Spiegazione del Padre nostro

Possiamo definire il Padre nostro la preghiera delle preghiere. In un post di molti anni fa lo definivo una sorta di vademecum per vivere da cristiani. Vediamo di entrare nel significato più profondo per coglierne maggiormente il senso. A Dio non interessa certo che recitiamo parole a memoria!

L’apertura si questa preghiera definisce già la natura del rapporto con Dio: siamo figli che si rivolgono al Padre con totale fiducia e amore, con la certezza di poter trovare sempre ascolto, perdono, accoglienza. Non solo. Nel dire nostro, si sottolinea che Dio è Padre di tutti gli uomini e le donne, senza distinzione. Non importa da dove uno venga, quale sia la sua storia, cosa abbiamo fatto di buono o di cattivo. Dio c’è, per lui o lei, ed è pronto ad accoglierlo nel proprio abbraccio in ogni istante.
La preghiera prosegue con altre frasi che identificano Dio come Signore di ogni cosa. Diciamo infatti “che sei nei Cieli”, non per indicare che Lui è lontano da noi, ma per ricordare che, da dove si trova, Egli sa tutto, vede tutto, può tutto, e non per questo smette di essere Nostro Padre.
Da questo punto in poi si susseguono tre dichiarazioni che manifestano l’impegno alla testimonianza (sia santificato il tuo nome), alla fedeltà (venga il tuo regno) e all’amore e totale fiducia in Dio (sia fatta la tua volontà).
“Sia santificato il tuo nome” significa che compito di ogni fedele è quello di glorificare il nome di Dio e renderlo noto a tutti, anche a chi non lo conosce. Con questa formula preserviamo il nome di Dio dal disprezzo, dalla blasfemia di chi non lo riconosce, inneggiamo a Lui con rispetto e gioia, augurandoci che venga rispettato e amato da tutti.
“Venga il tuo regno” è un augurio per rivolgiamo più a noi stessi che a Dio, perché manifestiamo da un lato la speranza che il volere di Dio si compia, che Gesù torni, per la salvezza degli uomini, dall’altro la volontà a fare del nostro meglio perché ogni giorno, intorno a noi, il regno di Dio esista, viva, anche grazie alle nostre buone azioni, al bene che facciamo per i nostri fratelli. Il paradiso può essere molto più vicino di quanto si possa pensare, se ci impegniamo per renderlo reale, per costruirne un pezzetto ogni giorno.
“Sia fatta la tua volontà” vuol dire che che chiediamo a Dio di aiutarci a riconoscere ogni giorno  il suo volere accettandolo con umiltà e fede. Non saremo mai abbastanza lungimiranti, abbastanza saggi, per conoscere il grande piano divino, ma riconoscendone e richiedendone il compimento possiamo ugualmente esserne parte.
Ecco quindi che la preghiera aggiunge “come in cielo, così in terra”: come in cielo gli angeli circondano il trono celeste, glorificando Dio in ogni istante, così dovrebbe essere anche sulla terra, così dovremmo fare noi tutti, per quanto piccoli, indegni. È un altro modo per ricordarci che il paradiso comincia qui, sulla Terra, e che spetta a noi il compito di costruirlo, con la benevolenza di Dio.
Seguono tre richieste: la richiesta del sostegno di Dio (dacci oggi il nostro pane quotidiano), quella del perdono dei peccati (rimetti a noi i nostri debiti), e infine quella di salvezza (e non esporci alla tentazione, ma liberaci dal male).
“Dacci oggi il nostro pane quotidiano” è una richiesta a Dio di darci ciò che davvero ci serve, ciò che
davvero conta. Ma non soltanto ciò che spiritualmente unisce a Dio, ma anche quello che che ci è necessario per il sostentamento. Chiediamo quindi a Dio di darci ciò che ci occorre, e, sottinteso, di liberarci dal desiderio di ciò che è superfluo.
A Dio chiediamo anche di perdonare i nostri peccati, ma non solo: gli chiediamo anche di renderci capaci di perdonare coloro i quali ne hanno compiuti contro di noi. Siamo noi i primi fautori della nostra salvezza: se non impariamo a perdonare i nostri nemici, come possiamo pretendere che Dio perdoni noi? Ecco allora la formula “rimetti a noi i nostri debiti” come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Nessuna preghiera ha valore se non è sostenuta da buone azioni, dal sincero pentimento, dalla reale volontà di fare bene.
Anche la terza richiesta, “e non abbandonarci alla tentazione”, si rifà alla necessità, da parte nostra, di vivere con rettitudine e virtù, di mostrare forza, coraggio, davanti alle avversità, e temperanza e saggezza davanti al peccato, alle tentazioni che il diavolo metterà lungo il nostro cammino. Per questo preghiamo Dio, non tanto perché non ci faccia incontrare queste tentazioni, quanto perché ci renda abbastanza forti per affrontarle e vincerle.
Quando chiediamo a Dio “ma liberaci dal male” lo preghiamo di sostenerci nella nostra battaglia quotidiana, perché noi non siamo ancora come Gesù, non siamo forti come Lui, grandi come Lui, e da soli fatichiamo a volte a combattere contro il male che si manifesta con inganni, tentazioni, difficoltà, affanni. Ancora una volta quello che chiediamo a Dio non è che Lui combatta per noi contro il Male, ma che renda noi abbastanza forti per affrontare e vincere la nostra guerra quotidiana.
(Liberamente adattato da https://www.holyart.it/)

No a facce da funerale. Parola di Papa Francesco

Si sa, le barzellette che si raccontano i preti sulle “cose di Chiesa” sono tra le più divertenti. E le più autoironiche.
Fede, preghiera, cibo, ritiri spirituali, c’è chi perfino riesce a fare la voce perfetta del proprio vescovo: e infatti i parrocchiani di “ogni dove” le tramandano di padre in figlio, di catechista in catechista. Umorismo per fortuna sdoganato da papa Francesco che fin dall’inizio del suo pontificato ha messo in guardia il fedele dall’essere troppo triste e dall’avere «facce sfiduciate, da funerale».
In un’omelia a Santa Marta riservata a un gruppo di dipendenti dei Servizi economici del Vaticano e alcuni collaboratori delle Guardie svizzere, Francesco, ad esempio, ha ricordato l’insegnamento di Paolo VI e ha parlato della gioia cristiana che nasce anche «perdendo tempo a lodare Dio».
«Tante volte i cristiani – disse a braccio il papa nell’omelia con quel suo slang un po’ latinoamericano – hanno la faccia di andare più a un corteo funebre che di andare a lodare Dio. Noi cristiani non siamo tanto abituati a parlare di gioia, di allegria». E talvolta «ci piacciono di più le lamentele».
Ma non dovrebbe essere così perché «lo Spirito Santo che ci guida è l’autore della gioia, il Creatore della gioia e senza gioia noi cristiani non possiamo diventare liberi, diventiamo schiavi delle nostre tristezze». [Tratto da segnoweb)

Vignetta tratta dal sito del simpaticissimo don Giovanni Berti (http://www.gioba.it)

Difendiamo la Terra

Oggi è il giorno del Global Strike for future. Adolescenti di tutto il mondo stanno rispondendo all’appello di Greta, la sedicenne svedese che ha invitato tutti gli studenti a rivolgere il loro appello ai Grandi della Terra perché si prendano finalmente provvedimenti seri e concreti per salvare il nostro Pianeta dal riscaldamento globale.
Come partecipazione “morale” all’evento questo è quanto proporrò oggi alle mie classi.

 

Gaudete et exultate: l’invito di papa Francesco alla santità

Siamo chiamati alla santità.
E’ questo il messaggio che papa Francesco ha voluto rivolgerci in questa terza esortazione apostolica dal titolo Gaudete et exultate (gioite ed esultate). Un invito alla gioia
di una vita santa, perché i santi non sono solo quelli già beatificati e canonizzati, ma il “popolo” di Dio, cioè ognuno di noi, chiamato a vivere la santità come un itinerario fatto di “piccoli gesti” quotidiani.

Vi lascio un video che ci aiuta a cogliere il senso della santità a cui siamo chiamati.

 

Dare la propria vita per gli altri

Non c’è amore più grande di questo – dice Gesù – che dare la vita per i propri amici.
Ma cosa vuol dire?
Nel film “Sette anime” il protagonista decide di togliersi la vita per offrire una possibilità di vita alla donna che ama. E’ questo il senso dell’amore, così come lo intende Gesù?
No, assolutamente no!
Il concetto stesso di martirio cristiano è lontano dall’idea del sacrificio in se stesso.
I cristiani dei primi secoli presero le distanze da alcuni che pensavano di procurarsi volontariamente la morte, provocando di proposito i pagani.
Umani fino in fondo, i martiri non amano la morte violenta. Man mano che il loro momento si avvicina sono sempre più consapevoli della barbarie a cui vanno incontro: questo li sgomenta ma, al tempo stesso, non li fa recedere. Sono come Gesù nell’orto degli Ulivi: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». Come Gesù, quando si accorgono che la propria morte è inevitabile, perché Dio così ha predisposto e tanti segnali dicono che la loro missione sulla terra non potrà non concludersi che in modo violento, non tornano sui loro passi, preparandosi a morire.
Certo, i martiri non si avviano danzando incontro al martirio. Di quelli a noi più vicini abbiamo testimonianze che ci danno un’idea dei giorni che precedono il martirio: le persone che sono state accanto a loro li raccontano come pensosi, inquieti, riflessivi ma anche bruschi. 

L’arcivescovo salvadoregno Oscar Romero, ferito a morte mentre celebrava la Messa nel 1980, per aver preso le difese dei diseredati del suo popolo, diceva: «È normale che ci tremino le ginocchia, ma almeno che ci tremino nel posto in cui dobbiamo stare»
Ha scritto Bruno Maggioni: «Il martire non sceglie la morte, ma un modo di vivere, quello di Gesù». Ecco ciò che contraddistingue il martire cristiano, la sua radicale specificità.
La vita che va odiata è quella dove a vincere  sono i più furbi, i più ricchi, i meno onesti. La vita che Gesù ci chiede di perdere è quella incatenata dai tanti fardelli che la condizionano: la paura di rinunciare al proprio tornaconto, ad una libertà vuota di valori, all’egoismo. Quando siamo liberi dai calcoli e ci apriamo all’altro con generosità siamo più felici. È questa la vita verso la quale tendere: una vita che ha come unico obiettivo amare Dio e il prossimo e di lasciaci amare da Lui e dalle persone che ci sono attorno.
In questo modo la vita non la si perde. Anzi, diventa amore, accoglienza, condivisione, voglia di annunciare e testimoniare che si può abitare questo mondo nella gioia.

Christian de Chergé, uno dei monaci uccisi a Thibirine, nel 1986, dal terrorismo algerino, ci ha lasciato una chiara testimonianza di quello che può significare perdere la propria vita per amore di Cristo e del prossimo.
In quello che è considerato il suo testamento spirituale, scritto quando ancora non sapeva in che modo e quando gli sarebbe toccato di dover donare la sua vita per Cristo, annotava:
«La mia vita non ha valore più di un’altra. Non ne ha neanche di meno. – In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito. Non potrei augurarmi una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse indistintamente accusato del mio assassinio. […] La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”. Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione, giocando con le differenze. Di questa vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per questa gioia, attraverso e nonostante tutto […] E anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo “grazie”, e questo “a-Dio” nel cui volto ti contemplo. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Inch’Allah».
In queste parole non c’è rabbia e rinuncia nei confronti della vita. Tutt’altro! E’ un messaggio dove la vita viene esaltata.
Una vita con l’unico obiettivo di amare Dio e il prossimo e di lasciarsi amare da Lui e dalle persone che ci vivono attorno è una vita che realizza le Beatitudini. Allora, pur nella sofferenza, si sperimenterà la gioia, la bellezza e la ricchezza di essere a servizio dell’uomo nel seguire Gesù.
Diceva san Paolo che senza la Carità (Amore) qualunque cosa io dovessi fare, anche il sacrificare la mia stessa vita, non avrebbe alcun valore, non servirebbe a nulla.

Sandra, la fidanzata santa

Una ragazza di 23 anni che si spendeva per gli altri con gli amici della Comunità Papa Giovanni XXIII. E che proprio don Oreste Benzi – dopo il tragico incidente stradale che la portò via nel 1984 propose per la causa di beatificazione dicendo: abbiamo sposi santi, genitori santi; non sarebbe bello avere un giorno anche una fidanzata santa? È il profilo di Sandra Sabattini, laica romagnola per la quale papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto sulle virtù eroiche.

Era nata a Riccione nel 1961 Sandra e aveva conosciuto molto giovane don Oreste e la Comunità Giovanni XXIII. Già a quattordici anni – di ritorno da un campo con un gruppo di disabili annotava sul suo diario: «Ci siamo spezzati le ossa, ma quella è gente che io non abbandonerò mai». Così è stato: per anni le sue giornate sono state scandite tra la scuola, il servizio a chi aveva bisogno e la vita spirituale, nello stile della papa Giovanni XXIII.

All’università aveva scelto medicina, sognando di partire per l’Africa; intanto era arrivato il fidanzamento con Guido. Tutte esperienze vissute lasciandosi guidare dalla radicalità del Vangelo: «Oggi c’è un’inflazione di buoni cristiani, mentre il mondo ha bisogno di santi», annotava sempre sul suo diario. Il 29 aprile 1984 a Igea Marina fu travolta da un’auto; morì tre giorni dopo a Bologna. (tratto da Avvenire dell’8 marzo 2018)
Le virtù eroiche di Sandra Sabattini sono state ufficialmente riconosciute da Papa Francesco lo scorso 6 marzo.

La via delle Beatitudini

Il giovane Hugo Cabret dice – ricordate? – che tutto deve avere uno scopo e che se questo scopo non lo troviamo è come essere rotti.

Trovare lo scopo della vita non è certo cosa facile e, chi più chi meno (lo abbiamo visto a scuola), a volte ci viene da interrogarci e da guardarci intorno per cercare le risposte di cui abbiamo bisogno.
Le parabole lette a scuola ci hanno fatto capire che bisogna essere un po’ come dei bravi ingegneri che cercano il terreno più adatto per costruire la casa, oppure che non dobbiamo illuderci che sia il possesso delle cose a garantirci un avvenire sicuro.
La proposta che Gesù fa nelle Beatitudini è ancora più sconvolgente e rivoluzionaria, perché ribalta il nostro modo di pensare proponendo un progetto di vita che sembra lontanissimo e difficile da realizzare.

Gandhi diceva che queste delle Beatitudini sono «le parole più alte del pensiero umano».
A leggerle bene esse disegnano un altro modo di essere, di vivere da uomini.
Certo che indicano la strada per essere dei veri cristiani, ma non si può essere cristiani se non si è veramente umani! Ecco perché le Beatitudini possono e devono interessarci.
Le Beatitudini tracciano la strada per vivere in pienezza la nostra umanità e questo – udite, udite – si chiama santità.
Eh sì, la natura umana si perfeziona, come diceva san Tommaso, con la grazia di Dio.
Diventare santi significa quindi avvicinarsi sempre più alla perfezione per la quale la natura umana è fatta. Se non siamo santi, non siamo pienamente uomini né pienamente cristiani, perché i santi non sono solo quelli canonizzati né supereroi o figure da immaginetta fuori dalle faccende ordinarie. San Paolo chiamava i cristiani delle diverse comunità “santi”; santi sono quindi tutti i battezzati, coloro che hanno ricevuto e accolto lo spirito di Dio e che si sentono perciò attratti verso il bene al servizio degli uomini.
Quindi, lo scopo verso cui tendere è la santità? Direi proprio di sì, perché la santità è un dono che Dio offre a tutti. Perché tutti siamo chiamati alla realizzazione piena della nostra vita.
Questo delle Beatitudini, ha detto papa Francesco, «è il programma di vita che ci propone Gesù… ci dà anche altre indicazioni, un protocollo sul quale noi saremo giudicati: “Sono stato affamato e mi hai dato da mangiare, ero assetato e mi hai dato da bere, ero ammalato e mi hai visitato, ero in carcere e sei venuto a trovarmi”». Così «si può vivere la vita cristiana a livello di santità. Poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti, perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per farla».

Se si accolgono le Beatitudini, la loro logica cambia il cuore, lo guariscono perché sia possibile così prendersi cura del prossimo e del mondo, risucchiato dalla melma dell’individualismo e della barbarie. La storia, la storia di ognuno (lo scopo?) si gioca su questa disponibilità all’apertura verso Dio e i fratelli.
 «Nella storia della Chiesa, i veri rinnovatori – ha osservato il Papa – sono i santi. Sono loro i veri riformatori, quelli che cambiano, quelli che trasformano, che sviluppano e risuscitano il cammino». La santità è perciò una necessità primaria, è necessaria come l’aria, il respiro.
Da chiedere per noi stessi oggi.
È questa la riforma, la vera rivoluzione.
P.S. per questo post ho tratto ispirazione dall’articolo (in parte ripreso) di Stefania Falasca, in Avvenire del 9 aprile 2018

Proposta per la classe seconda: Un nuovo popolo

Come si fa a costruire gruppi accoglienti, capaci di apprezzare le diversità di ognuno? La Bibbia ha da dire e suggerire qualcosa?
I testi biblici che ci parlano della prima Chiesa, ci presentano una comunità che, con l’aiuto dello Spirito Santo, sperimentava e metteva in pratica (con tutte le difficoltà che possiamo immaginare) il comandamento dell’amore. Non può esistere comunità, neanche quella scolastica, se non c’è accettazione dell’altro (che va amato come un fratello) e condivisione di regole. La regola più importante di tutte è però quella di rinunciare al proprio egoismo per il bene comune.
Cliccare sull’immagine per vedere la proposta didattica.

Donne dottori della Chiesa

La qualifica di Dottore della Chiesa  è attribuita fin dall’antichità ad alcuni santi della Chiesa tanto orientale che occidentale ed è quindi un importante elemento di comunione con i fratelli ortodossi. Per l’Oriente ricordiamo i santi dottori Basilio Magno, Giovanni Crisostomo, Atanasio di Alessandria e Gregorio di Nazianzo, per l’occidente Ambrogio di Milano, Agostino di Ippona, Gregorio Magno, Tommaso d’Aquino.
In età relativamente recente si è giunti a riconoscere tale qualifica anche ad alcune donne che, con il loro ‘genio femminile’, sono state testimoni di un amore tenero per la persona di Gesù.

La prima donna a ricevere questo riconoscimento è stata santa Teresa di Gesù. Nata ad Avila in Spagna nel 1515, Teresa fu una delle protagoniste della riforma del Carmelo e più in generale della vita della Chiesa nel tempo segnato dalla riforma protestante. Scrisse Paolo VI nella lettera apostolica La multiforme sapienza divina del 27 settembre 1970: «Noi non dubitiamo doverla proclamare dottore della Chiesa, prima fra le donne, specialmente per la sua conoscenza e dottrina delle cose divine». Amante della lettura e dei libri, Teresa sognava una vita avventurosa. Finì, tuttavia, per scegliere la vita religiosa nell’ordine carmelitano. Inizialmente si trovò a suo agio in una comunità molto numerosa. Alla soglia dei 40 anni, invece, le accadde un fatto che impresse una svolta alla sua vita: l’esperienza mistica, puramente spirituale, della presenza di Gesù induce Teresa a divenire scrittrice, fondatrice di monasteri, guida di un movimento spirituale.
È sostenuta in questa svolta dall’incontro con san Giovanni della Croce che diventa suo discepolo e nello stesso tempo maestro e confessore. In breve, i due danno origine ad una delle più avvincenti avventure dello spirito cristiano: la loro sintonia è perfetta, la loro poesia infuocata d’amore di Dio.
Teresa ha una buona conoscenza della Sacra Scrittura, ma per la sua opera di scrittrice attinge soprattutto alla sua esperienza di Gesù. Il Libro della vita è uno scritto tra ringraziamento e testimonianza.
Nello stile delle Confessioni di sant’Agostino, l’autrice racconta l’opera di Dio nella sua vita. Per le sue prime consorelle scrive, invece, il Cammino della perfezione, un libro di iniziazione alla vita contemplativa. Seguì il
Castello interiore, una reinterpretazione del suo itinerario spirituale e nello stesso tempo una sintesi di ciò che è la vita spirituale quando raggiunge il suo pieno sviluppo. Il magistero di Teresa si esercitò anche attraverso le lettere che manifestano una grande capacità immaginativa. Parla di castello interiore, di orto dell’anima, di acqua viva di fonti e canali, di rispetto della persona, di gioia di vivere, di amore per la natura. In breve, per la solidità del suo pensiero spirituale, per la sua sensibilità poetica e per le doti di scrittrice Teresa meritava pienamente di essere proclamata prima donna dottore della Chiesa.

Quasi a voler dimostrare che il riconoscimento attribuito a Teresa d’Avila non era un fatto isolato, a distanza di una settimana Paolo VI proclamò dottore della Chiesa anche santa Caterina di Siena. La giovane senese non poté studiare come i suoi confratelli Alberto Magno e Tommaso d’Aquino in prestigiose università o centri di studio dell’ordine. Fin da bambina, tuttavia, visse all’ombra del convento dei padri domenicani di Fontebranda, assimilò una grande sensibilità per il sentire con Dio e per Dio, aderì alle mantellate, il terzo ordine di san Domenico. Disse di lei Paolo VI: «Ciò che più colpisce nella Santa è la sapienza infusa, cioè la lucida, profonda ed inebriante assimilazione delle verità divine e dei misteri della fede, contenuti nei Libri Sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento: una assimilazione, favorita, sì, da doti naturali singolarissime, ma evidentemente prodigiosa, dovuta ad un carisma di sapienza dello Spirito Santo, un carisma mistico».
La grande intuizione della santa di Siena è la ricerca dell’adesione piena a Dio per mezzo dell’unione mistica con l’umanità di Cristo. Particolarmente avvincente il racconto del cambio del cuore tra la santa e Gesù: «Un giorno mentre pregava le parve che il Signore Gesù le avesse aperto il petto dalla parte di sinistra e le avesse portato via il cuore. Dopo un certo tempo, egli le riapparve con in mano un cuore umano rosso splendente, le aprì il petto, ve lo introdusse: ‘Carissima figliola, come l’altro giorno presi il tuo cuore, ecco che ora ti do il mio, col quale sempre vivrai’». Molto amata dai suoi discepoli, Caterina venne da loro progressivamente accostata ai santi dottori della Chiesa. Anche per questo motivo, dopo 6 secoli dalla sua morte, è stata a sua volta inserita nell’elenco dei santi dottori.

Con santa Teresa di Gesù Bambino e del volto santo, la terza donna proclamata dottore della Chiesa da san Giovanni Paolo II il 19 ottobre del 1997, ritorniamo al Carmelo.
La giovane Teresa Martin vi entra nel 1888 ad appena 15 anni. Figlia di genitori a loro volta proclamati santi e compagna di sorelle che a loro volta scelsero la vita religiosa, Teresa deve in un primo momento liberarsi di una pietà troppo scontata, troppo naturale. Fin dai primi anni al Carmelo «l’aridità divenne il mio pane quotidiano», mentre nella fase finale della malattia che la porterà alla morte le è chiesto di «mangiare alla mensa dei peccatori, di vivere l’assenza di fede di coloro che sono lontani da Dio». Prove autentiche che non intaccano l’esperienza essenziale di Teresa che è quella dell’amore di Dio cui ella è chiamata a rispondere con la piccola via, la via dell’infanzia spirituale. «L’ascensore che deve innalzarmi fino al cielo sono le vostre braccia, Gesù! Per questo non ho bisogno di crescere, al contrario bisogna che resti piccola, che lo divenga sempre più». In breve, Teresa ha scoperto, secondo von Balthasar, l’esperienza della chenosi di Gesù, della discesa per amore accettando la propria e altrui debolezza come luogo della grazia e quindi della resurrezione. Per questo Teresa non si aspetta niente da se stessa, ella spende la vita nel «gettare fiori», nel «niente» di ogni giornata vissuta per amore. Scrive ancora: «Quello che piace a Lui è di vedermi amare la mia piccolezza e la mia povertà, è la speranza cieca che ho nella sua misericordia». Davvero l’insegnamento di Teresa resta di una sconcertante attualità, in piena sintonia con il magistero di papa Francesco.

La santa più di recente riconosciuta dottore della Chiesa è la più anziana in ordine di tempo. Santa Ildegarde di Bingen, nata nel 1089 e morta nel 1179, è stata dichiarata dottore della Chiesa dal connazionale Benedetto XVI, il 7 ottobre del 2012. L’insegnamento di santa Ildegarde si svolge su un duplice livello: quello della fede e quello della natura. Il magistero spirituale ebbe origine da una serie di visioni che la voce di Dio poi le spiegava. Da una parte esprimevano il desiderio e la consapevolezza dell’unione con Dio, dall’altra suggerivano il comportamento da tenere nel presente e nel futuro. Di qui la grande autorità che Ildegarde ebbe sui contemporanei. Alla dimensione spirituale la monaca benedettina univa un interesse non comune nel suo tempo per l’analisi dei fenomeni naturali, nel cosmo e nell’uomo. Il tutto aveva fondamento nella convinzione che Dio è luce in eterno movimento che crea, conserva e rinnova il cosmo e l’uomo. Il Cristo è la pienezza della rivelazione di Dio, ma anche un uomo bellissimo e sommamente degno di essere amato. Egli è il punto d’incontro tra l’uomo e Dio. La natura, che reca l’impronta di Dio, è nello stesso tempo pienamente affidata alla responsabilità dell’uomo. Disse papa Benedetto proclamandola santa e dottore della Chiesa il 7 ottobre del 2012: «L’attribuzione del titolo di Dottore della Chiesa universale a Ildegarde di Bingen ha un grande significato per il mondo di oggi e una straordinaria importanza per le donne. In Ildegarde risultano espressi i più nobili valori della femminilità: perciò anche la presenza della donna nella Chiesa e nella società viene illuminata dalla sua figura, sia nell’ottica della ricerca scientifica sia in quella dell’azione pastorale». Resta solo da augurarsi che l’elenco delle donne dottori possa arricchirsi presto di nuove figure magari originarie di Paesi di più recente adesione al cristianesimo.
Adattato da Elio Guerriero, Donne dottori della Chiesa: Vangelo e amore per Gesù,  in Avvenire del l’8 settembre 2017