Chi mettere al centro? Proposta didattica per una Terza media

In adolescenza i ragazzi sono molto concentrati su stessi e vivono un equilibrio precario tra il bisogno di sentirsi riconosciuti e accolti dal gruppo e la difesa della propria identità e unicità. Il percorso didattico che ho proposto vuole indagare quello che è il desiderio di sentirsi al centro del mondo e degli affetti e le derive, a volte pericolose, a cui si può arrivare quando, nel cercare la realizzazione di se stessi si finisce per dimenticare gli altri e il contesto in cui si vive, per poi arrivare ad una definizione di felicità che spiazza l’idea di un cristianesimo che tende a mortificare l’io quando in realtà offre una proposta di vera realizzazione del sé. Quello che segue, conclusa la fase più “istituzionale” con l’indicazione dei TSC e degli Oa, è il racconto del percorso didattico che è stato realmente proposto. 

DAI DOCUMENTI MINISTERIALI

Traguardi 

1.       ORDINE ANTROPOLOGICO – RELIGIOSO

È aperto alla sincera ricerca della verità
Sa interrogarsi

 

2.       ORDINE STORICO-BIBLICO E STORICO-ECCLESIALE

Comprendere alcune categorie fondamentali della fede ebraico-cristiana
Elabora criteri per una interpretazione consapevole

 

4.       ORDINE ETICO

Coglie le implicazioni etiche della fede
Riflette in vista di scelte di vita
Si confronta con la complessità dell’esistenza
Dà valore ai propri comportamenti
Si relaziona in maniera armoniosa con se stesso, con gli altri, con il mondo

OA

1.       ORDINE ANTROPOLOGICO – RELIGIOSO (Dio e l’uomo)

Cogliere nelle domande dell’uomo e in tante sue esperienze tracce di una ricerca religiosa
Riconoscere l’originalità della speranza cristiana, in risposta al bisogno di salvezza della condizione umana nella sua fragilità, finitezza ed esposizione al male

 

2.       ORDINE STORICO-BIBLICO E STORICO-ECCLESIALE (La Bibbia e le Fonti)
Saper adoperare la Bibbia come documento storico-culturale e apprendere che nella fede della Chiesa è accolta come Parola di Dio
Individuare il contenuto centrale di alcuni testi biblici, utilizzando tutte le informazioni necessarie ed avvalendosi correttamente di adeguati metodi interpretativi

4.       ORDINE ETICO (I Valori Religiosi)

Riconoscere l’originalità della speranza cristiana, in risposta al bisogno di salvezza della condizione umana nella sua fragilità, finitezza ed esposizione al male
Confrontarsi con la proposta cristiana di vita come contributo originale per la realizzazione di un progetto libero e responsabile

 

 

IL RACCONTO

    

la copertina del fumetto su Rosario Livatino
pubblicato da Il pozzo di Giacobbe


 Gli studenti sarebbero andati a vedere una mostra su   Rosario Livatino e questo mi ha suggerito di proporre un   confronto tra la vita di questo personaggio e la canzone   di Nicolò Fabi “Io”[1]. Ho invitato ad ascoltare con   attenzione tanto il breve documentario su Rosario   Livatino[2] ch e le parole della canzone per poi   rispondere  a queste domande:
 Cercare la realizzazione di se stessi, ma come?
 Mettere al centro se stessi o pensare che non si può  essere felici escludendo gli altri e la loro dignità?

 
I concetti che i ragazzi sono riusciti a trarre dal documentario sono esattamente l’opposto di quello che invece emerge dalla canzone che, provocatoriamente, invita a riflettere su come il mettere al centro se stessi finisca per annullare gli altri, diversamente da quanto facesse Livatino[3].

 

      Ho proposto agli alunni di confrontarsi su una parabola che è conosciuta come Parabola del Figliol Prodigo o del Padre Misericordioso, ma che invece ho presentato agli studenti come Parabola dei due fratelli, perché volevo che si concentrassero non tanto sulla figura del padre, su cui saremmo ritornati, ma sull’atteggiamento dei due fratelli che, pur apparentemente diversi, in realtà avevano tanti aspetti in comune.

Sieger Köder
Il Figliol prodigo
Divisi in piccoli gruppi, con il testo di Lc 15,11-32    consegnato, gli studenti hanno proceduto seguendo le istruzioni:
– individuate i protagonisti della storia e le loro azioni
– a chi, tra questi personaggi, va la vostra comprensione? perché?
– c’è qualcosa che accomuna i due fratelli? riascoltate o rileggete con attenzione il testo
– cosa ha impedito ad entrambi di essere se stessi?

Dal dibattito che ne è seguito non poteva che emergere la piena comprensione nei confronti del fratello maggiore che, a giudizio dei ragazzi, aveva tutte le ragioni per sentirsi indispettito tanto nei confronti del fratello che del padre.

 


[3] Dal documentario su Rosario Livatino sono stati colti questi concetti:

         ·   Essere felici e fare felici gli altri
·   Riconoscere la dignità della persona
·   Guardare con amore chi ti sta di fronte
·   Vedere anche nel delinquente l’uomo
·   Attenzione ai bisogni della gente
·   Fare non rinunce e sacrifici, ma scegliere la parte migliore
·   Fare il proprio dovere fino in fondo 

(altro…)

Una storia che parla incontro e non di scontro

Dall’articolo di MARCO ERBA L’imam “socratico” e l’insegnante che fa nascere idee senza imporre, in Avvenire del 17/03/2024 . 
In uno dei miei viaggi in Bosnia ho conosciuto una donna piena di luce. Quella donna, durante la guerra degli anni Novanta, ha vissuto dentro l’assedio di Sarajevo, con il marito a combattere al fronte per difendere la città e un bambino molto piccolo da accudire. Ho passeggiato a lungo con lei per la città. Mi ha portato vicino al mercato coperto, mi ha indicato il punto in cui si metteva a vendere i suoi regali di nozze, per procurare del cibo a suo figlio. Mi ha portato al tunnel di Sarajevo, sotto l’aeroporto, di cui restano pochi metri: è un budello claustrofobico, nel quale si deve stare chini per camminare. La donna, suo figlio e sua suocera lo hanno percorso per centinaia di metri, per sbucare nella terra di nessuno, rischiando la vita, alle spalle della linea dell’esercito serbo che assediava la città. 
Dopo un viaggio pazzesco, quella donna è arrivata prima in Germania e poi qui in Italia, dove è stata accolta e dove suo marito l’ha raggiunta una volta finita la guerra. 
La guerra per lei è un incubo che fatica ad andarsene. Ha perso molte persone. Un giorno mi ha indicato un ponte sulla Miljacka, il fiume di Sarajevo. Mi ha detto che una sera, su quel ponte, una sua amica si è data appuntamento col suo fidanzato: avrebbero dovuto sposarsi pochi giorni dopo. Ma il matrimonio non ci sarebbe mai stato: proprio quella sera, una bomba ha spazzato via le loro vite. Nonostante ciò che ha passato, la donna è tornata a vivere a Sarajevo con suo marito. 
«A volte mi chiedono chi me lo ha fatto fare», mi ha detto. «Molti, durante e dopo la guerra, da Sarajevo se ne sono andati per non tornare più. Altrove si vive meglio. Anche oggi c’è chi vorrebbe andarsene. Ma io mi guardo intorno, passeggio per il centro. Vedo il locale dove siamo stati io e mio marito la prima volta che siamo usciti insieme. Vedo la stradina dove abbiamo passeggiato la sera, tenendoci per mano. Vedo i luoghi dove ci incontravamo coi nostri amici, per far festa tutta la notte. Questa è la mia città, la nostra città. Se non la facciamo vivere noi, la nostra bella città, a chi dovrebbe toccare?». 
Ciò che di quella donna mi ha più colpito è stata la totale assenza di odio nelle sue parole. 
«L’esercito serbo ci ha attaccato, ci ha accerchiato, di ha bombardato; i cecchini non ci hanno dato tregua per anni. Io in guerra ho perso amici e parenti. Ma non odio nessuno». L’ho guardata stupito. «E come fai? Come ci riesci?». Lei mi ha indicato le montagne intorno a Sarajevo: «Io ho vissuto in un assedio, lo so cosa vuol dire stare in una prigione a cielo aperto. Per questo, adesso, non consento più a nessuno di imprigionarmi. Neanche al mio odio. Perché l’odio è la gabbia peggiore». 
Sono parole che mi hanno segnato profondamente. Mi sono chiesto quale percorso avesse alle spalle per essere arrivata fino a lì. Chiacchierando, ho scoperto che è figlia di una donna musulmana e di un uomo di etnia croata e di religione cattolica. Del resto, la Bosnia è un Paese meravigliosamente multietnico: nel centro di Sarajevo la moschea più importante dista pochi minuti a piedi dalla basilica ortodossa e dalla cattedrale cattolica. I matrimoni tra etnie e religioni diverse, soprattutto prima della guerra, erano all’ordine del giorno. La donna che in quel momento mi parlava era stata una bambina figlia di un matrimonio così: i due genitori pregavano ciascuno un Dio diverso. 
Ai tempi, quella bambina e la sua famiglia abitavano un paese tra le montagne. La bambina, curiosa e piena di domande come tutti alla sua età, cominciò a interrogarsi su quelle differenti religioni che erano presenti nella sua famiglia, dove tradizioni diverse si intrecciavano e le festività di entrambi i culti venivano celebrate. Così, un giorno, Dudu decise di andare dall’imam del suo paese. «Senti, signor Imam, devo farti una domanda». «Dimmi». «Signor imam, io ho un dubbio. Mi papà crede in Dio, in suo Figlio Gesù Cristo e nello Spirito Santo. Mia mamma invece dice che l’unico vero Dio è Allah, e Maometto è il suo profeta. Tu cosa ne pensi? Secondo te, dove dovrei pregare? In chiesa oppure in moschea?». L’imam sorrise benevolo. Le rispose con un’altra domanda, come fanno le persone sagge. «Nella tua classe, a scuola, non c’è qualcuno che gli altri prendono in giro?», le chiese. «Sì. Una mi compagna se ne sta spesso da sola». «Allora tu domani vai da lei, parlaci, state un po’ insieme, coinvolgila. E, senti, nella tua classe non c’è qualcuno che fa fatica in qualche materia?». «Sì. Il mio compagno di banco fa fatica in matematica. Dice che ci capisce molto poco». «Allora invitalo a studiare con te. E quando sei a casa, non litigare troppo con i tuoi fratelli. E dai una mano a tuo papà e a tua mamma senza troppo lamentarti, quando ti chiedono aiuto». «Va bene, signor imam». 
 «Ti lancio una sfida. Impara ad amare. Ma non con le parole, con le azioni: ama con la vita. Amare è una palestra. Se imparerai ad amare, Dio ti parlerà: sarà lui a dirti se pregare in una chiesa o in una moschea». 
Ascoltando questo racconto, ho capito il segreto di quella donna. Ho pensato a quanto è viziata la comunicazione in cui siamo immersi. L’11 settembre del 2001 avevo vent’anni: l’attacco alle Torri Gemelle ha segnato tutta l’epoca successiva. Mi sono reso conto, immaginando il dialogo tra quell’imam e quella bambina curiosa, di quanti messaggi che riceviamo descrivono le identità religiose più come fonte di divisione e di violenza che come strumento di dialogo: l’Islam contro l’Occidente, i cattolici conto i laici. Ma, più in generale, quanto spesso la propria identità viene affermata contro l’altro? Quanto spesso abbiamo bisogno di creare un nemico per affermare identità fragili, senza radici? Quella bambina e il suo imam mi hanno insegnato che l’identità è una ricchezza, ma che un’identità consapevole e ben sviluppata non ha mai paura delle altre identità, non si chiude al confronto, anzi, ne esce arricchita. Un’identità sana non esclude altre identità. Costruisce ponti, abbatte muri. 
Perché una identità può avere molte sfaccettature: non è un pezzo di granito, è un giardino accogliente che si espande e ospita germogli sempre nuovi. Io mi sento orgogliosamente milanese: amo il mio dialetto, amo la mia cucina, amo le mie favole e miei modi di dire. Ma sono anche orgogliosamente italiano, concittadino di Dante, Falcone e Borsellino. Ma sono anche fieramente europeo: tedeschi, francesi, spagnoli, polacchi sono miei fratelli. Ma mi sento anche cittadino del mondo: in Africa e in Sudamerica mi sono sentito a casa, ho incontrato persone con tradizioni diversissime dalle mie, ma che sentivo profondamente legate a me. Poi, certo, c’è chi gioca a dividere per affermare identità fragili: i terroristi, gli integralisti, gli estremisti nazionalisti. In mezzo però ci sono Papa Francesco, che afferma che un uomo può guardare un altro uomo dall’alto in basso solo quando lo aiuta a rialzarsi, e quell’imam, che lascia le risposte a Dio e non pretende di averle in tasca lui. 
Papa Francesco e quell’imam, se si conoscessero, sarebbero amici, ne sono convinto. Quell’imam è stato un grande educatore, ha avuto lo sguardo giusto. È sfuggito alla tentazione di imporre una verità per lui facile a una bambina, per scegliere il sentiero impervio del senso critico e della libertà. Un grande educatore non dà mai risposte preconfezionate, preferisce spingere l’interlocutore a riflettere. Un grande educatore non manipola, preferisce tenere aperte le discussioni. Un grande educatore non afferma certezze, ma dona strumenti utili ad acquisirne. Non costringe verso una meta, ma dona una bussola. Un po’ come faceva il filosofo Socrate, che spingeva le persone a trovare autonomamente la verità attraverso le sue domande. 
La verità è dentro di noi: non ci servono insegnanti narcisi che la calino dall’altro, ma insegnanti levatrici che ci aiutino a partorirla.


Progettare con l’Intelligenza Artificiale

Mi sono subito incuriosita a come l’Intelligenza Artificiale potesse entrare nel mio lavoro di docente. Ammetto di avere un’indole abbastanza aperta alle novità e il mondo dell’IA (o AI all’inglese) non poteva lasciarmi indifferente. 
In questo periodo, che mi ha visto a casa per problemi di salute, non sono rimasta però con le mani in mano e ho frequentato dei corsi che potessero aiutarmi a capire come “governare” la novità. Da docente non credo nell’utilità di un atteggiamento di chiusura e di demonizzazione. Anzi. Mi sono andata convincendo che come insegnanti dobbiamo accogliere la sfida ed aiutare i nostri studenti ad un approccio critico e creativo. 
In fondo, l’IA può offrire l’occasione per educare gli alunni ad attivare tutte le potenzialità che fornisce il pensiero umano, unito ad una buona dose di cultura e di competenze linguistiche, per ottimizzare al meglio le risposte che l’IA può dare ai nostri prompt. Proprio sui promp, ossia le richieste che poniamo all’IA, ho lavorato in uno degli ultimi corsi di formazione frequentati online. E’ stata un’esperienza arricchente in cui abbiamo avuto come guida e relatrice la prof.ssa Licia Landi. 
Inserisco in questo post il projectwork con cui ho concluso il percorso, nella speranza che possa essere di qualche utilità. Cliccare sull’immagine per aprire il lavoro.

Dall’odio al perdono

Perdono, parola difficile da pronunciare e vivere. Basta vedere quello che sta accadendo in questo tempo così complicato, dove si parla di vendetta come se fosse un dovere morale. 
Lei prof, sarebbe capace di perdonare? Spesso me lo hanno chiesto gli studenti e rispondo in modo onesto: “Non so, ma so che non c’è alternativa, perché l’odio consuma”. Aggiungo sempre alla mia riflessione che ci sono stati uomini e donne che hanno saputo perdonare. La loro testimonianza è la riprova che si può perdonare. Come ha saputo fare Gemma Calabresi. 
I miei alunni, al contrario di me, non possono avere memoria del marito, il commissario Luigi Calabresi, che fu ucciso il 17 maggio 1972 a colpi di arma da fuoco dinanzi alla sua abitazione, per mano di un commando di due terroristi di Lotta Continua. Gemma si trovò vedova ad appena 26 anni con due bambini piccoli e un terzo in arrivo. Ho letto nella sua biografia che insegnando religione in una scuola elementare è arrivata a maturare il perdono. 
Riporto un articolo di DIEGO MOTTA pubblicato su Avvenire di lunedì 8 aprile 2024.

Il momento più bello negli incontri pubblici con Gemma Calabresi arriva alla fine, quando la tensione del racconto che commuove l’Italia ormai da mezzo secolo si scioglie, in una lunga processione di abbracci, carezze, lacrime. Sono soprattutto le donne a mettersi in fila. A tutte succede di immedesimarsi in quella ragazza ventiseienne che si svegliò una mattina, con due bimbi piccoli e il terzo in grembo, e si ritrovò improvvisamente da sola al mondo. Perduta. 
«Hanno sparato a un commissario» le disse quella mattina la signora delle pulizie. «Anche quella donna, che non ho mai più rivisto, fu fondamentale perché si prese cura dei miei bambini, in un momento drammatico. Gli sconosciuti ancora oggi mi danno tanta solidarietà, mi dicono: ho pregato per lei, l’ho pensata. Nella mia tragedia non mi sono mai sentita sola. Ho scoperto l’importanza degli altri. È come se, dopo il male, il bene avesse bussato alla mia porta» racconta oggi. 
La fine rappresenta sempre un nuovo inizio. Così come è stata la vita in mezzo: un continuo ricominciare, scalando spesso le pareti dell’odio e dell’ostilità, i pregiudizi, le paure. 
L’immagine degli Anni di Piombo è sempre stata nitida per Gemma Calabresi: i cortei, gli avvertimenti, le minacce, la vita blindata di una coppia appena sposata. L’omicidio del commissario pochi metri fuori da casa. 
« In quel momento, ero prima di tutto una madre che doveva proteggere i propri figli. Pesava molto la rabbia, pesava la necessità di togliere da Luigi il timbro di assassino». 
Odio e rancore rischiano di fare prigionieri, possono moltiplicare il dolore e le tragedie. Per Gemma Calabresi, «bisogna impedire che questo succeda, che il male ti divori. Quando vedo le guerre di oggi, quando vedo cos’è diventato il terrorismo, cioè distruggere l’altro fino a mostrarlo e a farne scempio, rabbrividisco… Aprite le braccia, liberatevi da questo male: lasciate che scompaia la voglia di sopraffazione e di prepotenza, accorgetevi che il prossimo per voi è importante…». 
Signora Gemma, tante donne hanno sfilato in questi mesi, dal Medioriente all’Est Europa, chiedendo una tregua, chiedendo verità e giustizia spesso in mezzo alle bombe. 
Mi capita di soffermarmi soprattutto sulle manifestazioni in cui a scendere in piazza, insieme, sono donne che arrivano da fronti opposti: ho visto donne palestinesi e donne israeliane collaborare, iniziando dalle piccole cose, per far smettere questo odio atavico. Se nell’altro vedi sempre il nemico da combattere, il nemico diventa un’ossessione. Se pensi che avrà anche lui dei figli, una moglie e degli affetti a cui rispondere, se riesci a ridargli un minimo di umanità, allora tutto cambia. Una persona non è soltanto il male che ha compiuto. Anche negli anni del terrorismo c’era un obiettivo indicato alla folla: tutti gridavano e nessuno pensava. Quando vado nelle scuole, lo dico sempre ai ragazzi: non andate dietro a chi urla più forte. 
Oggi le campagne di stampa di cui fu vittima suo marito si consumano in un battito di clic, tra una gogna social e l’altra. 
Prego tantissimo per i ragazzi di oggi, perché non si lascino schiacciare dalle logiche del mondo, perché non finiscano per averne paura. Quando li incontro, trovo studenti profondi e intelligenti. Lo leggo nelle loro domande. Non siate gregari, dico loro. Sanno benissimo che sui social oggi si verifica spesso lo stesso meccanismo ripetuto nelle manifestazioni di cinquant’anni fa: una bugia detta una volta, gridata in corteo mille altre volte, rischia di diventare una verità. Non dimentichiamoci di quella stagione. 
Gigi era il volto conosciuto della questura, il più dialogante: divenne ben presto il capro espiatorio. Ricordo una sera: avevamo invitato a cena la maestra e alla fine lei aveva detto a Gigi: “E’ un momento pericoloso, riguardati”. Mio marito era uomo di profonda fede e le aveva risposto così: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”. 
Lei ha confessato recentemente di aver avuto anche fantasie di vendetta. 
E’ vero. C’è stato un periodo, all’inizio, in cui mi sembrava che quei pensieri mi facessero stare bene, mi svegliavo con l’odio nel cuore. Dentro di me avevo la rabbia, lo scoraggiamento, il pianto, una cattiveria sconosciuta. Ma io non ero così e non potevo farmi divorare dal rancore. Avevo i miei figli e volevo educarli al bene, alla gioia di vivere. Dovevo farmi aiutare e ho trovato tanta gente, oltre alla mia famiglia, disposta a farlo. 
Poi si ricade, tante volte: bastava una scritta sui muri e tornavo a scivolare indietro, mi facevo catturare ancora dalla rabbia… Passare dall’odio alla pace, innanzitutto con se stessi, è stato difficilissimo. Però ho sempre avuto tanta solidarietà intorno a me, anche le persone sconosciute che mi riconoscono al supermercato. Il bene bussa spesso alla nostra porta, il problema è che non ce ne accorgiamo. 
Signora Gemma, che ruolo possono avere le donne oggi in questa società addormentata, dove l’individualismo si è trasformato in ritiro sociale e le ragioni per stare insieme, per fare comunità, paiono venire meno? 
Le donne possono fare molto, ne sono convinta. Non a caso Giorgio Napolitano volle dare un chiaro segnale di pacificazione nazionale, completando il percorso iniziato con la medaglia d’oro consegnataci da Carlo Azeglio Ciampi nel 2004. Nel 2009, il capo dello Stato aveva invitato al Quirinale due vedove. L’abbraccio con Licia Pinelli fu un gesto spontaneo: all’inizio mi era mancato il fiato, ma ero convinta che dovessimo salire un altro gradino in questo cammino di riconciliazione e ce l’abbiamo fatta. Siamo due donne legate dalla stessa sofferenza: anche in quella casa, un giorno, papà non è mai tornato. Quanto al ruolo delle donne nel mondo contemporaneo, penso si debba riconoscere che abbiamo un talento tutto nostro nel ricucire gli strappi, nell’aiutare il dialogo. Questo è importante. 
È un discorso che vale, a maggior ragione, per i genitori… 
Certo. I genitori sono chiamati, oggi più di ieri, a donarsi completamente ai figli. A loro direi: offrite voi stessi, parlate con loro, anche se vi spaventa il male di vivere delle nuove generazioni, la paura, la depressione, la violenza. Pregate per le vittime e per i carnefici. 
Per questo, credo molto nella giustizia riparativa, nel dialogo tra le parti. Quel che si è fatto negli ultimi anni ha aperto la via a una nuova stagione: l’importante è che si cominci un cammino, senza distinguere tra chi vuole mettersi in gioco e chi no. 
Che aiuto ha trovato, invece, dalla fede in Dio? 
Io nella preghiera mi affido e affido, sapesse quante persone mi passano per la mente… trovo conforto, mi sfogo, parlo col Padre eterno. Gli dico: ci devi aiutare, manda i doni dello Spirito Santo. Intorno a noi ci sono disegni terribili che noi non capiamo. Bisogna saper leggere i segni e sapere che Dio ci giudica per il bene compiuto, non per gli errori commessi. 
La fede non è altro dalla vita, il perdono è a disposizione di tutte le religioni ma è frutto di un cammino lungo. Se penso al mio, di percorso, posso dire che adesso mi sento meno giudicante di un tempo. La pace con se stessi si trova se si desidera il bene dell’altro. Va costruita da tutti, innanzitutto da chi continua a pagare un prezzo dovuto alla violenza della guerra. Dobbiamo crederci davvero e non fermarci alle prime difficoltà. 
Una volta ho detto a un sacerdote: “Sono un po’ stanca, vorrei tirare i remi in barca”. Lui mi ha risposto: “Non può farlo, lei ha una missione. Deve andare avanti”.