NO, LA MELA NO😒

Il racconto del peccato originale non identifica il frutto proibito con la mela. Lo dico e ridico, ma tanto qualcuno ci casca sempre (anche la pubblicità🙄). 
Leggete cosa ho travato nella pagina Facebbok della Comunità ebraica di Roma (ndr il testo è adattato)

La Torà non rivela l’identità del frutto proibito nel Giardino dell’Eden – dicono i nostri Maestri – per timore che si potesse pensare: “Questa è la specie di frutta che portò la morte nel mondo”. 
I commentatori hanno formulato diverse opinioni su questo tema basate su vari indizi che si trovano nella Torà. Forse era grano, oppure uva (secondo lo Zohar – “Il libro dello Splendore”, testo scritto in un fiorito aramaico classico nella Spagna del XIII secolo – Noè piantò dell’uva appena uscì dall’Arca come riparazione del peccato del frutto proibito), fichi (secondo alcuni commentatori c’è un legame perché il fico servì come vestiario perché usato da Adamo ed Eva per coprirsi: “Tramite ciò con cui sono caduti in basso,sono stati rettificati”). Oppure ancora, il cedro, che in ebraico è chiamato “perì etz hadar” (il frutto dell’albero bello) collegato con l’albero della conoscenza del bene e del male che era di bel aspetto, oppure le noci.
Ma allora perché si è sempre detto che fosse la mela? Forse trae origine dalla parola latina malum, che significa “malvagio”, collegata all’altro termine latino malum preso in prestito dal greco che significa mela. 


La scelta per la libertà: scimmie o “santi”?

Immagine: JORIS HOEFNAGEL Animalia Qvadrvpedia et Reptilia (Terra): tavola XXXII, c. 1575/1580 acquarello e tempera, con bordo ovale in oro su pergamena 14,3 x 18, 4 cm National Gallery Londra

Due scimmie, sfuggite al controllo del padrone, hanno preso d’assalto il tavolo della cucina. In questa bella illustrazione che appartiene a un antico libro botanico del XVI secolo, la presenza della mela e delle cipolle non è casuale, perché l’autore ha voluto farci capire qualcosa di molto profondo. 
Provo a spiegarvelo, attingendo dall’articolo di Maria Gloria Riva, pubblicato su Popotus, inserto del giornale Avvenire del 21 gennaio 2021. 
In ebraico “scimmia” si dice Kof, parola che è anche una lettera e un numero, il 100, ma la lettera Kof è anche la lettera della parola santo, Kadosh. Questo significa che l’uomo non può restare neutrale: o si dirige verso il bene (cioè buono al 100 per 100) e raggiunge Dio diventando santo (kadosh), oppure retrocede a ciò che è solo apparentemente umano, ma che è invece scimmiesco (kof, scimmia, appunto). Ecco allora svelato il segreto del cibo delle scimmie qui riprodotte: la mela, frutto del peccato originale (NdR anche se in realtà nel testo biblico il frutto non è definito), simboleggia l’uomo che si allontana dal paradiso (cioè dal suo 100); la cipolla, invece, simboleggia l’inganno del Maligno che presenta all’uomo cose apparentemente buone, ma che poi fanno piangere. 
In questa immagine, una scimmia sta già mangiando mezza mela: è già stata ingannata, l’altra metà della mela, infatti, si trova in primo piano di fianco a una cipolla. La seconda scimmia, invece, è davanti a una mela intatta e ci guarda, quasi volendo chiedere: e tu cosa vuoi fare? 
Le scimmie imitano l’uomo, senza però capire il senso di ciò che fanno, noi umani, invece, possiamo combattere tra l’istinto che ci fa essere scimmia e la “vocazione” a realizzarci pienamente. 
Questa immagine ci dice che se vuoi essere un uomo vero al 100 per 100, cioè santo, non puoi lasciarti vincere dalla falsità e dall’inganno, rimanendo istintivo come la scimmia. 
La libertà, quella vera, è frutto della scelta di abbandonare l’istintività per assumere la responsabilità delle scelte che ci rendono veramente umani e, per questo, santi. 

I magi, dotti in ricerca, viandanti e non vagabondi

In diversi post ho già parlato dei MagI. Mi affascinano questi personaggi, perché in loro vedo tutti coloro che cercano di dare senso alla loro vita. 
 Aggiungo a quanto già trovate nel blog, alcune parti dell’articolo di Mimmo Muolo pubblicato in Avvenire del 07/01/2021, “Non re ma dotti in ricerca. Ecco chi erano, al di là di leggende e fantasie”.

 «Solo dodici versetti all’inizio del secondo capitolo di Matteo. Tanto dura nel Vangelo l’apparizione dei Magi. Eppure la loro fama nel corso dei secoli è cresciuta esponenzialmente, dando vita a una tradizione fantasiosa e multiforme che li ha fatti diventare re, ne ha fissato il numero (tre, probabilmente in relazione ai continenti allora conosciuti e anche al numero dei doni offerti a Gesù, oro incenso e mirra) e gli ha dato un nome: Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. 
Una fortuna comunque meritata, perché il brano evangelico, pur breve, è dotato di un infratesto di grande presa simbolica, che ha giustamente innescato l’immaginario popolare e le tradizioni che affondano le loro radici nei Vangeli apocrifi e in altri testi soprattutto medievali (si veda ad esempio la Legenda Aurea di Giacomo da Varazze, composta tra il 1260 e il 1298). 
Ed è appunto a questo ricco simbolismo che, soprattutto in un tempo particolare come il nostro, conviene fare riferimento […]. Prima di ogni altra cosa bisogna riportare i Magi alla loro vera identità. Non re, ma come è attestato anche da fonti storiche parecchio antecedenti al Vangelo (Erodoto, ad esempio), membri della casta sacerdotale della religione mazdea, il cui culto fu riformato nel VI secolo a.C. da Zarathustra. Essi adoravano il dio unico Ahura Mazda, attendevano un Messia o “Soccorritore” che sarebbe nato da una Vergine e che, annunziato da una stella, avrebbe salvato il mondo. Coltivavano inoltre l’astronomia ed erano dediti all’interpretazione dei sogni, come è attestato in relazione all’imperatore Serse. Questo è sostanzialmente l’identikit che ne fa anche l’evangelista Matteo. Saggi giunti da oriente seguendo una stella (probabilmente l’allineamento di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci, che effettivamente avvenne in quel periodo, dando luogo a un effetto ottico di straordinaria brillantezza). Uomini in ricerca, dunque, sacerdoti e intellettuali contemporaneamente, che abbandonando le loro certezze, si erano messi in cammino, nell’intento di coniugare scienza e fede, intelligenza umana e credenze religiose. […] 
Quanto sia attuale questa pagina evangelica è facile da comprendere in tempi in cui, dopo secoli di rigida separazione post illuminista, è oggi la stessa scienza a essere messa in discussione da atteggiamenti senza alcun fondamento razionale (le polemiche sui vaccini, anche prima del Covid, stanno lì a testimoniarlo), mentre sul piano religioso si assiste al pericoloso ritorno di forme di fondamentalismo disposte a sacrificare sull’altare dei principi ogni forma di carità. Nella ricerca dei Magi confluiscono invece nel giusto mix razionalità, religiosità e anche contemplazione e rispetto del cosmo (la stella o ciò che era), tanto da diventare paradigma anche per la Chiesa della Laudato si’. […] Gli straordinari personaggi che il 6 gennaio giungono ad adorare Gesù offrono inedite prospettive anche alla cultura contemporanea, sfidandola ad agire […]. Anche per quanto riguarda il rapporto con il potere. I Magi, proprio in virtù del proprio bagaglio culturale, non si lasciano ammaliare dalle blandizie di Erode. Fanno sì tesoro delle indicazioni ricevute per il suo tramite, ma una volta incontrato il Bambino ritornano a casa «per un’altra strada». 
E anche in questo caso la metafora è chiara e preziosa. Il cristianesimo è un incontro che cambia la vita. Un incontro offerto a ogni uomo e a ogni donna affinché ognuno diventi a sua volta un “magio”, capace cioè di seguire strade nuove. Il che in tempi di Covid non è solo un’opzione. Ma un imperativo morale». 

Nel biglietto di auguri che ho preparato per questo Natale ho inserito proprio i magi, come metafora di chi si mette in cammino verso una meta, di chi sa accettare le sfide ed è attento ai segni. Di chi, insomma, sa farsi viandante come loro e non si accontenta di essere vagabondo.

Guardiamo il cielo (e al Cielo)

Giove e Saturno, i due pianeti più grandi del sistema solare, dal 21 dicembre appaiono vicinissimi, molto bassi sull’orizzonte, al punto da sembrare quasi un unico oggetto. La congiunzione Giove-Saturno si verifica all’incirca ogni vent’anni (ricordo infatti di averla vista in passato), ma quest’anno è “strettissima” perché i due pianeti appaiono separati di appena un quinto del diametro apparente della Luna piena. Basterebbe dirigere lo sguardo verso sud-ovest dopo il tramonto del Sole per notare questa vicinanza, se non fosse che, per il brutto tempo di questi giorni, è stato impossibile per me e immagino anche per voi. Bisognerà aspettare sessant’anni per rivedere lo stesso spettacolo. Io, è matematico, il 15 marzo del 2080 sarò da qualche altra parte😁. 
Congiunzioni simili a questa si verificarono nel 1623, l’anno in cui Galileo pubblicò il suo ‘Saggiatore’ e nel 1228 e, ancora più indietro, se ne registrò un’altra assai importante, scambiata per il passaggio di una stella cometa. Avete capito che mi sto riferendo al primo Natale della storia e alla luce seguita dai Magi, che ci è sempre stata raccontata come stella cometa. 
Prendendo spunto dall’articolo di Franco Gàbici in Avvenire del 20 dicembre 2020 vi confermo che le ‘stelle comete’ non esistono (le ‘stelle’, infatti, sono corpi grandissimi e caldi mentre le ‘comete’ sono piccole e fredde e dunque l’espressione ‘stella cometa’ è un ibrido privo di qualsiasi significato astronomico), per cui immagino sarete curiosi, come me, di sapere quale fu l’origine di quel fenomeno che mise in viaggio quei sapienti dell’Oriente. 
Come è noto, il nostro calendario è viziato da un errore commesso da Dionigi il Piccolo, un monaco vissuto fra il V e il VI secolo, e tenuto conto di questo errore la nascita di Gesù deve essere collocata fra il 7 e il 4 a.C. e proprio nel 7 a.C. si verificò una congiunzione di Giove e Saturno. Il fenomeno è ricordato da Keplero nel suo trattato De Iesu Christi servatoris nostri vero anno natalitio (1606) ma ancor prima era stato segnalato in un documento della Chiesa anglicana del 1285 e annunciato in alcune tavolette babilonesi (l’Almanacco di Sippar) del I millennio a.C. come evento di grande importanza. La congiunzione, inoltre, fu ‘triplice’ perché nel corso dell’anno si verificò ben tre volte (in maggio, in settembre e in dicembre) nella costellazione dei Pesci, circostanza che prestò il fianco a una lettura astrologica essendo il pesce anche il simbolo di Cristo. Non fu, però, ‘stretta’ come quella di questi giorni, per cui l’evento, di per sé, non fu molto spettacolare ma non sfuggì all’osservazione dei Magi che erano attenti scrutatori del cielo. Del fenomeno si interessò anche Karl Gustav Jung che all’evento dedicò il saggio Il segno dei Pesci . Anche Bartolomeo Garzoni, fratello del famoso poligrafo Tommaso, e perfino Agatha Christie scrissero opere dedicate al fenomeno. 
C’è da aggiungere che, sempre in questo particolarissimo anno 2020, dal 12 dicembre, scrutando il cielo dopo il tramonto ad est, verso le Pleiadi (il gruppo di stelle facilmente identificabile nei pressi della costellazione di Orione), potremmo notare (sempre tempo permettendo) 46P/Wirtanen, una cometa periodica che fa capolino nei nostri cieli ogni cinque anni. 
Quanti segni nel cielo di questo 2020! 
Penso che se guardassimo un po’ più il cielo (anche e soprattutto quello con la C maiuscola) ci renderemmo conto della nostra piccolezza e di quanto sia sciocco vivere in guerra gli uni gli altri. D’altra parte è bastato un piccolo virus per mettere in seria crisi il nostro modo di vivere.
Nel mio biglietto di Natale di quest’anno auguravo di essere viandanti, come i magi, e non vagabondi. Di essere cioè persone che hanno in mente una meta, per quanto misteriosa essa appaia, e non persone che vivono alla giornata, indifferenti ai segni che la vita ci manda. 
Che il cielo di questi giorni ci aiuti ad immaginarci in quel primo presepe di più di 2000 anni fa!😊

Siamo tutti “parenti”

Quanti antenati ha ciascuno di noi? Se si risale indietro nel tempo si arriva presto a cifre da capogiro: miliardi di miliardi di miliardi di avi. Possibile? No, in realtà sono molti meno, come spiega il cartone animato di Bruno Bozzetto e Piero Angela. La conclusione a cui giungere, dopo questa efficace e chiara spiegazione è che siamo in fondo tutti un po’ parenti.  ).
Alla faccia, insomma, di chi crea steccati tra noi e gli altri. 😉
PS. Vi invito a rivedere il il post del 9/03/2017, che giunge per strade diverse alla stessa conclusione, cliccando qui.

 

Quando lo sport vince il razzismo

Su Avvenire del 18 aprile ho letto la storia molto bella, che non conoscevo, di un giocatore di baseball.
Vi riporto l’articolo di Mauro Berruto, che ce la racconta.

«Non sono interessato alla vostra simpatia o antipatia, tutto quello che chiedo è che mi rispettiate come essere umano».
Queste parole sono di Jackie Robinson, uno dei tanti giocatori di baseball passati per la Major League, ma uno dei pochissimi a lasciare un segno indelebile del suo passaggio.

Robinson è il detentore di un record imbattibile: fu il primo giocatore afroamericano ad arrivare nella Lega professionistica Usa. Jackie era stato introdotto allo sport dal suo fratello maggiore, Mack. Uno che, per capirci, aveva vinto la medaglia d’argento ai Giochi Olimpici di Berlino nei 200 metri, dietro a un certo Jesse Owens. Jackie aveva un talento sportivo davvero eclettico e, dopo aver vagabondato fra le discipline principali della cultura nordamericana (basket, football americano, atletica leggera addirittura tennis), scelse il baseball.
Non era neppure lo sport che gli veniva meglio, il suo sogno era giocare a football americano, ma i tempi erano duri e per Jackie l’unica strada che si aprì fu quella di un club di Kansas City che partecipava a quella che si chiamava, senza possibilità di interpretazione, la Negro League, lega riservata ai giocatori afroamericani. Tuttavia il talento, quando è cristallino, attrae interesse, l’interesse (quando si parla di sport professionistico) diventa presto interesse economico e così, pur in mezzo a mille tensioni e minacce, a Jackie venne proposto un contratto per la Major League. Il suo nuovo club, tuttavia, stava superando una specie di confine che fino a quel giorno era stato invalicabile e volle, in qualche modo, tutelarsi. Nel contratto di Jackie c’erano infatti alcune clausole che avevano un comune denominatore: non avrebbe dovuto lamentarsi o reagire mai di fronte a nessuna provocazione dei suoi avversari, dei suoi compagni o dei tifosi specificando con una certa dose di cinica chiarezza che quella richiesta sarebbe stata valida anche se qualcuno gli avesse «sputato in faccia».
Jackie mise la sua firma sotto quelle parole, in cambio di 600 dollari al mese, ma probabilmente consapevole che quanto stava facendo avrebbe, per sempre, cambiato il suo sport.

Fu in quel clima che il 15 aprile 1947, davanti a 23.000 spettatori, esordì all’Ebbets Field di Brooklyn, indossando la maglia n. 42 dei Dodgers.
Insulti, minacce, sputi non mancarono quel giorno, né mai, in ogni stadio e in centinaia di occasioni. Alcuni suoi compagni firmavano petizioni per allontanarlo dalla squadra, svariati avversari si rifiutavano di scendere in campo quando c’era lui. Tuttavia a Jackie bastarono un paio di anni per diventare il trascinatore dei Dodgers verso il titolo e, per forza o per amore, ottenere rispetto a suon di fuoricampo. Nel 1950 diventò addirittura attore, per raccontare in un film la storia della sua vita.

La sua parabola non si fermò: continuò a rompere barriere da atleta, da manager (fu il primo uomo di colore a raggiungere la vicepresidenza di una grande azienda americana nel settore della ristorazione), da imprenditore (fondò una compagnia di costruzione per la realizzazione di case per famiglie a basso reddito). Repubblicano convinto si spese nel mondo della politica e, nel 1962, fu il primo atleta di colore a entrare nella Hall of Fame del baseball americano. Consumato dal diabete morì giovane, appena cinquantatreenne, nel 1972. Il 15 aprile 1997, in occasione del 50esimo da quell’esordio che aveva cambiato per sempre la storia del baseball e degli Stati Uniti, la

Major League chiese a tutti i suoi club di ritirare la maglia numero 42.

Proprio per questo motivo, ogni 15 aprile, il baseball americano festeggia il Jackie Robinson Day in un modo delicato, semplice, simbolico: i giocatori di tutte le squadre della Major League, così come allenatori e arbitri, scendono in campo con il numero 42.
È l’unico giorno in cui è possibile farlo, per commemorare un atleta e un uomo che riceveva minacce di morte ogni volta che varcava l’ingresso di uno stadio e che oggi, proprio all’ingresso dello stadio dove esordì quel famoso 15 aprile, ha, tutto per sé, un monumento alla cui base c’è scritto:

Le lingue dei nomadi

Vi siete mai chiesti che lingua parlano i nomadi?
Ho trovato un’interessante articolo su Popotus dell’8 marzo 2018 che ci aiuta a capire quanto sia complesso e affascinante il mondo di coloro che chiamiamo, in tono sbrigativo e spesso sprezzante, zingari.
«Difficile dare una risposta, perché si tratta di popolazioni che da secoli non risiedono in un luogo fisso, ma sono sparse in varie parti d’Europa e d’Italia e perfino negli Stati Uniti.
Intanto cerchiamo di conoscere e interpretare in modo corretto i nomi degli appartenenti ai vari gruppi di nomadi (chiamati genericamente zingari, parola di origine greca): si distinguono in rom (che nella loro lingua significa “uomo, essere umano”), sinti (parola che deriva da Sindh, regione del Pakistan dalla quale provengono), o camminanti (e in questo caso è facile capire perché si chiamano così).
In Italia le popolazioni nomadi arrivarono nel Quattrocento: oggi i nomadi sono circa 140.000, ma molti di loro hanno preso da tempo la cittadinanza italiana. La loro lingua si chiama romanì o romanés, e comprende tante varietà diverse, a seconda delle lingue con le quali questi gruppi sono venuti in contatto durante i loro viaggi.
La lingua romanì o romanés discende dai dialetti parlati anticamente nell’India settentrionale, da dove quelle popolazioni partirono. Molte parole di questa lingua derivano dal persiano, dal curdo, dall’armeno, dal greco, e stanno a testimoniare il lungo percorso fatto tra l’VIII e il XII secolo d.C. dalle popolazioni nomadi dall’India fino all’Europa. In Italia le comunità rom e sinti si stanziarono anticamente in Piemonte, Lombardia ed Emilia, poi nella prima metà del Novecento arrivarono i rom provenienti dalla Slovenia, dalla Croazia, dall’Istria, dalla Bosnia.
I nazisti perseguitarono i rom e i sinti, che furono deportati nei campi di concentramento: circa 500.000 di loro furono uccisi nei campi di sterminio.

Oggi le minoranze rom in Italia parlano una lingua mescolata con l’italiano, o influenzata dal rumeno e dalle lingue parlate nei Balcani. Se volete avere un’idea di questa lingua, basta ascoltare la canzone Khorakhané dedicata dal grande cantautore Fabrizio De André al popolo khorakhané (che significa “lettori del Corano”), rom musulmani originari del Kosovo che durante la guerra nella ex Jugoslavia si rifugiarono nella zona di Brescia.
I nomadi chiamati “camminanti” (o “siciliani erranti”), invece, sono diffusi in Sicilia, ma anche a Napoli, Roma, Milano, città nelle quali si spostano su roulotte e camper. Non si conosce la loro origine, e qualche studioso pensa che siano i discendenti dei sopravvissuti al terremoto del 1693 che colpì la Val di Noto in Sicilia. I camminanti parlano una lingua diversa, il baccagghiu, molto simile al dialetto siciliano.
Vi lascio il video della canzone di De André: la parte finale della canzone è cantata nella lingua dei
khorakhané.

 

Una croce tra i martiri del Colosseo

Ci fu martirio di cristiani nel Colosseo?
La questione si trascina da tempo. Secondo alcuni storici moderni i cristiani a Roma venivano uccisi in altri contesti come nelle carceri, nel Circo di Nerone (o nelle vicinanze) o addirittura nel Circo Massimo, per non dire lungo le strade o in contesti periferici. Eppure per tradizione noi immaginiamo il Colosseo come luogo di martirio di tanti cristiani. Non è un caso, infatti,  che la Via Crucis del Venerdì Santo, alla presenza del Papa, avvenga in questo luogo, inteso come simbolo delle uccisioni di fedeli in Cristo avvenute a Roma come in tutto il mondo. Studi recenti sembrano avvalorare la fondatezza di questa tradizione.
Durante la recente restaurazione dell’Anfiteatro Flavio (questo è l’altro nome del Colosseo) è stato ritrovato il disegno di una croce  su un tratto di intonaco risalente al terzo secolo. In un primo momento la presenza della croce è stata trascurata, anche perché inserita in un contesto di parole, numeri e segni sovrapposti e risalenti a varie epoche. Quando però Pier Luigi Guiducci, docente di Storia della Chiesa alla Lateranense, si è imbattuto per caso in una fotografia di questo ‘lacerto’ di muro, è scattata una molla. «Ho visto subito la croce in basso a sinistra. Ho notato che era di un colore rosso diverso dal resto delle scritte e ho deciso di approfondire», afferma lo storico. Il tratto di intonaco con la croce si trova nel corridoio di servizio poco illuminato che immette al terzo livello dell’anfiteatro, che storicamente era riservato al popolino. Questa è la prima cosa che ha incuriosito Guiducci, perché mai erano state individuate croci ai piani superiori. Gli unici altri graffiti col simbolo cristiano sono posti al primo livello, negli ambienti prossimi all’arena e gli storici li hanno sempre attribuiti all’epoca medievale, incisi dagli operai addetti all’estrazione di materiali da costruzione oppure da persone che nei secoli hanno sfruttato le strutture del Colosseo come riparo o come abitazione. Teoria che convince Guiducci solo in parte, avendo notato che una di queste semplici croci è analoga a un graffito presente nelle catacombe di Domitilla (II secolo).

Ma cosa ha di diverso la croce trovata al terzo livello?
Intanto il colore. Il rosso che è stato usato per segnarla sul muro è tipico del III secolo e molti ritrovamenti testimoniano che lo stesso pigmento è stato utilizzato proprio nel Colosseo per la decorazione degli intonaci interni. Inoltre la croce è disegnata, in piccolo, fra due grandi lettere ‘T’ e ‘S’, ed è posta, in posizione lievemente sopraelevata, sulla linea grafica che le congiunge alla base. Il suo significato è quindi strettamente collegato a quello delle due lettere che la inscrivono.  Ma qual è la relazione tra questa croce e le lettere? Prima si è pensato all’ipotesi che si trattasse della prima e dell’ultima lettera di un nome romano, come Tarcisius o Theseus. Ma da varie risultanze di graffiti di epoca latina si sa per certo che i romani non avevano l’abitudine di segnare i nomi propri sui muri con la prima e l’ultima lettera, ma li scrivevano per esteso. Vagliate altre ipotesi, Guiducci ha pensato di contestualizzare le due lettere nell’ambiente degli spettacoli che si tenevano nell’arena e nel contesto sociale relativo al suo terzo livello.

Così è giunto alla conclusione che con ‘T’ ed ‘S’ si sia voluta indicare la parola Taurus.

Fra la seconda metà del secondo secolo e tutto il terzo secolo i tori erano fra gli animali più usati nelle arene per i combattimenti con gladiatori, per i combattimenti fra animali, ma anche per uccidere i condannati a morte ( damnatio ad bestias). Da numerose attestazioni sappiamo che anche tanti cristiani, condannati a morte perché non abiuravano, venivano condotti nelle arene per subire la stessa sorte di tanti criminali. Ignazio di Antiochia, per esempio, subì questa sorte nel 107 e proprio nell’anfiteatro Flavio.
In alcune particolare occasioni, come per la celebrazione di importanti vittorie militari, al Colosseo si indicevano ‘giochi’ di festeggiamento che duravano mesi e gli ‘spettacoli’ erano anche tre al giorno, con l’impiego di migliaia di animali e di uomini: per la vittoria sui Daci, l’imperatore Traiano organizzò 123 giorni di combattimenti. Come nel caso di Ignazio, i condannati venivano ‘importati’ per l’occorrenza da varie parti dell’impero. E per condannare dei cristiani a morte ci voleva davvero poco. Tertulliano alla fine del secondo secolo scrive che qualunque cosa accadesse nell’impero, «che tracimasse il Tevere o vennise a piovere», subito si alzava il grido « Christianos ad leonem ».

Ecco allora che la croce inscritta nella parola ‘taurus’ disegnata col rosso nel buio corridoio che conduceva al terzo anello del Colosseo, destinato al popolo urlante, acquista il tono di una chiara invocazione alla misericordia, una affidamento al Cristo che salva, per il cristiano che ha appena trovato, o sta trovando la morte lacerato da un toro, nella sottostante arena. Insomma, quella croce posta a congiunzione fra le lettere ‘T’ e ‘S’ è in qualche modo una sorta di attestazione storica che nel Colosseo, fra secondo e terzo secolo, c’è stato chi ha avuto piena coscienza che un cristiano era morto ad bestias e ne ha avuto pietà.
Tratto e adattato da Avvenire del 14/12/2017 a firma di Roberto I. Zanini