Essere generativi

Mi è capitato di dirvi che si è genitori non solo per il fatto di aver messo al mondo dei figli.
Un genitore deve fare molto di più: deve accompagnare il proprio figlio alla vita, lo deve educare, lo deve anche lasciare andare quando è il momento. Perché la vita va affrontata, le responsabilità vanno prese e sono personali (del mio comportamento, insomma, ne rispondo io).
C’è anche un modo di essere genitori che va oltre il generare biologico.
Vi riporto alcuni passi di un articolo, molto bello, che ho letto su Avvenire dell’ 11 marzo, scritto da Mauro Magatti e Chiara Giaccardi:

«In realtà, generare è sempre molto di più di un atto biologico: è simbolico, politico, antropologico. È, cioè, farsi tramite perché qualcosa che vale, grazie a noi (alla nostra disponibilità prima che alla nostra volontà), possa esistere. In questo senso, mettere al mondo include ogni atto di filiazione simbolica.
(…) Poste così le cose, non è difficile scorgere attorno a noi i tanti modi di essere generativi. È generativo un educatore che aiuta i ragazzi a ‘venire alla luce’ facendosi – nella bella espressione di Michel de Certeau, «ermeneuta della poesia del senso nascosto» ( Lo straniero o l’unione nella differenza , Vita e Pensiero, Milano 2010). È generativo l’imprenditore che investe nel futuro della sua impresa non solo per perseguire un profitto (che, in se stesso, è soltanto un indicatore di efficienza), ma anche e soprattutto per realizzare qualcosa di bello e di grande insieme ai propri collaboratori.
Sono generativi l’artigiano e l’artista quando amano quello che fanno e, attraverso la loro maestria, aggiungono bellezza al mondo. È generativo il volontario che si fa carico di un bisogno insoddisfatto, riparando in modo originale la lacerazione del tessuto sociale e organizzando insieme ad altri una risposta efficace. È generativa la guida spirituale che aiuta a porsi domande sull’esistenza riaprendo la speranza del futuro. È generativo il professionista che, senza essere geloso della propria competenza, si rende disponibile a impiegarla non solo per la propria convenienza personale, ma anche per far trionfare la giustizia. È generativo il professore che non si lamenta dei propri allievi, ma cerca di ascoltarli e di rivedere il proprio sapere alla luce delle loro domande spesso inespresse, consapevole che ciò che ha raggiunto può sopravvivere solo nel lavoro altrui («Il maestro dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo vi aggiunge qualcosa e così l’umanità va avanti», scriveva don Milani in Lettera a una professoressa ).
È generativo l’amministratore locale che sa porsi come punto di aggregazione delle tante energie presenti sul territorio, diventando il volano per la mobilitazione di risorse diffuse capaci di rinsaldare i legami comunitari. È generativo chi riesce a trasformare un trauma – la perdita di un figlio, un incidente stradale, un torto subito, un tradimento – in energia positiva per combattere contro i tanti mali che offendono la vita umana ed è generativo chi si china a guarire una ferita esistenziale, facendo rinascere la speranza nella vita. Un elenco che potrebbe continuare a lungo».

Ma, prof, direte voi, che ci interessa tutto questo?
Probabilmente avete ragione, è più ai vostri genitori che dovrei rivolgermi. E in effetti a loro vorrei dire che non devono stancarsi di “generarvi” ogni giorno con il loro esempio, le loro parole severe ma affettuose e giuste, il loro accompagnarvi alle scelte importanti della vostra vita.
A voi, invece, rivolgo l’augurio che sappiate educarvi ad essere generativi, cioè ad essere persone capaci di fare della propria vita un capolavoro di bellezza e di verità . Perché, vedete, è la bellezza interiore che sapremo esprimere che permetterà alle tante persone che incontreremo nella nostra vita di crescere, anche grazie a noi.

Fai il bravo e ci guadagnerai in salute

Leggete cosa ho trovato in Popotus del 18 marzo 2014

«Essere coscienziosi aiuta a vivere in salute. Lo dimostrano le 1.037 persone prese in esame da uno studio della Duke University, negli Stati Uniti, e seguite dalla nascita ai 38 anni. Quelli descritti da parenti e amici come assennati e coscienziosi, ligi al dovere, difficilmente si sono abbandonati a stili di vita scorretti, abusando dell’alcol».

Meditate, ragazzi, meditate!!!

Cosi…?
… o così?

Il digiuno nell’era del web

Siamo in Quaresima.
Vi propongo una riflessione tratta da Popotus del 6 marzo.

Mangiare con moderazione, scegliere cibi semplici, rinunciare alla carne nei venerdì di Quaresima, dimenticare i piatti molto costosi, preparati con materie ricercate, utilizzate per cucinare quelli che un tempo si chiamavano «cibi da ricchi». Erano le indicazioni che la Chiesa forniva all’inizio del tempo quaresimale e che, in larga parte, sono tuttora scelte di saggezza e consigli per rimanere in buona salute. Oggi però, soprattutto per noi che viviamo nella parte ricca del mondo, il cibo ha perso gran parte del suo valore simbolico. Quello cioè a cui le nonne facevano riferimento raccomandando ai nipotini: «In Quaresima bisogna fare almeno un fioretto al giorno. Via cioccolatini, caramelle e lecca lecca». Indicazioni sempre valide, naturalmente, insieme però ad altre forme di digiuno che oggi, per tanti ragazzi ma anche per non pochi adulti, costano ben di più. Diciamo la verità. È più facile dire no a un cioccolatino o rinunciare a completare il livello di un gioco particolarmente entusiasmante alla play station? Magari quando la mamma chiama dicendo che è scaduto il tempo e bisogna correre a fare i compiti? E allora da ieri, mercoledì delle Ceneri e quindi giorno di avvio della Quaresima – tranne che nella diocesi di Milano dove il carnevale si prolunga fino a sabato – sarebbe proprio il caso di rispettare tre semplici proponimenti: limitare l’uso dei videogiochi secondo le indicazioni di mamma e papà; niente perdite di tempo con le app dello smartphone; spegnere la tv ogni sera mezz’ora prima del solito. Stesse raccomandazioni per i genitori. Limitare un po’ l’uso di internet e della tv serve per trovare un po’ tempo per stare insieme, per raccontarci le cose della giornata, per ascoltare meglio quello che hanno da dirci i grandi, senza quel sottofondo invadente e brontolone che arriva dal video acceso. È una forma di digiuno che farà bene a tutti. Meno tecnologia, più sorrisi.
E se fosse vero, non solo in Quaresìma?

La felicità nelle religioni

Tutti gli uomini, appartenenti a una religione o a un’altra, inseguono la felicità. Il pensiero occidentale però differisce dagli altri: è fondato su una forte tendenza al razionalismo e sulla convinzione che tutto si possa spiegare nel contesto di una singola vita. Nelle religioni orientali è ben diverso.



BUDDHISMO

Ciò che incatena l’individuo all’esistenza, alle rinascite, è il desiderio: i desideri della mente servono l’IO, che in verità si rivela una casa vuota, un’illusione. Colmando i desideri dell’IO l’individuo si illude e crea sofferenza. Rinunciare ai desideri è avviarsi alla condizione suprema della felicità, cioè il Nirvana, in cui l’uomo è felice pur non desiderando. Identificando i fattori che conducono alla felicità e quelli che inducono alla sofferenza si arriva al proprio equilibrio e alla felicità personale che poi si traduce nella volontà di andare incontro agli altri.

INDUISMO

La visione dell’Induismo si puù riassumere con queste parole:
«Oh, come facilmente il palcido stagno è turbato dai venti che passano! Amico, non cercare la felicità in quello che passa. Non c’è che una sola via: la via che è dentro te stesso, attraverso il tuo stesso cuore» (Jiddu Krishnamurti)

ISLAM
Il modo di vivere ha origine direttamente da Dio: non è opera di politici, né di economisti, né di moralisti o psicologi. E’ Dio stesso che, nella sua infinita saggezza, dà all’uomo le indicazioni e le leggi morali per realizzare la giustizia e la felicità già durante la vita terrena. L’essere umano, qualsiasi sentiero percorra, in realtà non desidera che la propria felicità, il proprio successo. Fino a quando non conosce se stesso, non potrà conoscere i reali bisogni, nella soddisfazione dei quali risiede la beatitudine. La conoscenza di sé è dunque il dovere più impellente dell’uomo; solo conoscendo se stesso egli comprenderà in che cosa consiste realmente la propria felicità evitando di sprecare la vita, bene prezioso e irripetibile.

EBRAISMO
Gli ebrei hanno più di un motivo per esultare nel loro Dio. Il primo motivo viene dall’alleanza: Israele è popolo eletto, scelto per un amore singolare, per cui sente Dio come il “suo Dio” che chiede al suo polo di essere gioioso. «Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza» (Ne 8,10).
Un secondo motivo della gioia d’Israele è la potenza di Dio che fa esultare di gioia le sue creature: «Mi rallegri, Signore, con le tue meraviglie, esulto per l’opera delle tue mani. Come sono grandi le tue opere, Signore, quanto profondi i tuoi pensieri!» (Sal 92, 5-6). I poeti del popolo eletto invitano tutta la creazione a partecipare al loro stato d’animo: «Gioiscano i cieli, esulti la terra, risuoni il mare e quanto racchiude; sia in festa la campagna e quanto contiene, acclamino tutti gli alberi della foresta…» (Sal 96, 11-12)

CRISTIANESIMO
L’Antico Testamento è preludio, per i cristiani, alla gioia annunciata nel Nuovo Testamento.
«Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: … (Mt 5, 1-12).
Il “Discorso della montagna” ha attraversato i secoli e si presenta ancora ad ogni uomo o donna, indipendemente dal loro credo, con una vitalità insuperata e insuperabile. Ad esso spiriti grandi si sono avvicinati ieri come oggi, anche oltre i confini della confessione cristiana; per tutti basti pensare al Mahatma Gandhi. Non si tratta di un elenco di precetti, ma di un discorso che ha una sua logica interna; è il non facile cammino a fianco di Cristo. Le frasi che compongono il “Discorso della montagna” prendono avvio tutte con un «Beati quelli ….»: ma che cosa significa essere beati? E’ la ricetta della felicità? Si potrebbe infatti definire il “Discorso della montagna” con la suggestiva immagine di “formula della felicità”. Originale per gli ingredienti che la compongono e per il suo inventore: solo uno come Gesù poteva dichiarare felici quelli che se la passano male, che vivono ai margini della società.
Gesù contesta il modo abituale di pensare e di agire della gente. Per le persone del suo tempo, come anche per la mentalità di oggi, i beati sono i ricchi, i potenti, quelli che hanno salute, successo e fortuna. Per Gesù, invece, i veri fortunati, cioè coloro che alla fine godranno la terra, che vedranno Dio, che avranno il suo regno, sono i poveri, gli operatori di pace, i sofferenti, i perseguitati… Il suo è un messaggio sconvolgente, paradossale, cioè assurdo, che sfida il buonsenso, che appare non ragionevole alla mentalità comune.
La felicità non è l’appagamento permanente e definitivo dei desideri, ma è sempre da attendere.
La felicità è possibile già in questo mondo come anticipo della pienezza che sarà vissuta quando si vedrà Dio “faccia a faccia”.
Gesù promette già una porzione di felicità, che viene soprattutto dallo stare con Lui, ma promette innanzitutto “la vita eterna”, la felicità completa e duratura, mèta ultima del cammino degli uomini.
Per il cristiano, quindi, la felicità si snoda tra il già, che sperimenta, e il non ancora, che è da raggiungere, che è oltre quello che gustiamo in questa vita, perché il suo pieno compimento è solo in Dio. E se questa coincide con Dio, con lo sperimentare la Sua presenza, si può essere felici soltanto conoscendo Dio, il solo che può colmare il nostro cuore.

Concludo la presentazione dell’idea di felicità nelle diverse religioni, con una meditazione di Madre Teresa:

«L’uomo da solo comprende che può combattere il male e la morte con tutte le sue forze, ma non può vincerli. Esiste una realtà superiore all’uomo a cui potersi rivolgere per eliminare male e morte?
Ci sono persone che sono felici, lo dimostrano nella vita perché sanno amare e creare felicità, ma la loro felicità non viene dalla relazione con il mondo bensì dalla relazione con l’altro e con il divino
».

FONTE: Ora di Religione, rivista Elledici, Scuola Primaria: 3ª Unità di lavoro – Alla ricerca della felicità, di Alessandra Alessandri – Fiammetta Scaletti.

Dalla torre di Babele tante lingue per crescere

Quando si sente parlare della torre di Babele si pensa subito a «confusione» e «disorganizzazione», ma forse questo è un modo riduttivo di leggere i fatti riguardo a questa grande impresa.
Il racconto si trova nei primi nove versi dell’undicesimo capitolo del libro della Genesi: tutti gli uomini parlavano una solo lingua e si misero in testa di costruire una città e una torre che arrivasse al cielo. Il Signore allora scese e vide in cosa si stavano impegnando gli uomini, decidendo di farli parlare diverse lingue in modo che, non capendosi più l’un l’altro, essi si disperdessero su tutta la Terra.L’interpretazione classica di questo racconto mette al centro la superbia degli uomini, che con quella torre vogliono quasi sfidare Dio e per ciò vengono puniti. In questo modo l’esistenza di numerose lingue, tutte diverse, viene interpretata come una punizione divina.
Per alcuni studiosi, però, la dispersione nel mondo degli uomini può essere visto come un fatto positivo, che ha permesso all’umanità di crescere e quindi il gesto di Dio non è stato una punizione bensì un aiuto all’umanità a realizzare la sua vera vocazione.

Ma davvero nell’antichità ci fu chi tentò di arrivare al cielo con una torre? I progetti architettonici arditi non sono certo un’invenzione moderna e i testi letterari legati a queste opere non mancano. Anche il racconto di Babele potrebbe essersi ispirato a una torre realmente esistita a Babilonia, dove tutto il popolo d’Israele fu prigioniero per diversi decenni nel VI secolo prima di Cristo.

In questa terra (oggi in Iraq) gli israeliti, probabilmente, videro la ziqqurat Etemenanki, un’enorme costruzione all’epoca incompiuta. Ai loro occhi questa torre, di cui oggi rimangono i resti, era il simbolo della superbia dell’oppressore, i babilonesi, e quindi segno negativo di sopraffazione e violenza.

Nella Bibbia, quindi, questa costruzione rappresenta tutte quelle imprese in cui l’uomo s’imbarca dimenticando Dio, il quale però interviene sempre per ricordarci cosa conta veramente nella vita.

clicca qui per vedere la vignetta originale e leggere
il commento al brano degli Atti degli Apostoli
sulla Pentecoste

E la diversità delle lingue? Spetta ai glottologi, in realtà, il compito di dirci da dove nascano le lingue, ma intanto la Bibbia ci ricorda che esse sono un ostacolo solo quando l’uomo si dedica a opere tutte sue. Quando invece si diventa strumenti nella mani di Dio le lingue sono una ricchezza, come dimostra ciò che accadde a Pentecoste, quando gli apostoli si misero ad annunciare il Vangelo facendosi capire da tutti gli stranieri presenti a Gerusalemme.
Matteo Liut in Popotus del 4 marzo 2014

Occhi negli occhi. Una riflessione sulla parità uomo/donna.

La parità tra uomo e donna è ancora lontana da venire. Eppure è scritta nel “dna” dell’umano.
Vi propongo alcuni passi dell’articolo di Luigino Bruni, pubblicato su Avvenire del 2 marzo, che ci offrono una lettura del brano di Genesi, quello della creazione dell’uomo e della donna, che ben si adatta alla giornata di oggi.

«Non è bene che l’Adam sia solo». La creazione si completa quando quella «cosa molto bella e molto buona», l’Adam, si svela realtà plurale, diventa persona.
È appassionante e ricchissimo il ritmo che nel secondo capitolo della Genesi va dall’Adam (l’essere umano) all’uomo e alla donna.
Dapprima l’Adam è posto nel giardino dell’Eden, lo accudisce e lo coltiva: quindi lavora.
Due alberi hanno un nome: «l’albero della vita» e «l’albero della conoscenza del bene e del male». I frutti dell’albero della vita e degli altri alberi possono essere mangiati dall’Adam, non quelli del secondo albero.
E a questo punto Elohim esclama: «Non è bene che l’Adam sia solo». E quindi: «Gli voglio fare un aiuto che gli sia pari» (2,18).
Per la prima volta, in una creazione ancora tutta buona e bella, ci troviamo di fronte a un «non è bene», che riguarda la solitudine, una carestia relazionale.
Inizia allora uno dei passaggi più suggestivi e fecondi della Genesi.
Davanti all’Adam si svolge una rassegna degli animali e degli uccelli del cielo. L’Adam dà loro il nome, entra cioè in rapporto con essi, li conosce e ne scopre la natura e il mistero; ma al termine di questa processione della creazione non umana, l’Adam non è soddisfatto, perché non ha ancora trovato nessuna creatura che gli stesse accanto come un “pari”.

Qui il racconto subisce una sterzata narrativa, che spinge il lettore a porsi su un altro piano, a entrare in una dimensione nuova dell’umanità.
Entra sulla scena l’ezer kenegdo, un’espressione ebraica che rimanda allo sguardo e agli occhi, che potremmo tradurre: “qualcuno con il quale poter incrociare gli occhi alla pari”; qualcuno/a che sta di fronte, allo stesso livello, “occhi negli occhi”. È il primo incontro umano. I primi occhi che videro altri occhi tutti uguali e tutti diversi: «Ora sì, questa volta finalmente!» (2,23). Ed è anche l’esordio dell’uomo (maschio) e della donna: prima di questo incontro c’è solo l’Adam, il terrestre ( adamah è la terra).

La storia non inizia con il peccato, ma con occhi che si incrociano alla pari. L’ ezer kenegdo è la donna, l’ ishàh che è di fronte a ish (l’uomo), come ish è di fronte a ishàh: «Uomo [ish] in più di donna [ ishàh] ha una yod , mentre donna in più di uomo ha una he: se uniamo queste due lettere che distinguono i due nomi otteniamo הי ossia Yah, che è la forma breve del tetragramma sacro del nome di Dio» (Franco Galeone).
La vera natura umana è relazionale, racchiusa e spiegata in quella relazione maschio-femmina (1,27) fondante e
generatrice delle altre.
Non basta l’Eden con i suoi alberi e i suoi frutti per la felicità dell’Adam. Come non bastano gli animali, perché non sono suoi “pari” e non colmano la solitudine umana (anche se oggi una certa cultura, con il suo impressionante business, ce li presenta come sostituti perfetti degli occhi dell’altro). La possono solo accompagnare, una compagnia a volte preziosa e che aiuta a vivere, e che è tanto più buona quanto più inserita all’interno di relazioni umane.
Per il piacere può bastare l’Adam, per la felicità serve ish/ishàh , e sono
necessari soprattutto quegli occhi speciali che ci accolgono nascendo, gli ultimi che vedremo su questa terra, quelli che alla fine chiuderanno i nostri, e quelli che vorremmo rivedere per primi “riaprendoli”.
Ma occorre allenarsi tutta la vita affinché gli occhi che cerchiamo siano quelli dell’altro/a, non i nostri riflessi nelle sue pupille; e solo quando si riesce a incontrare e riconoscere veramente l’altro nella sua vera diversità, accade che il suo sguardo ci ridoni la parte migliore di noi. La mancanza di qualcuno che ci guarda così, che ci riconosce e ci svela a noi stessi, è tra le forme più gravi di miseria e privazione della persona, molto frequenti dove ci sono grandi ricchezze e grande potere dove raramente si è guardati e amati alla pari.

È sorprendente come anche questa descrizione dell’uomo-donna voli immensamente più alta del proprio tempo. L’autore sacro attorno e dietro di sé vedeva soltanto una realtà di sottomissione e di inferiorità della donna, ma fu ispirato al punto di elevarsi per scrivere un canto alla reciprocità uomo-donna. Un canto d’amore, ma anche un giudizio critico sul mondo di ieri e di oggi, frutto di un disordine, di una deviazione, di un decadimento.
Tuttavia in principio era l’ ezer kenegdo. La storia umana fuori dall’Eden non è stata solo la
negazione dell’Adam con Caino, è stata anche il tradimento della reciprocità primordiale dell’ezer kenegdo nei tanti “adami” che hanno profanato la parità morale, l’uguale rispetto, la libertà, la dignità delle donne.
Gli uomini e le donne hanno comunque collaborato. La donna è sempre stata il primo aiuto dell’uomo, e viceversa. Ma nelle piazze e dentro le nostre case gli occhi non si sono incrociati alla pari.
[…]
La domanda sulla relazione ishishàh è al cuore di ogni civiltà, quindi anche della nostra.
(…) È immane, ma appassionante e decisivo, il lavoro che ci attende
quando dovremo rivedere a partire dalla reciprocità ish-ishàh non solo il linguaggio, ma sistemi penali, scuole, politica, finanza, riscossione delle imposte.
Quando manca questa reciprocità fondamentale, soffrono molto le donne, ma soffrono anche gli uomini, perché la felicità di tutti è dentro questa reciprocità tra pari.
Quando perdiamo lo sguardo dell’altro e dell’altra alla pari, perdiamo il senso del limite, ci smarriamo, diventiamo padroni o sudditi, non capiamo più chi siamo, e si generano mille
disordini morali e spirituali.
Sono troppe, allora, le sfide e le domande che l’umanesimo dell’ezer kenegdo rivolge alla nostra economia e società.
[..] Tutte le volte che non vogliamo o non riusciamo a incrociare gli occhi alla pari, finiamo per accontentarci di sguardi più bassi, chiediamo troppo poco a noi stessi e agli altri, e i frutti
dell’Albero della vita restano immaturi. “Ish” ritorna triste nell’Eden senza sguardi umani, e sente ancora riecheggiare nel giardino: «Non è bene che l’Adam sia solo».


Creare animazioni con Domo Animate: il racconto della Pentecoste

In vista del lavoro che vi è stato assegnato, vi propongo uno strumento per creare un’animazione: si tratta di Domo Animate.
Una volta iscritti al servizio, potete costruire le vostre scenette. Penso che non troverete difficoltà a diventare creatori di storie animate, ma nel caso abbiate dei dubbi vi lascio il link ad un tutorial in inglese. Cliccate qui.
Ecco il video che ho creato per raccontare la Pentecoste.
DomoNation.com: Pentecoste by profrel

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