NO, LA MELA NO😒
Ma allora perché si è sempre detto che fosse la mela? Forse trae origine dalla parola latina malum, che significa “malvagio”, collegata all’altro termine latino malum preso in prestito dal greco che significa mela.
Immagine: JORIS HOEFNAGEL Animalia Qvadrvpedia et Reptilia (Terra): tavola XXXII, c. 1575/1580 acquarello e tempera, con bordo ovale in oro su pergamena 14,3 x 18, 4 cm National Gallery Londra |
Su Avvenire del 18 aprile ho letto la storia molto bella, che non conoscevo, di un giocatore di baseball.
Vi riporto l’articolo di Mauro Berruto, che ce la racconta.
«Non sono interessato alla vostra simpatia o antipatia, tutto quello che chiedo è che mi rispettiate come essere umano».
Queste parole sono di Jackie Robinson, uno dei tanti giocatori di baseball passati per la Major League, ma uno dei pochissimi a lasciare un segno indelebile del suo passaggio.
Robinson è il detentore di un record imbattibile: fu il primo giocatore afroamericano ad arrivare nella Lega professionistica Usa. Jackie era stato introdotto allo sport dal suo fratello maggiore, Mack. Uno che, per capirci, aveva vinto la medaglia d’argento ai Giochi Olimpici di Berlino nei 200 metri, dietro a un certo Jesse Owens. Jackie aveva un talento sportivo davvero eclettico e, dopo aver vagabondato fra le discipline principali della cultura nordamericana (basket, football americano, atletica leggera addirittura tennis), scelse il baseball.
Non era neppure lo sport che gli veniva meglio, il suo sogno era giocare a football americano, ma i tempi erano duri e per Jackie l’unica strada che si aprì fu quella di un club di Kansas City che partecipava a quella che si chiamava, senza possibilità di interpretazione, la Negro League, lega riservata ai giocatori afroamericani. Tuttavia il talento, quando è cristallino, attrae interesse, l’interesse (quando si parla di sport professionistico) diventa presto interesse economico e così, pur in mezzo a mille tensioni e minacce, a Jackie venne proposto un contratto per la Major League. Il suo nuovo club, tuttavia, stava superando una specie di confine che fino a quel giorno era stato invalicabile e volle, in qualche modo, tutelarsi. Nel contratto di Jackie c’erano infatti alcune clausole che avevano un comune denominatore: non avrebbe dovuto lamentarsi o reagire mai di fronte a nessuna provocazione dei suoi avversari, dei suoi compagni o dei tifosi specificando con una certa dose di cinica chiarezza che quella richiesta sarebbe stata valida anche se qualcuno gli avesse «sputato in faccia».
Jackie mise la sua firma sotto quelle parole, in cambio di 600 dollari al mese, ma probabilmente consapevole che quanto stava facendo avrebbe, per sempre, cambiato il suo sport.
Fu in quel clima che il 15 aprile 1947, davanti a 23.000 spettatori, esordì all’Ebbets Field di Brooklyn, indossando la maglia n. 42 dei Dodgers.
Insulti, minacce, sputi non mancarono quel giorno, né mai, in ogni stadio e in centinaia di occasioni. Alcuni suoi compagni firmavano petizioni per allontanarlo dalla squadra, svariati avversari si rifiutavano di scendere in campo quando c’era lui. Tuttavia a Jackie bastarono un paio di anni per diventare il trascinatore dei Dodgers verso il titolo e, per forza o per amore, ottenere rispetto a suon di fuoricampo. Nel 1950 diventò addirittura attore, per raccontare in un film la storia della sua vita.
La sua parabola non si fermò: continuò a rompere barriere da atleta, da manager (fu il primo uomo di colore a raggiungere la vicepresidenza di una grande azienda americana nel settore della ristorazione), da imprenditore (fondò una compagnia di costruzione per la realizzazione di case per famiglie a basso reddito). Repubblicano convinto si spese nel mondo della politica e, nel 1962, fu il primo atleta di colore a entrare nella Hall of Fame del baseball americano. Consumato dal diabete morì giovane, appena cinquantatreenne, nel 1972. Il 15 aprile 1997, in occasione del 50esimo da quell’esordio che aveva cambiato per sempre la storia del baseball e degli Stati Uniti, la
Major League chiese a tutti i suoi club di ritirare la maglia numero 42.
Proprio per questo motivo, ogni 15 aprile, il baseball americano festeggia il Jackie Robinson Day in un modo delicato, semplice, simbolico: i giocatori di tutte le squadre della Major League, così come allenatori e arbitri, scendono in campo con il numero 42.
È l’unico giorno in cui è possibile farlo, per commemorare un atleta e un uomo che riceveva minacce di morte ogni volta che varcava l’ingresso di uno stadio e che oggi, proprio all’ingresso dello stadio dove esordì quel famoso 15 aprile, ha, tutto per sé, un monumento alla cui base c’è scritto:
Vi siete mai chiesti che lingua parlano i nomadi?
Ho trovato un’interessante articolo su Popotus dell’8 marzo 2018 che ci aiuta a capire quanto sia complesso e affascinante il mondo di coloro che chiamiamo, in tono sbrigativo e spesso sprezzante, zingari.
«Difficile dare una risposta, perché si tratta di popolazioni che da secoli non risiedono in un luogo fisso, ma sono sparse in varie parti d’Europa e d’Italia e perfino negli Stati Uniti.
Intanto cerchiamo di conoscere e interpretare in modo corretto i nomi degli appartenenti ai vari gruppi di nomadi (chiamati genericamente zingari, parola di origine greca): si distinguono in rom (che nella loro lingua significa “uomo, essere umano”), sinti (parola che deriva da Sindh, regione del Pakistan dalla quale provengono), o camminanti (e in questo caso è facile capire perché si chiamano così).
In Italia le popolazioni nomadi arrivarono nel Quattrocento: oggi i nomadi sono circa 140.000, ma molti di loro hanno preso da tempo la cittadinanza italiana. La loro lingua si chiama romanì o romanés, e comprende tante varietà diverse, a seconda delle lingue con le quali questi gruppi sono venuti in contatto durante i loro viaggi.
La lingua romanì o romanés discende dai dialetti parlati anticamente nell’India settentrionale, da dove quelle popolazioni partirono. Molte parole di questa lingua derivano dal persiano, dal curdo, dall’armeno, dal greco, e stanno a testimoniare il lungo percorso fatto tra l’VIII e il XII secolo d.C. dalle popolazioni nomadi dall’India fino all’Europa. In Italia le comunità rom e sinti si stanziarono anticamente in Piemonte, Lombardia ed Emilia, poi nella prima metà del Novecento arrivarono i rom provenienti dalla Slovenia, dalla Croazia, dall’Istria, dalla Bosnia.
I nazisti perseguitarono i rom e i sinti, che furono deportati nei campi di concentramento: circa 500.000 di loro furono uccisi nei campi di sterminio.
Oggi le minoranze rom in Italia parlano una lingua mescolata con l’italiano, o influenzata dal rumeno e dalle lingue parlate nei Balcani. Se volete avere un’idea di questa lingua, basta ascoltare la canzone Khorakhané dedicata dal grande cantautore Fabrizio De André al popolo khorakhané (che significa “lettori del Corano”), rom musulmani originari del Kosovo che durante la guerra nella ex Jugoslavia si rifugiarono nella zona di Brescia.
I nomadi chiamati “camminanti” (o “siciliani erranti”), invece, sono diffusi in Sicilia, ma anche a Napoli, Roma, Milano, città nelle quali si spostano su roulotte e camper. Non si conosce la loro origine, e qualche studioso pensa che siano i discendenti dei sopravvissuti al terremoto del 1693 che colpì la Val di Noto in Sicilia. I camminanti parlano una lingua diversa, il baccagghiu, molto simile al dialetto siciliano.
Vi lascio il video della canzone di De André: la parte finale della canzone è cantata nella lingua dei
khorakhané.
Nel nostro viaggio alla scoperta dei luoghi e dei gesti per incontrare Dio, ci siamo imbattuti nel brano del Vangelo in cui si racconta dell’incontro tra Gesù e la donna samaritana. Sicar è la città citata nel Vangelo di Giovanni e lì si trovava un pozzo di Giacobbe. E’ possibile identificare questo luogo?
Ci fu martirio di cristiani nel Colosseo?
La questione si trascina da tempo. Secondo alcuni storici moderni i cristiani a Roma venivano uccisi in altri contesti come nelle carceri, nel Circo di Nerone (o nelle vicinanze) o addirittura nel Circo Massimo, per non dire lungo le strade o in contesti periferici. Eppure per tradizione noi immaginiamo il Colosseo come luogo di martirio di tanti cristiani. Non è un caso, infatti, che la Via Crucis del Venerdì Santo, alla presenza del Papa, avvenga in questo luogo, inteso come simbolo delle uccisioni di fedeli in Cristo avvenute a Roma come in tutto il mondo. Studi recenti sembrano avvalorare la fondatezza di questa tradizione.
Durante la recente restaurazione dell’Anfiteatro Flavio (questo è l’altro nome del Colosseo) è stato ritrovato il disegno di una croce su un tratto di intonaco risalente al terzo secolo. In un primo momento la presenza della croce è stata trascurata, anche perché inserita in un contesto di parole, numeri e segni sovrapposti e risalenti a varie epoche. Quando però Pier Luigi Guiducci, docente di Storia della Chiesa alla Lateranense, si è imbattuto per caso in una fotografia di questo ‘lacerto’ di muro, è scattata una molla. «Ho visto subito la croce in basso a sinistra. Ho notato che era di un colore rosso diverso dal resto delle scritte e ho deciso di approfondire», afferma lo storico. Il tratto di intonaco con la croce si trova nel corridoio di servizio poco illuminato che immette al terzo livello dell’anfiteatro, che storicamente era riservato al popolino. Questa è la prima cosa che ha incuriosito Guiducci, perché mai erano state individuate croci ai piani superiori. Gli unici altri graffiti col simbolo cristiano sono posti al primo livello, negli ambienti prossimi all’arena e gli storici li hanno sempre attribuiti all’epoca medievale, incisi dagli operai addetti all’estrazione di materiali da costruzione oppure da persone che nei secoli hanno sfruttato le strutture del Colosseo come riparo o come abitazione. Teoria che convince Guiducci solo in parte, avendo notato che una di queste semplici croci è analoga a un graffito presente nelle catacombe di Domitilla (II secolo).
Ma cosa ha di diverso la croce trovata al terzo livello?
Intanto il colore. Il rosso che è stato usato per segnarla sul muro è tipico del III secolo e molti ritrovamenti testimoniano che lo stesso pigmento è stato utilizzato proprio nel Colosseo per la decorazione degli intonaci interni. Inoltre la croce è disegnata, in piccolo, fra due grandi lettere ‘T’ e ‘S’, ed è posta, in posizione lievemente sopraelevata, sulla linea grafica che le congiunge alla base. Il suo significato è quindi strettamente collegato a quello delle due lettere che la inscrivono. Ma qual è la relazione tra questa croce e le lettere? Prima si è pensato all’ipotesi che si trattasse della prima e dell’ultima lettera di un nome romano, come Tarcisius o Theseus. Ma da varie risultanze di graffiti di epoca latina si sa per certo che i romani non avevano l’abitudine di segnare i nomi propri sui muri con la prima e l’ultima lettera, ma li scrivevano per esteso. Vagliate altre ipotesi, Guiducci ha pensato di contestualizzare le due lettere nell’ambiente degli spettacoli che si tenevano nell’arena e nel contesto sociale relativo al suo terzo livello.
Così è giunto alla conclusione che con ‘T’ ed ‘S’ si sia voluta indicare la parola Taurus.
Fra la seconda metà del secondo secolo e tutto il terzo secolo i tori erano fra gli animali più usati nelle arene per i combattimenti con gladiatori, per i combattimenti fra animali, ma anche per uccidere i condannati a morte ( damnatio ad bestias). Da numerose attestazioni sappiamo che anche tanti cristiani, condannati a morte perché non abiuravano, venivano condotti nelle arene per subire la stessa sorte di tanti criminali. Ignazio di Antiochia, per esempio, subì questa sorte nel 107 e proprio nell’anfiteatro Flavio.
In alcune particolare occasioni, come per la celebrazione di importanti vittorie militari, al Colosseo si indicevano ‘giochi’ di festeggiamento che duravano mesi e gli ‘spettacoli’ erano anche tre al giorno, con l’impiego di migliaia di animali e di uomini: per la vittoria sui Daci, l’imperatore Traiano organizzò 123 giorni di combattimenti. Come nel caso di Ignazio, i condannati venivano ‘importati’ per l’occorrenza da varie parti dell’impero. E per condannare dei cristiani a morte ci voleva davvero poco. Tertulliano alla fine del secondo secolo scrive che qualunque cosa accadesse nell’impero, «che tracimasse il Tevere o vennise a piovere», subito si alzava il grido « Christianos ad leonem ».
Ecco allora che la croce inscritta nella parola ‘taurus’ disegnata col rosso nel buio corridoio che conduceva al terzo anello del Colosseo, destinato al popolo urlante, acquista il tono di una chiara invocazione alla misericordia, una affidamento al Cristo che salva, per il cristiano che ha appena trovato, o sta trovando la morte lacerato da un toro, nella sottostante arena. Insomma, quella croce posta a congiunzione fra le lettere ‘T’ e ‘S’ è in qualche modo una sorta di attestazione storica che nel Colosseo, fra secondo e terzo secolo, c’è stato chi ha avuto piena coscienza che un cristiano era morto ad bestias e ne ha avuto pietà.
Tratto e adattato da Avvenire del 14/12/2017 a firma di Roberto I. Zanini
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