The Gospel Trail

Un itinerario lungo i luoghi della vita di Gesù: questo è il Gospel Trail (il sentiero del Vangelo). L’itinerario si snoda attraverso il nord di Israele e segue letteralmente i luoghi più importanti del Nuovo Testamento. Sono circa 62 km di lunghezza con un percorso che si dirige a sud di Nazareth attraverso diverse città ebraiche e arabe fino a Cafarnao, il villaggio di pescatori dove fece base più volte Gesù.
Il pittoresco inizio del sentiero, con il Monte del Precipizio ricorda ai visitatori l’episodio Gesù che rischiò di essere quasi buttato giù da una rupe dopo una predica tenuta in una vicina sinagoga. Il percorso poi si snoda attraverso la valle di Jezreel e con deviazione sul Monte Tabor, il luogo della Trasfigurazione. C’è anche un sentiero laterale che porta a Kfar Kana, il luogo delle famose Nozze di Cana, in cui Gesù trasformò l’acqua in vino, secondo il Nuovo Testamento. Da non perdere anche la salita al Monte delle Beatitudini.

Monti e alture nelle Sacre Scritture

Da POPOTUS del 25 novembre 2010

L’arca di Noé si sarebbe fermata sul monte Ararat, nell’attuale Turchia o in Armenia.
Abramo è stato inviato da Dio sullo sconosciuto monte Moria per sacrificare il figlio Isacco (per fortuna poi un angelo lo fermò in tempo…). Mosé ha ricevuto il decalogo sul Sinai. Il profeta Elia ha sentito passare Javhé in un vento leggero mentre stava a pregare sul monte Oreb… Si potrebbe dire, senza paura di sbagliare troppo, che tutta la Bibbia è come una lunga catena montuosa, nella quale i protagonisti scalano le cime per parlare direttamente con Dio.
Persino Gerusalemme e il suo tempio sono costruiti su un’altura, quella di Sion, che infatti viene subito ribattezzata «santo monte» o «monte del Signore».
Nei salmi, addirittura, Dio stesso viene talvolta paragonato a una «rupe» o una «roccia» solida, cui aggrapparsi nei momenti di pericolo. Ma anche nel Vangelo si scalano tante montagne; basta pensare al monte delle Beatitudini, per esempio, che è poi una collina della Galilea presso il lago di Tiberiade: un rilievo di appena 150 metri, sufficiente però per fornire a Gesù un piedestallo da cui annunciare alla folla il messaggio forse più rivoluzionario della Storia. Il Nazareno sale su un «alto monte» anche per la trasfigurazione, ovvero per mostrarsi in tutta la sua abbagliante gloria ai tre discepoli prediletti: Pietro, Giacomo e Giovanni; il Vangelo non specifica di quale montagna si tratta, però la tradizione l’ha identificata nel Tabor, sempre nei pressi di Tiberiade. Altri monti importantissimi nella storia di Cristo sono il monte degli Ulivi dove passò l’ultima notte, ovviamente il Calvario o Golgota – la roccia appena fuori di Gerusalemme dove venivano portati i condannati a morte, e sulla quale anche Gesù fu crocifisso –, il monte della Galilea sul quale il Risorto apparve agli apostoli, infine la cima dell’ascensione al cielo, ancora presso Gerusalemme. È evidente che non si tratta di luoghi casuali: anzi, sembra che il Salvatore scelga proprio un posto elevato tutte le volte che vuole manifestarsi al mondo. La trasfigurazione, la crocifissione, la resurrezione… E allora perché non la nascita? Ecco forse il senso più profondo nella scelta di mettere il presepio su una montagna: è il posto più vicino al cielo e quello dal quale Gesù Bambino può mostrarsi al mondo. Come un faro.

Dov’è l’Ararat?

Da Avvenire del 19 settembre 2010, servizio di Aldo Ferrari

La fama universale del monte Ararat – il monte di Noé, il monte dell’Arca, dal quale la vita riprese dopo il diluvio universale – si basa sul celebre passo di Genesi 8,4: «Nel settimo mese, il 17 del mese, l’arca si posò sui monti dell’Ararat [al harey Ararat]». Piuttosto che ad un monte specifico, questa espressione ebraica appare infatti riferibile a una regione di montagna, secondo il duplice significato del termine har. Tale regione montuosa va senz’altro identificata con l’Urartu, il vasto territorio compreso tra i laghi di Van, Urmia e Sevan in cui fiorì tra il X ed il VI secolo a.C. un regno potente, a lungo rivale di quello assiro e distrutto infine dai Medi. Ararat e Urartu sono infatti solo diverse vocalizzazione della stessa parola.

Tuttavia, a partire dal VI secolo a.C., in conseguenza della fusione degli abitanti originari con popolazioni di lingua indoeuropea, la regione dell’antico regno urarteo inizio ad essere denominata Armina nelle fonti persiane. Da allora e sino al genocidio del 1915 questo territorio e stato universalmente conosciuto come Armenia. L’identificazione tra l’Urartu/Armenia e la regione dei «monti dell’Ararat» su cui si fermò l’Arca di Noé risulta in effetti assai antica e diffusa in tutto il mondo cristiano, condivisa già da Efrem il Siro e san Girolamo. Non a caso, nella Vulgata l’espressione al harey Ararat è tradotta con super montes Armeniae.

L’esatta localizzazione dell’Ararat costituisce invece un problema di difficile soluzione; per alcuni persino un falso problema, derivante soprattutto dal desiderio di precisare una geografia ben poco definita come quella biblica. Si tratta in ogni caso di una questione complessa, affascinante, per molti aspetti anche sorprendente. A partire dal fatto che nessuno dei popoli dell’area usa il termine Ararat per indicare il massiccio vulcanico che oggi viene comunemente identificato con il monte sul quale discese l’Arca di Noé. Gli Armeni, infatti, lo chiamano Masis, i Curdi Ciyaye Agiri (monte Fiero), i Turchi Aéri Daéi (monte Penoso), gli Arabi Jabal al-Haret (monte dell’Aratore). Il nome persiano, invece, ricollega esplicitamente questo monte alla narrazione biblica: Kuh-i-Nuh,
vale a dire monte di Noé.

Inoltre, l’identificazione di questo monte con l’Ararat biblico risulta piuttosto recente. Anticamente, infatti, l’Ararat era collocato più a sud, nella regione montuosa nota come Corduene/Kordukh, situata all’interno dell’Armenia storica, ma collegata anche ai Curdi, che per millenni hanno abitato territori posti ai confini meridionali di quelli armeni. Così, nelle Antichità giudaiche Giuseppe Flavio ricorda che l’Arca sarebbe approdata sul «monte dei Kordyaioi», mentre le versioni siriache della Bibbia rendono il toponimo Ararat con Ture Kardu, vale a dire «monti del Kurdistan». In questa tradizione il luogo in cui si posò l’Arca era individuato nel monte Judi, una vetta di circa 2100 metri situata nel sud dell’odierna Turchia; tale localizzazione venne in seguito accolta anche nel Corano.

Questa collocazione meridionale dell’Ararat è presente anche nei primi testi armeni. La controversa opera storica del V secolo, tradizionalmente attribuita a Fausto di Bisanzio, narra che il vescovo siriaco Giacomo di Nisibi, vissuto circa un secolo prima, era stato «prescelto da Dio perche andasse dalla sua città sulle montagne dell’Armenia, sul monte Sararad, nel territorio della signoria dell’Ayrarat, nella provincia di Korduk… Costui, una volta giunto, mosso da un ardente e impetuoso desiderio, supplicava Dio di poter vedere l’arca della salvezza costruita da Noé, che si era fermata su quel monte dopo il diluvio».

Come è stato osservato, mentre il toponimo Ayrarat – evidentemente collegato a Urartu/Ararat – designa la regione centrale del regno d’Armenia, il monte Sararad al quale fa riferimento questo testo «coincide di fatto con il toponimo Ararad con cui la Bibbia armena, agli inizi del v secolo, rendeva il greco della Settanta». In quest’epoca, dunque, gli Armeni condividevano con i loro vicini la collocazione meridionale dell’Ararat biblico, ai confini della Mesopotamia, peraltro sempre all’interno del loro territorio storico. La tardiva identificazione da parte degli Armeni dell’Ararat biblico con il monte al quale viene oggi generalmente associato è evidenziata anche dal fatto che, come si è detto, essi lo chiamano tradizionalmente Masis.

Per la verità esistevano altri monti di questo nome nell’altopiano armeno: uno nei pressi del lago di Van, oggi noto come monte Sipan, un altro nel Tauro orientale. Anche l’eroe sumero Gilgamesh, nella sua ricerca dell’immortalità, raggiunse un monte chiamato in maniera assai simile, Mashu, collocato all’estremità settentrionale del mondo; il che, per un abitante della Mesopotamia, poteva ben significare l’altopiano armeno. Non vi è dubbio, tuttavia, che sia proprio il Masis più settentrionale, quello attualmente identificato con l’Ararat biblico, ad avere un posto centrale nella storia e nella cultura armena sin dall’antichità. In ogni caso, indipendentemente dall’identificazione con l’Ararat biblico, il Masis ha sempre avuto un significato particolarissimo nella coscienza degli Armeni, che lo chiamavano «Azatn Masis», cioè «libero» o «nobile».

Soprattutto la sua vetta più alta era ritenuta particolarmente sacra, perché considerata il luogo in cui il sole riposava nelle ore notturne e vivevano i khaj, esseri mitici protettori dei re armeni. Dal carattere sacrale di questa vetta nasceva anche il divieto di raggiungerla. Cosa che secondo la tradizione riportata da un altro controverso autore del V secolo, Agatangelo, avrebbe fatto solo il re Trdat (Tiridate), pochi anni dopo la conversione dell’Armenia al cristianesimo – avvenuta tradizionalmente nel 301 – e unicamente allo scopo di trarvi delle pietre da utilizzare per la costruzione delle chiese. Tra gli Armeni, dunque, il Masis godeva di un enorme – pur se per molti aspetti inquietante – prestigio ancor prima della sua identificazione con l’Ararat biblico, iniziata solo a partire dal XII secolo, dopo l’intenso contatto che gli Armeni ebbero con il mondo cristiano occidentale in seguito alle Crociate. I missionari cattolici ed altri viaggiatori che da allora attraversarono l’Armenia riportarono infatti in Europa la notizia che il monte dell’Arca si trovava all’interno di questo Paese.

E non nelle regioni meridionali, i cui monti non spiccano per particolare imponenza, ma nella vetta più alta del territorio armeno. A questo, tuttavia, gli Armeni aggiunsero anche un’attenzione particolare alla figura di Noé come primo viticoltore. Una volta identificato il Masis con l’Ararat, fu agevole affermare che «uscendo dall’Arca e discendendo dalla montagna, Noé piantò un giardino in quel luogo». In questo modo l’immagine dell’Ararat si fonde nella cultura armena con quella della vigna, del giardino. E, nonostante le tragiche vicende storiche subite da questa terra, presto iniziò a diffondersi anche l’identificazione dell’Armenia con il Giardino dell’Eden.

La Domenica delle Palme

La processione delle Palme? Parte dalla «casa dei fichi»… No, non si tratta di uno scambio di alberi: pare infatti che, per entrare in Gerusalemme la domenica del suo apparente trionfo, sulla groppa di un asinello e tra due ali di folla festante, Gesù si avviò proprio da Betfage, un sobborgo alle pendici del monte degli Ulivi il cui nome significa appunto «casa dei fichi».

Oggi in quel luogo sorge una chiesetta, al centro della quale sta una grande roccia decorata con affreschi antichi: la leggenda vuole che quel masso squadrato sia servito come una specie di «scaletta» per far salire il Signore in groppa alla sua cavalcatura.
Che non a caso era un asino: infatti esso (e non il maestoso e possente cavallo, animale adatto alla guerra) serviva da mezzo di trasporto ai re d’Israele quando volevano indicare che le loro intenzioni erano pacifiche. L’ingresso di Gesù nella Città santa – così come è descritto dagli evangelisti – in realtà non è soltanto un semplice momento di festa o un superficiale trionfo: si trattò invece di un rito preciso, quello delle Capanne, quando gli ebrei agitavano mazzetti verdi composti da un ramoscello di palma, due di salice e tre di mirto legati insieme con un cordone dorato e nastri colorati. Una festa di pace, dunque: come simbolo universale di pace e di concordia è appunto l’ulivo, fin dai tempi del diluvio universale. È perciò una doppia tristezza il fatto che proprio accanto al santuario di Betfage sia sorto da pochi anni il muro in cemento che separa le zone palestinesi da quelle israeliane: forse oggi Gesù non avrebbe potuto entrare facilmente a Gerusalemme…

da Popotus di sabato 27/03/2010

Gesù, lo sconosciuto più noto della storia

Nell’ottobre 2002 fu portata alla luce una cassetta di ossa, un “ossario” con l’iscrizione “Giacomo, figlio di Giuseppe, fratello di Gesù”. In alcuni giornali si lesse che quella era la prima prova della sicura esistenza di Gesù. Ma i Vangeli e le Lettere del Nuovo Testamento non sono fonti storiche? Si squalificano sul piano scientifico quegli studiosi che negano validità storica ai Vangeli e agli altri scritti del Nuovo Testamento, perchè gli evangelisti, pur non scrivendo un libro di storia, volevano essere misurati secondo i criteri degli storici dell’antichità e sapevano che i loro lettori questo si aspettavano. A tal proposito, Luca è molto chiaro. Nel prologo del suo Vangelo infatti scrive:
1 Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, 2come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, 3così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, 4in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto”.
Più chiaro di cosi!
Quindi, soltanto chi vuol togliere valore storico al Nuovo Testamento può giungere a ritenere che l’ossario di Giacomo sia la prima prova sicura dell’esistenza di Gesù.
Non si possono neanche ignorare o sminuire autori dell’antica Roma, come lo storico Tacito, per non parlare di Svetonio o Plinio il giovane, nonchè lo storico ebreo Giuseppe Flavio, che hanno accennato a questo personaggio della storia di nome Gesù.
Ci sono anche reperti archeologi che confermano l’esistenza di Gesù. Ad esempio, nel sottosuolo della cosiddetta tomba di Davide, sulla collina di Sion, si è trovata una nicchia rivolta in direzione del Golgota e contenente rotoli delle Sacre Scritture, nonchè invocazioni a Gesù e formule cristiane di preghiera. Questa tomba era stata una sinagoga giudeo – cristiana attiva verso la fine degli anni Settanta del I secolo.
Un altro elemento che conferma la storicità dei Vangeli e di Gesù è dato dal ritrovamento delle ossa di Alessandro, figlio di Simone di Cirene, quel Simone cioè, che portò il legno trasversale della croce di Gesù (vedere Mc 15,21). Un altro importante ritrovamento archeologico che si riferisce a Gesù è la casa di Pietro che è stata ritrovata a Cafarnao. Questa casa non esisterebbe, con gli adattamenti per renderla luogo di riunione per la comunità giudeo-cristiana, se non fosse stata la casa del primo degli apostoli di Gesù, e se non fosse risaputo che Gesù stesso lì vi aveva soggiornato.
A conti fatti, su Gesù abbiamo testimonianze di gran lunga superiori a quelle di altri personaggi della Storia, considerato il fatto che, per chi non era suo seguace, egli era un perfetto sconosciuto.

L’immagine è quella della casa di Pietro a Cafarnao

Vi pregò Gesù?

A Migdal, sulla costa del Mare di Galilea, il luogo in cui i cristiani ritengono sia nata Maria Maddalena, sono venuti alla luce i resti di una sinagoga risalente a oltre 2.000 anni fa.
Secondo gli storici venne costruita presumibilmente intorno al 50 a.C, ed è uno dei sette luoghi di culto che risalgono al periodo precedente la costruzione del secondo tempio.
La direttrice degli scavi ritiene possibile che Gesù abbia pregato in quella sinagoga, perchè Migdal a quel tempo era una città molto importante. Dalla testimonianza dei Vangeli, sappiamo che Gesù trascorse infatti molto tempo in preghiera sulle coste del Mar di Galilea e che lì compì molti miracoli.
L’elemento più interessante dello scavo è una pietra scolpita, ritrovata nel centro dell’edificio di 11 metri per 11. Su di essa appaiono vari segni, tra cui una menorah, il candelabro a sette braccia; a quanto pare è la menorah più antica ritrovata finora in una sinagoga.
Magdala dista solo sette chilometri dall’antica Cafarnao, luogo dove Gesù si stabilì durante il suo ministero pubblico.
Si può dire che in luoghi della Galilea come Magdala sia nato il cristianesimo come comunità di credenti in Cristo, perché fino all’anno della distruzione del Tempio di Gerusalemme i cristiani spesso condividevano con gli ebrei le loro sinagoghe. Solo dopo quell’evento, intorno all’anno 70, ci fu una separazione più definita tra ebrei e cristiani e questi ultimi crearono i propri luoghi di riunione e di culto.

Il museo del Buon Samaritano

Un caravanserraglio tra le colline aride del Deserto di Giuda, lungo la strada tra Gerusalemme e Gerico, è stato identificato come il luogo della locanda di cui si parla nella parabola del Buon Samaritano. Ovviamente è impossibile dire con certezza che la locanda si trovasse proprio lì, anche perchè Gesù racconta una parabola, non un episodio particolare. Tanti però sono gli indizi che qualche sospetto ce lo fanno venire. Intanto questo posto è archeologicamente importante, perchè già in epoca bizantina i pellegrini si fermavano proprio qui a leggere la parabola. Inoltre è stato trovato un graffito in latino risalente all’epoca medievale che recita questa frase: “Se persino sacerdoti e leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che Cristo è il Buon Samaritano che avrà sempre compassione di te e nell’ora della tua morte ti porterà alla locanda eterna“.
Vedetevi questo filmato per saperne di più: