andrò in giro per le strade

zufolando, così,

fino a che gli altri dicono: è pazzo!

E mi fermerò soprattutto coi bambini

a giocare in periferia,

e poi lascerò un fiore

ad ogni finestra dei poveri

e saluterò chiunque incontrerò sulla via

inchinandomi fino a terra.

E poi suonerò con le mie mani

le campane sulla torre

a più riprese

finché non sarò esausto.

E a chiunque venga

anche al ricco dirò:

siediti pure alla mia mensa,

(anche il ricco è un povero uomo).

E dirò a tutti.

avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso.

II

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Tutto è un suo dono

eccetto il nostro peccato.

Ecco gli darò un`icona

dove lui bambino guarda

agli occhi di sua madre:

così dimenticherà ogni cosa.

Gli raccoglierò dal prato

una goccia di rugiada

– è già primavera

ancora primavera

una cosa insperata

non meritata

una cosa che non ha parole! –

e poi gli dirò d’indovinare

se sia una lacrima

o una perla di sole

o una goccia di rugiada.

E dirò alla gente:

avete visto il Signore?  

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso.

III 

Io vorrei donare una cosa al Signore

ma non so che cosa.

Non credo più neppure alle lacrime,

e queste gioie sono tutte povere:

metterò un garofano rosso sul balcone

canterò una canzone

tutta per lui solo.

Andrò nel bosco questa notte

e abbraccerò gli alberi

e starò in ascolto dell’usignolo,

quell’usignolo che canta sempre solo

da mezzanotte all’alba.

E poi andrò a lavarmi nel fiume

e all’alba passerò sulle porte

di tutti i miei fratelli

e dirò a ogni casa: “pace!”

e poi cospargerò la terra

d`acqua benedetta in direzione

dei quattro punti dell’universo,

poi non lascerò mai morire

la lampada dell’altare

e ogni domenica mi vestirò di bianco.

IV
Io vorrei donare una cosa sola al Signore,

ma non so che cosa.

E non piangerò più

non piangerò più inutilmente;

dirò solo: avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso,

 poi non dirò più niente.

David Maria Turoldo

(tratto dal volume “Le vie della pace” edito dal Comune di Sedegliano e dalla Provincia di Udine, a cura di Nicolino Borgo, ed è posto in appendice all’omelia di P. Turoldo per la Pasqua 1977)

Pesach

La festività di Pesach (Pasqua Ebraica) cade quest’anno 2011 (5771 nel calendario ebraico) dal 19 al 26 aprile.
Vi invito a visitare il sito della comunità ebraica di Bologna, per conoscere il senso di questa festa. Cliccate qui.
Cliccando sull’immagine, potrete scoprire, attraverso un gioco in inglese, il significato dei diversi cibi del Seder pasquale.

Non mi resta che augurare alle comunità ebraiche