Una storia che parla incontro e non di scontro

Dall’articolo di MARCO ERBA L’imam “socratico” e l’insegnante che fa nascere idee senza imporre, in Avvenire del 17/03/2024 . 
In uno dei miei viaggi in Bosnia ho conosciuto una donna piena di luce. Quella donna, durante la guerra degli anni Novanta, ha vissuto dentro l’assedio di Sarajevo, con il marito a combattere al fronte per difendere la città e un bambino molto piccolo da accudire. Ho passeggiato a lungo con lei per la città. Mi ha portato vicino al mercato coperto, mi ha indicato il punto in cui si metteva a vendere i suoi regali di nozze, per procurare del cibo a suo figlio. Mi ha portato al tunnel di Sarajevo, sotto l’aeroporto, di cui restano pochi metri: è un budello claustrofobico, nel quale si deve stare chini per camminare. La donna, suo figlio e sua suocera lo hanno percorso per centinaia di metri, per sbucare nella terra di nessuno, rischiando la vita, alle spalle della linea dell’esercito serbo che assediava la città. 
Dopo un viaggio pazzesco, quella donna è arrivata prima in Germania e poi qui in Italia, dove è stata accolta e dove suo marito l’ha raggiunta una volta finita la guerra. 
La guerra per lei è un incubo che fatica ad andarsene. Ha perso molte persone. Un giorno mi ha indicato un ponte sulla Miljacka, il fiume di Sarajevo. Mi ha detto che una sera, su quel ponte, una sua amica si è data appuntamento col suo fidanzato: avrebbero dovuto sposarsi pochi giorni dopo. Ma il matrimonio non ci sarebbe mai stato: proprio quella sera, una bomba ha spazzato via le loro vite. Nonostante ciò che ha passato, la donna è tornata a vivere a Sarajevo con suo marito. 
«A volte mi chiedono chi me lo ha fatto fare», mi ha detto. «Molti, durante e dopo la guerra, da Sarajevo se ne sono andati per non tornare più. Altrove si vive meglio. Anche oggi c’è chi vorrebbe andarsene. Ma io mi guardo intorno, passeggio per il centro. Vedo il locale dove siamo stati io e mio marito la prima volta che siamo usciti insieme. Vedo la stradina dove abbiamo passeggiato la sera, tenendoci per mano. Vedo i luoghi dove ci incontravamo coi nostri amici, per far festa tutta la notte. Questa è la mia città, la nostra città. Se non la facciamo vivere noi, la nostra bella città, a chi dovrebbe toccare?». 
Ciò che di quella donna mi ha più colpito è stata la totale assenza di odio nelle sue parole. 
«L’esercito serbo ci ha attaccato, ci ha accerchiato, di ha bombardato; i cecchini non ci hanno dato tregua per anni. Io in guerra ho perso amici e parenti. Ma non odio nessuno». L’ho guardata stupito. «E come fai? Come ci riesci?». Lei mi ha indicato le montagne intorno a Sarajevo: «Io ho vissuto in un assedio, lo so cosa vuol dire stare in una prigione a cielo aperto. Per questo, adesso, non consento più a nessuno di imprigionarmi. Neanche al mio odio. Perché l’odio è la gabbia peggiore». 
Sono parole che mi hanno segnato profondamente. Mi sono chiesto quale percorso avesse alle spalle per essere arrivata fino a lì. Chiacchierando, ho scoperto che è figlia di una donna musulmana e di un uomo di etnia croata e di religione cattolica. Del resto, la Bosnia è un Paese meravigliosamente multietnico: nel centro di Sarajevo la moschea più importante dista pochi minuti a piedi dalla basilica ortodossa e dalla cattedrale cattolica. I matrimoni tra etnie e religioni diverse, soprattutto prima della guerra, erano all’ordine del giorno. La donna che in quel momento mi parlava era stata una bambina figlia di un matrimonio così: i due genitori pregavano ciascuno un Dio diverso. 
Ai tempi, quella bambina e la sua famiglia abitavano un paese tra le montagne. La bambina, curiosa e piena di domande come tutti alla sua età, cominciò a interrogarsi su quelle differenti religioni che erano presenti nella sua famiglia, dove tradizioni diverse si intrecciavano e le festività di entrambi i culti venivano celebrate. Così, un giorno, Dudu decise di andare dall’imam del suo paese. «Senti, signor Imam, devo farti una domanda». «Dimmi». «Signor imam, io ho un dubbio. Mi papà crede in Dio, in suo Figlio Gesù Cristo e nello Spirito Santo. Mia mamma invece dice che l’unico vero Dio è Allah, e Maometto è il suo profeta. Tu cosa ne pensi? Secondo te, dove dovrei pregare? In chiesa oppure in moschea?». L’imam sorrise benevolo. Le rispose con un’altra domanda, come fanno le persone sagge. «Nella tua classe, a scuola, non c’è qualcuno che gli altri prendono in giro?», le chiese. «Sì. Una mi compagna se ne sta spesso da sola». «Allora tu domani vai da lei, parlaci, state un po’ insieme, coinvolgila. E, senti, nella tua classe non c’è qualcuno che fa fatica in qualche materia?». «Sì. Il mio compagno di banco fa fatica in matematica. Dice che ci capisce molto poco». «Allora invitalo a studiare con te. E quando sei a casa, non litigare troppo con i tuoi fratelli. E dai una mano a tuo papà e a tua mamma senza troppo lamentarti, quando ti chiedono aiuto». «Va bene, signor imam». 
 «Ti lancio una sfida. Impara ad amare. Ma non con le parole, con le azioni: ama con la vita. Amare è una palestra. Se imparerai ad amare, Dio ti parlerà: sarà lui a dirti se pregare in una chiesa o in una moschea». 
Ascoltando questo racconto, ho capito il segreto di quella donna. Ho pensato a quanto è viziata la comunicazione in cui siamo immersi. L’11 settembre del 2001 avevo vent’anni: l’attacco alle Torri Gemelle ha segnato tutta l’epoca successiva. Mi sono reso conto, immaginando il dialogo tra quell’imam e quella bambina curiosa, di quanti messaggi che riceviamo descrivono le identità religiose più come fonte di divisione e di violenza che come strumento di dialogo: l’Islam contro l’Occidente, i cattolici conto i laici. Ma, più in generale, quanto spesso la propria identità viene affermata contro l’altro? Quanto spesso abbiamo bisogno di creare un nemico per affermare identità fragili, senza radici? Quella bambina e il suo imam mi hanno insegnato che l’identità è una ricchezza, ma che un’identità consapevole e ben sviluppata non ha mai paura delle altre identità, non si chiude al confronto, anzi, ne esce arricchita. Un’identità sana non esclude altre identità. Costruisce ponti, abbatte muri. 
Perché una identità può avere molte sfaccettature: non è un pezzo di granito, è un giardino accogliente che si espande e ospita germogli sempre nuovi. Io mi sento orgogliosamente milanese: amo il mio dialetto, amo la mia cucina, amo le mie favole e miei modi di dire. Ma sono anche orgogliosamente italiano, concittadino di Dante, Falcone e Borsellino. Ma sono anche fieramente europeo: tedeschi, francesi, spagnoli, polacchi sono miei fratelli. Ma mi sento anche cittadino del mondo: in Africa e in Sudamerica mi sono sentito a casa, ho incontrato persone con tradizioni diversissime dalle mie, ma che sentivo profondamente legate a me. Poi, certo, c’è chi gioca a dividere per affermare identità fragili: i terroristi, gli integralisti, gli estremisti nazionalisti. In mezzo però ci sono Papa Francesco, che afferma che un uomo può guardare un altro uomo dall’alto in basso solo quando lo aiuta a rialzarsi, e quell’imam, che lascia le risposte a Dio e non pretende di averle in tasca lui. 
Papa Francesco e quell’imam, se si conoscessero, sarebbero amici, ne sono convinto. Quell’imam è stato un grande educatore, ha avuto lo sguardo giusto. È sfuggito alla tentazione di imporre una verità per lui facile a una bambina, per scegliere il sentiero impervio del senso critico e della libertà. Un grande educatore non dà mai risposte preconfezionate, preferisce spingere l’interlocutore a riflettere. Un grande educatore non manipola, preferisce tenere aperte le discussioni. Un grande educatore non afferma certezze, ma dona strumenti utili ad acquisirne. Non costringe verso una meta, ma dona una bussola. Un po’ come faceva il filosofo Socrate, che spingeva le persone a trovare autonomamente la verità attraverso le sue domande. 
La verità è dentro di noi: non ci servono insegnanti narcisi che la calino dall’altro, ma insegnanti levatrici che ci aiutino a partorirla.


Torniamo ad educare

«I ragazzi si demoralizzano quando non sono allenati a scegliere, perché non li abbiamo messi in condizione di farsi carico della realtà, di risponderle. Rispondere e responsabilità hanno la stessa radice: irresponsabile è infatti chi non sente la realtà e ciò accade se la cultura dominante la nasconde. Torniamo a educare il carattere, cioè l’esercizio della libertà: le scelte. Quali responsabilità diamo ai ragazzi? Chi o cosa dipende da loro? Quali incarichi hanno a casa o fuori? Spesso sembrano apatici, ma semplicemente non abbiamo mostrato loro cosa è bene e cosa male, cosa è reale e cosa no, per cosa vale la pena vivere». 
Alessandro D’Avenia 

Il bambino di ghiaccio

Avete sentito di quel bambino cinese di 10 anni che ha fatto 4 chilometri a piedi per andare a scuola, ad una temperatura di meno 9 gradi?

foto trovata su http://news.joins.com/article/22277279

Vi riporto alcuni passi dell’editoriale di Fernando Camon su Avvenire del 14 gennaio 2018.
«A me, che ho passato la vita a insegnare, la nota che mi sorprende di più è un’altra: quel giorno, per quel bambino, c’era compito in classe. E lui non voleva mancare.

Il compito in classe è un evento importante, fa vedere al tuo insegnante che cosa hai imparato, come migliori, dove sei forte. Ed è un documento: resta agli atti. Non so come vadano le cose in Cina, ma da noi i compiti vengono conservati e possono essere consultati, un compito è per sempre. Ragion per cui anche da noi gli studenti per fare il compito in classe affrontano freddo e gelo (o, altrove un solo a picco e chilometri e chilometri in percorsi aridi)? No, al contrario: nel giorno del compito in classe gli alunni deboli non vogliono che la loro debolezza venga misurata, che resti agli atti, perciò se trovano un minimo appiglio (e 9 gradi sotto zero sono appiglio formidabile), stanno a casa volentieri.

Per questo la notizia mi è sembrata mirabolante. E mi ha commosso. Per questo ne parlo. È questo che spiega, meglio di tanti altri ragionamenti, la crescita annuale a due cifre della grande Cina: questo bambino s’impegna come s’impegna il popolo a cui appartiene, ce la mette tutta, se lo Stato (il maestro, la famiglia, i parenti…) gli fan capire che una cosa va fatta, lui la fa.
Possediamo una foto di questo ragazzino, in cui lui sta dritto in piedi, guance paonazze, orecchie rosse, occhi seri: un ometto di massimo affidamento. Nella foto non si vedono le mani, che si vedono però in un’altra foto, tutta per loro, in cui sono posate sui fogli di un quaderno, a dita aperte, e le dita sono straordinariamente grosse, come per una malattia. Sono i geloni. Nella camminata gli si son gelate le dita, a questo povero ragazzo. Le dita gelate si screpolano e tra i crepetti escono goccioline di sangue. Niente di grave, ma è molto patetico. Il sangue gela subito. È una caratteristica della mani dei bambini poveri, cioè senza guanti. Evidentemente, questo bambino ha marciato per 4 chilometri dalla poverissima capanna dove vive coi nonni (la madre è morta, il padre e lontano per poter lavorare) con le mani all’aperto, non in tasca. Per fare il compito in classe. Per non far mancare al maestro questo documento per la sua completa valutazione».
Condivido in pieno questa riflessione.
Forse è il caso che tutti noi, genitori, insegnanti, alunni, si faccia una seria riflessione su quello che stiamo perdendo.

Non fate cose “terra terra”

Per me è sempre motivo di gioia incontrarmi con i giovani. In questo giorno vi dico: per favore, tenete viva la gioia, perché è segno del cuore giovane, del cuore che ha incontrato il Signore. E se voi mantenete viva questa gioia con Gesù, nessuno ve la può togliere, nessuno (cfr Gv 16,22)!
Ma, nel dubbio, vi consiglio: non lasciatevela rubare, abbiate cura di tale gioia che tutto unifica nel sapersi amati dal Signore. Perché, come abbiamo detto all’inizio, Dio ci ama… com’era? (rispondono: «Dio ci ama con cuore di Padre»). Di nuovo! («Dio ci ama con cuore di Padre”). E questo è il principio della gioia. Il fuoco dell’amore di Cristo rende traboccante questa gioia ed è sufficiente per incendiare il mondo intero.
Che cosa dunque potrebbe impedirvi di cambiare questa società, come volete fare? Non temete il futuro! Osate sognare grandi cose! A questo grande sogno, oggi vi voglio invitare. Per favore, non fate cose “terra terra”, no: volate in alto e sognate grandi cose! Voi giovani avete una speciale sensibilità per riconoscere la sofferenza degli altri; è interessante: voi vi rendete conto subito. Il volontariato del mondo intero si nutre di migliaia di voi che siete capaci di mettere a disposizione il vostro tempo, di rinunciare alle vostre comodità, a progetti centrati su voi stessi, per lasciarvi commuovere dalle necessità dei più fragili e dedicarvi a loro. Ma può anche succedere che siete nati in ambienti dove la morte, il dolore, la divisione sono penetrate tanto a fondo da lasciarvi quasi nauseati e come anestetizzati dal dolore: per questo vi voglio dire: lasciate che le sofferenze dei vostri fratelli colombiani vi facciano muovere! E aiutate noi anziani a non abituarci al dolore e all’abbandono. Abbiamo bisogno di voi, aiutateci a non abituarci al dolore e all’abbandono.

Papa Francesco ai giovani di Bogotà (settembre 2017)

Educare alla bellezza

«Ogni statua che cade, ogni colonna che crolla è un colpo letale nei confronti della libertà e della ragione dell’uomo, della bellezza, della possibilità di costruzione. 

L’archeologo che ha difeso fino al sangue la possibilità di ‘guardare’ quelle opere, dopo aver lavorato una vita per tirarle fuori dalla sabbia e renderle ‘visibili’ al mondo, dovrebbe essere ricordato il primo giorno di scuola.

È fondamentale che tutti i nostri studenti, anche i più piccoli, vedano quella bellezza e quella distruzione per capire il senso del nostro amore per quello che ci è stato consegnato dalla storia».
Elena Ugolini in Avvenire del 26 agosto 2015
Khaled al Asaad

Morire di droga o vivere da vivi

Morire a 16 anni. Soli. Che sia nel rumore della musica sparata a tutto volume o nel silenzio di una spiaggia cambia poco. Morire così giovani per ecstasy o chissà quale altra diavoleria non ha senso!
Ma è possibile che non ci sia altro modo per vivere appieno la vita?
Prendo in prestito le parole di Ernesto Olivero dalla “Lettera a non so chi” pubblicata su Avvenire di ieri.
«Parecchio tempo fa ero in una città del Centro Italia con davanti due-tremila giovani. Chi mi conosce sa che non preparo mai un incontro, ma ho sempre una Bibbia con me. Spesso spinto dalle domande dico cose che non avevo mai pensato. Di sicuro so che ho dentro di me un amore sconfinato per i giovani, i peggiori e i migliori senza distinzione. Forse perché sono stato influenzato da un uomo vestito di bianco che si chiamava frère Roger. Una volta disse che un pugno di giovani potevano cambiare il loro tempo. Lui era credibile e io ero un ragazzo.
Mi sono sentito amato, anche se allora le sue parole non ero in grado di digerirle davvero. E dentro di me pensai: ci voglio provare.
Frère Roger e anche altri testimoni seri mi hanno cambiato.
Quel giorno in una città del Centro Italia, in modo imprevisto anche per me, davanti a quella folla di giovani sbottai: voi siete paurosi e vigliacchi due volte.

Seguì un silenzio che mi ricordo ancora. E continuai: facciamo un ragionamento. Le statistiche dicono che fino al 90% dei giovani si spinella. Voi dite di amare l’ecologia, la pace, la giustizia. Beh, io non ci credo. Voi siete amici della malavita. I vostri soldi, a chi li date? C’era un imbarazzo che si sentiva nell’aria. Siete vigliacchi due volte e vi dico perché.
In mezzo a voi può esserci il futuro Alcide De Gasperi, un grande statista, ci può essere il futuro Einstein, il futuro premio Nobel per la pace. E voi, che fate? Il sabato sera vi sballate, vi ubriacate, rischiate la vita con la macchina. Allora vi chiedo: vivendo così la bellezza che c’è dentro di voi nasce o muore?
Da allora ripeto gli incontri con i giovani con entusiasmo sempre nuovo. Una volta un ragazzo mi disse: ma tu così vuoi mandare in carcere tutti i drogati! No, risposi, ti sbagli. Voglio un mondo in cui nessuno si droga, neppure nel caso in cui sia consentito dalla legge. Voglio dei giovani che liberamente e spontaneamente scelgono di vivere da vivi. Non voglio una società del minor danno, per i giovani voglio il massimo. Io vi voglio bene veramente e so che voi potete cambiare il mondo. Potete diventare politici e non rubare, diventare preti ed essere san Francesco, qualsiasi mestiere potete farlo con passione e responsabilità. So che potete fare tutto questo.
Non so a chi scriverla questa lettera. Ma la scrivo, qualcuno la intercetterà.
Chi ama davvero i giovani? I giovani muoiono, e si fanno inchieste, interpellanze, leggi che poi nessuno osserverà.
Ma quanti ne devono morire ancora?
Vorrei che i politici, quelli di destra, di sinistra, di centro si guardassero in faccia e si chiedessero: perché i giovani non sono al primo posto? Basta un pugno di giovani per farla finita con il malaffare. Vorrei una società libera, non bigotta, dove i giovani trovino casa e un po’ di senso della vita. Noi con un pugno di amici ci stiamo provando e penso che non ci arrenderemo.
Non so a chi scriverla questa lettera, ma la scrivo lo stesso perché credo a quello che dico.
So che non è un sogno, si può realizzare, basta un po’ di buona volontà».

Un’alternativa al male che c’è: far crescere persone buone

Frammento di vita scolastica. Ragazzi di terza media. Tragitto dalla classe verso l’aula di informatica. Hooligans? Selvaggi?
Forse esagero, ma sono tante le volte in cui ho invitato i miei alunni a essere meno rumorosi, più rispettosi del luogo in cui si trovano e del lavoro dei loro compagni e degli insegnanti.
Perché Hellerup (vi ricordate la scuola senza aule?) deve essere un sogno impossibile da realizzare?
A volte mi domando che cosa sbagliamo (scuola e famiglia) nell’approccio educativo. Perché questi ragazzi, per il fatto di essere in gruppo, si sentono in potere e in diritto di fare quello che vogliono?
Forse esagero. Sarà l’età che avanza.
Eppure non dobbiamo stancarci di proporre un modo di vivere “alto” e “altro”. Intendo dire che dobbiamo insegnare ai nostri figli/alunni che bisogna crescere come persone, non come individui. Perché «una persona cresce, matura, è aperta al cambiamento. L’individuo, al contrario, rimane fermo nelle sue pretese, vuole sempre tutto per sé e per sé soltanto» (Susanna Tamaro).
E’ necessario, insomma, chiedere ai nostri ragazzi di desiderare non di essere i migliori, i più bravi, i più popolari, ma di essere persone buone,
Il mondo ha veramente bisogno di persone buone, che sappiano proporre un’alternativa a tutto il male che c’è.
Mi è piaciuta la testimonianza di Ernesto Olivero che, nella sua rubrica “E’ possibile” pubblicata dal quotidiano Avvenire, il 27 maggio ricordava Giorgio La Pira. Vi riporto l’articolo:

«Il suo esempio  mi aveva colpito da subito. Nell’incertezza anche politica degli anni 70, l’ex sindaco di Firenze Giorgio La Pira mi dava l’idea di essere un uomo buono, un uomo di Dio. Volli conoscerlo e così avvenne. Senza che me ne accorgessi, quell’incontro diventò uno dei più importanti della mia vita. Fu proprio Giorgio La Pira, infatti, a farmi innamorare di Isaia e della sua profezia: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci. Ci sarà un tempo in cui le armi saranno trasformate in strumenti di lavoro». Giorgio La Pira mi aprì gli occhi anche su un altro sogno, che ebrei, cristiani e musulmani, figli di Abramo, potessero finalmente dialogare come fratelli. «L’autentica famiglia umana – diceva, citando Seneca – è simile ad una volta fatta di pietre che vicendevolmente si sostengono le une con le altre».
Quanto sono vere queste parole, nel bene e nel male! Saggezza è capire che abbiamo solo il presente da vivere e che ci giochiamo la nostra vita, la nostra eternità, il nostro destino ora, adesso. Al di là del dolore, della follia, della violenza, più che mai è questa l’epoca in cui devono emergere i buoni ebrei, i buoni cristiani, i buoni musulmani, i buoni di qualunque cultura, tradizione religiosa o laica. Il sogno di La Pira non è utopia. Io ci credo!».
Voglio credere anch’io nelle persone buone. Voglio credere che sia possibile aiutare i nostri ragazzi a giocarsi la loro vita adesso. Non dietro all’egoismo del “tutto e subito”, o al “tirare a campare”, ma con la consapevolezza di essere”pietre” di un arco che sostiene e si sostiene.
Credo che dobbiamo e possiamo educare i nostri giovani a desideri di bellezza e di bontà. Solo così potranno veramente impegnarsi a costruire un mondo migliore. E questi ragazzi lo faranno non perché gli è stato imposto o comandato, ma perché li avremo aiutati a crescere come  persone buone.
Questo vale più di qualunque altra cosa!

Dove si impara il dialogo? In famiglia. Parola di papa Francesco

La famiglia è la prima scuola di comunicazione. E, quanto più la qualità delle comunicazioni tra la coppia, e poi tra genitori e figli, è segnata dalla trasmissione di ciò che conta davvero, tanto più sarà facile adottare una comunicazione efficace anche fuori dalla porta di casa, sul piano sociale.
Ecco il senso del messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebra domenica.
Il primo valore è quello dell’accoglienza e si radica addirittura ben prima della nascita, in quel dialogo silenzioso ma eloquente tra la mamma e il nascituro. «Il grembo che ci ospita – scrive il Papa – è la prima scuola di comunicazione, fatta di ascolto e di contatto corporeo». Una ‘scuola’ naturale, dove la comunicazione è modulata sulla verità e sulla tenerezza.
Il secondo valore, scorrendo il testo di Bergoglio, è quello della differenza. In famiglia impariamo a convivere con diversità di generi e di generazioni, nella reciprocità e nella complementarietà. Le parole della mamma sono diverse, per toni e contenuti, da quelle del papà. Ma il bambino, ancora prima di coglierne il senso, impara a distinguere le sfumature, le modalità di approccio, la varietà. Poi, arriva il momento di capire anche con l’intelletto oltre che con il cuore, e qui lo strumento indispensabile – e siamo al terzo valore – è la lingua materna, quella dei nostri antenati. È proprio grazie alla parola che possiamo scoprire la ricchezza che abbiamo ricevuto e cominciare a trasmettere ciò che abbiamo dentro. Questa capacità di socializzare – ecco il quarto valore – innesca «un circolo virtuoso, il cuore della capacità della famiglia di comunicare e comunicarsi». Ricordare chi ci ha preceduto permette di scoprire un altro valore della comunicazione, e siamo al quinto momento, cioè la necessità di educare alla preghiera, cioè quella dimensione religiosa della comunicazione che, nella luce della fede, diventa dono e offerta. Dalla preghiera nasce un altro momento essenziale, la capacità di abbracciarsi, sostenersi, accompagnarsi che potremmo definire educazione alla solidarietà (il sesto valore), che è «scoperta e costruzione di prossimità». Proprio dall’abitudine di ridurre le distanze, di venirsi vicendevolmente incontro, nasce la capacità di comunicare gratitudine( settimo valore) e fraternità (ottavo valore). E chi sa mostrarsi grato per la propria condizione e vede nell’altro un fratello, saprà anche aprire le porte di casa e andare verso l’altro con generosità ( siamo al punto nove). La scoperta di ciò che ci circonda, contribuisce anche a scoprire i limiti propri e altrui.
«Non esiste la famiglia perfetta, ma non bisogna aver paura dell’imperfezione – sottolinea ancora Francesco – e neppure dei conflitti». Ecco perché altri spunti educativi irrinunciabili della comunicazione in famiglia sono quelli del perdono e dell’ascolto degli altri – e siamo al decimo e undicesimo valore – . E infine, in un «mondo dove così spesso si maledice, si parla male, si semina zizzania», e in cui l’incomprensione sfocia sempre più spesso nella disgregazione familiare, i genitori devono ricordarsi di spiegare che la comunicazione dev’essere anche benedizione, l’unica strategia «per spezzare la spirale del male, per testimoniare che il bene è sempre possibile».

Tratto da “E Francesco offre un «dodecalogo» di Luciano Moia in Avvenire del 12 maggio 2015

In questa infografica riassumo i punti salienti del documento.

Ragazzi terribili condannati a custodire il paese

Una storia esemplare come tentativo di dare radici al senso civico, troppo spesso fragile e intermittente.

Sette ragazzini di Dorgali, tutti sotto i 14 anni, nei giorni scorsi hanno distrutto i lampioni della marina di Cala Gonone, nota località turistica della costa nuorese. Il sindaco, Angelo Carta, che ha ricevuto le madri presentatesi in Comune per autodenunciarsi, ha deciso di nominare i sette ragazzi terribili “amministratori” della località, affidando loro la cura ed il decoro della frazione balneare. Lo stesso primo cittadino ha parlato di una scelta in funzione pedagogica piuttosto che coercitiva, e non ha fissato la data finale per il compito assegnato ai ragazzi.
Ecco le regole della “punizione”. «Li ho nominati amministratori di Calagonone – scrive Carta – e in quanto tali devono guardare il loro paese con responsabilità e attenzione, per individuare le cose che non vanno e quelle che devono essere fatte per migliorarlo; entro ogni venerdì devono inviare alla mia email il programma degli interventi della settimana successiva; io approvo o modifico il programma di lavoro per la settimana, aspettando il nuovo programma per il venerdì seguente, facendo verificare che quello in corso sia stato eseguito a regola d’arte».
Una scelta che ha trovato d’accordo le stesse madri, indicate dal sindaco come esempio da seguire. Troppo spesso, infatti, la difesa a spada tratta dei propri figli rischia di danneggiare non poco il percorso di crescita e responsabilizzazione dei giovani.

«Ho voluto sapere – spiega il sindaco – il perché del loro gesto. Mi hanno risposto “boh, e chi lo sa?”. Poi mi hanno chiesto quando finirà la punizione». E quando finirà? «Boh, e chi lo sa?»…

Tratto da Avvenire del 15 febbraio 2014 e Popotus del 17 febbraio 2015