La ragazza sempre in ritardo e la sua battaglia domestica

Una storia di scuola su cui riflettere. 

Carolina arriva in ritardo a scuola. La rimprovero: «Sei al liceo, è ora di diventare responsabile!». Niente, il giorno dopo è lo stesso: la campanella suona alle 8:00, ma lei entra in classe alle 8:09, giusto qualche istante prima che l’ingresso della scuola venga chiuso. Io, da prof inflessibile, guardiano delle regole, parto in quarta con un’altra filippica: « Essere puntuali significa rispettare tutti, in primis te stessa. Le regole sono importanti, non sono vuote imposizioni. Servono a una positiva convivenza civile, al benessere di tutti, all’efficace organizzazione del nostro lavoro ». E via così: una lezione di educazione civica in miniatura. Una lezione evidentemente inutile, visto che la mattina dopo Carolina è di nuovo in ritardo. O meglio, è puntualissima nel suo ritardo, come un orologio svizzero: continua a entrare a scuola alle 8:09 per giorni, per settimane. Carolina frequenta la seconda superiore. Ha lo sguardo duro, carico di sfida, messo in rilievo dal trucco marcato. Carolina è impermeabile: tutto le scivola addosso. Carolina sta in classe comunicandoti in qualunque forma non verbale che quello che tu, prof, stai proponendo, a lei non importa per nulla. Carolina, al cambio d’ora, parla solo di ubriacature, di pomeriggi al parco a spaccarsi e a spaccare, di fumo, di trasgressione così costante da diventare noiosa. Con Carolina non riesci a dialogare: se ci provi lei tace, ma non abbassa mai lo sguardo. Eppure Carolina è geniale: assorbe tutto, ha un’intelligenza vivacissima, un senso critico di raro acume. È una di quelle che quando discuti di un argomento ne coglie immediatamente il cuore e, le poche volte che ne ha voglia, ne parla in modo impeccabile. Ma Carolina gioca sempre al minimo. Anche quando prende un bel voto ti guarda dall’alto in basso, come se ti dicesse: « Hai visto? Sei contento adesso?» Come se si degnasse di farti un favore, così non le rompi più le scatole. Mi fa rabbia, Carolina.
Perché spreca così le sue doti? Da dove viene tutta quella voglia di provocare chiunque? Me lo chiedo per mesi senza trovare risposta. Poi arriva il momento dell’Eneide. A mo il capolavoro di Virgilio: in classe gli dedico diverse ore, leggendo molti brani insieme agli studenti. L’Eneide è sempre un’avventura, un grande viaggio. Ma quando il viaggio inizia, fin dal proemio con l’ira di Giunone, Carolina scivola sul banco, chiude gli occhi e si addormenta. Le pagine del libro, con i loro versi immortali, diventano un improvvisato cuscino. I brani successivi non hanno risultati migliori. I Greci hanno distrutto Troia, l’hanno saccheggiata e le hanno dato fuoco. Il troiano Enea fugge con suo padre in spalla e suo figlio per mano, salpa con un gruppo di suoi concittadini superstiti. Enea riesce a superare molte prove, ma non l’indifferenza di Carolina, che continua a sonnecchiare con rare accezioni.
Una volta, ad esempio, Carolina è stranamente seduta composta, apparentemente attenta, ma intanto mangia popcorn. Le faccio notare che l’Eneide sarà anche bella come un film, ma non siamo al cinema. Mi fissa flemmatica: mette il pacchetto aperto sotto il banco e continua a mangiare di nascosto un paio di popcorn alla volta, appena distolgo lo sguardo. Quando finisco di leggere l’Eneide, racconto cosa accadrà dopo: i discendenti di Enea fonderanno Roma; dalla distruzione nascerà nuova vita, una storia inattesa. Ma Carolina intanto è già tornata a dormire. Qualche giorno dopo assegno un tema alla classe. Provo a uscire un po’ dagli schemi, tento di provocare gli studenti. Chiedo loro di scrivere un elaborato con questo titolo: «Come l’Eneide ha parlato alla tua vita?».
Vedo alcune facce perplesse, provo a spiegarmi meglio: «La letteratura è sempre uno specchio. I classici sono immortali perché in essi possiamo trovare almeno un frammento della nostra vita. In quale frammento dell’Eneide vi siete rivisti?». I ragazzi cominciano a scrivere. 
Carolina parte a razzo, è la prima consegnare. In un’ora buca mi metto in un angolo del grande tavolo della sala prof e comincio a correggere. Cerco apposta il tema di Carolina: sono curioso di leggere ciò che ha scritto, dopo aver dormito per tutta la lettura. 
Il testo inizia così: «L’Eneide è il libro più bello che abbia mai letto». Sospiro: mi sta provocando una volta di più. Vado avanti: «Io Enea lo conosco di persona. Lo vedo tutti i giorni». «Ecco », penso tra me e me, «vedi l’effetto del consumo di cannabis di prima mattina? Entri a scuola sempre in ritardo e, al posto di vedere i compagni e i prof, ti sembra di vedere Enea». 
Preparo la penna rossa per scriverle una nota sotto il tema: basta prese in giro! 
Proseguo la lettura: «Lo conosco bene Enea, perché Enea è mia mamma». Mi viene quasi da ridere, non fosse per il fastidio. Poi leggo la frase dopo. E quella dopo ancora. Finisco il tema di Carolina senza fiato. Mi ritrovo a piangere come una fontana. Una collega mi affianca, mi chiede se va tutto bene. Le indico il tema. Lo legge, piange anche lei. 
Questo è il tema di Carolina:
«L’Eneide è il libro più bello che abbia mai letto. Io Enea lo conosco di persona. Lo vedo tutti i giorni.

Lo conosco bene Enea, perché Enea è mia mamma. Mio padre è alcolista. Con il suo vizio, ha distrutto la mia famiglia, la mia spensieratezza, la mia infanzia e quella di mio fratello, proprio come i Greci hanno distrutto Troia. Ma, come Enea ha preso per mano suo figlio e l’ha portato verso un futuro diverso, lasciandosi alle spalle le macerie della sua città, così mia mamma ha preso per mano me e mio fratello, ci ha portati via dalle macerie di quella casa, ci ha regalato un futuro di nuovo possibile. Per questo mia mamma è il mio Enea. Il mio eroe. E, se un giorno diventerò madre, spero di essere una madre come lei ». 
In un istante, la trasgressiva Carolina è diventata una maestra di vita. Mi ha ricordato che abbiamo tutti città distrutte alle spalle e futuri possibili davanti. Abbiamo tutti viaggi che ci aspettano, ripartenze necessarie. Mi sono chiesto, con dolore e con stupore, quante provocazioni degli adolescenti, che noi adulti vorremmo stroncare in nome della nostra presunta autorità, sono in realtà urla di dolore per ferite che non trovano voce. Quante volte tutti noi, adulti e ragazzi, ci barrichiamo dietro una finta durezza perché abbiamo paura di essere colpiti, di stare male? Quante volte chiudiamo le braccia per paura di essere pugnalati e perdiamo l’occasione di essere abbracciati? 
Carolina è una persona meravigliosa, sensibile, empatica: adesso lo so, grazie a un tema. 
Ripenso e auguro a me stesso e a tutti gli insegnanti, all’inizio di questo anno scolastico, di saper regalare ciò che ci appassiona a chi sta tra quei banchi; regalarlo, gratis, senza aspettarci niente, ma sempre col coraggio e con la speranza che spinge a guardare oltre, a quella città possibile da fondare oltre il mare. 

Marco Erba, in Avvenire del 12/09/2023

Torniamo ad educare

«I ragazzi si demoralizzano quando non sono allenati a scegliere, perché non li abbiamo messi in condizione di farsi carico della realtà, di risponderle. Rispondere e responsabilità hanno la stessa radice: irresponsabile è infatti chi non sente la realtà e ciò accade se la cultura dominante la nasconde. Torniamo a educare il carattere, cioè l’esercizio della libertà: le scelte. Quali responsabilità diamo ai ragazzi? Chi o cosa dipende da loro? Quali incarichi hanno a casa o fuori? Spesso sembrano apatici, ma semplicemente non abbiamo mostrato loro cosa è bene e cosa male, cosa è reale e cosa no, per cosa vale la pena vivere». 
Alessandro D’Avenia 

Una cosa più grande

A conclusione di questo anno scolastico, spero di avervi lasciato l’idea, cari studenti, che ci sono domande di senso che accompagnano la nostra vita e che c’è qualcosa di più grande che ci riguarda. Come ogni anno siamo partiti dalla realtà in cui viviamo (e che viviamo) per provare ad avere uno sguardo più ampio che ci aprisse alla ricerca umana di senso e al confronto con il mondo della religione. Certo, il focus era puntato sulla religione cattolica ma il grandangolo 😉 ci ha permesso di conoscere e confrontarci con altri sistemi di significato. Vi saluto tutti, cari ragazzi, con questa canzone, che può essere letta con quello sguardo che ci fa intravvedere un oltre a cui, in quanto umani, tendiamo.

 

Ad una classe

Alcuni studenti di scuola superiore hanno espresso il timore di non sapere se avrebbero continuato la scuola, se fossimo ritornati in dad. Che fatica questi due anni!!! Quanto ci affatica anche pensare che gli sforzi e i sacrifici fatti potrebbero non essere sufficienti. 
Diventare umani è veramente un percorso difficile, perché quando la strada si fa ardua e tortuosa, l’istinto ci dice di fuggire. E ognuno fugge/sfugge a modo suo. Cosa ci può salvare allora? 
Credo che, quando si fa fatica a trovare il senso (e il verso), c’è bisogno di qualcuno che ci dica cosa fare: un padre, una madre, un fratello grande, un insegnante… Qualcuno però che ci voglia veramente bene. Che ci convinca del bene che desidera per noi.
Riponendo fiducia nella persona giusta, non dovremmo più sentirci soli nell’affrontare i momenti difficili. 
Potrebbe esserci chiesto di andare avanti, comunque. Potrebbe venirci chiesto anche in modo duro, perentorio, senza però che venga meno il rispetto della nostra dignità. 
Crescere vuol dire anche fidarci delle regole che ci vengono date. Avere troppa libertà di scelta può lasciarci smarriti; «fai come ti pare» potrebbe significare «non voglio così tanto il tuo bene, da prendermi la responsabilità di dirti cosa è meglio, in questo momento, per te».




Il mio saluto ai ragazzi del Liceo

Vi offro, come mia abitudine alla fine di ogni anno scolastico, un frase che vuole essere una raccomandazione, ma anche un augurio per i vostri giorni di spensieratezza estiva.

  Progetto creato con PosterMyWall 

Vi lascio anche queste frasi: 

Ci vorrebbe più rispetto
Ci vorrebbe più attenzione
Se si parla della vita 
Se parliamo di persone 
Siamo il silenzio che resta dopo le parole 
Siamo la voce che può arrivare dove vuole 
Siamo il confine della nostra libertà 
Siamo noi l’umanità 
Siamo il diritto di cambiare tutto e di ricominciare. 
Ricominciare. 

E anche se a volte vi sembra che la vita vi deluda, sappiate che potete essere capaci di sopportare il peso del coraggio.
Ma questo richiede che non pensiate in maniera disattenta.
PS: come vedete, la prof sempre quello ha in testa 🤣.

Quattro ragazzi e i pc per la Dad

Jacopo Rangone, studente diciottenne in un college dello Hertfordshire, insieme a tre coetanei, tutti milanesi come lui, è il fondatore del progetto PC4U.tech, che ha l’obiettivo di raccogliere, in caso ricondizionare, e ridistribuire gratuitamente i dispositivi usati (ma funzionanti) a quegli alunni di Milano e dell’hinterland che non ne dispongono. 
Il progetto è costituito da un sito Internet, attivo dalla fine di giugno, dove chiunque può donare o richiedere un computer usato semplicemente cliccando sulla casella corrispondente: ‘dona’ oppure ‘richiedi’. A quel punto, registrata l’ordinazione, il computer viene sanificato, impacchettato e consegnato a casa, senza spese aggiuntive. 
 «L’idea di quello che poi è diventato PC4U.tech è nata un giorno, durante i mesi di lockdown, dopo aver ascoltato il racconto di mia sorella a proposito della sua classe: molti suoi compagni di terza media, infatti, non avendo un pc o un tablet in famiglia, spesso non riuscivano a seguire le lezioni; alcuni usavano il telefonino per entrare, ma sappiamo tutti che non sono gli strumenti adatti per il remote learning. A quel punto ho avuto l’idea del sito web di facile fruizione, due bottoni e stop, e ho subito coinvolto tre amici: Matteo Mainetti, Emanuele Sacco e Pietro Cappellini. Poiché Matteo, mio amico d’infanzia, era l’unico tra noi ad avere una moto, il suo compito sarebbe stato quello di fattorino; Emanuele, appassionato di start up, avrebbe dovuto sviluppare la piattaforma mentre Pietro si sarebbe occupato della grafica web». 
Dal principio i quattro ragazzi volevano fare solo una decina di donazioni, ma grazie anche a qualche servizio giornalistico, le cose sono poi andate diversamente. «Ne abbiamo raccolte talmente tante che ci siamo trovati a dover cambiare la struttura del progetto e la logistica. Ci siamo trovati a dover soddisfare qualcosa come 300 richieste e 180 donazioni da parte di privati e di aziende: per questo abbiamo chiesto l’aiuto della cooperativa For-Te e del suo ottimo servizio di delivery svolto da persone con disabilità cognitiva », spiega Jacopo. «Anche per gli interventi di riparazione e inizializzazione dei dispositivi ci affianchiamo adesso ad una associazione no profit, Informatici Senza Frontiere, che condividono con noi la battaglia contro il digital divide».
Dalla fine dello scorso novembre i quattro ragazzi hanno fatto pure partire una campagna di crowdfunding, ora terminata, che ha raccolto oltre 18 mila euro: una cifra che consentirà di coprire le spese per le prossime 300 richieste (per il ricondizionamento, per l’acquisto di licenze di Windows 10 quando non sono incorporate nel pc, per il packaging e per la gestione amministrativa del progetto). Di recente il Parlamento europeo si è focalizzato sulla questione dell’accesso a Internet quale nuovo diritto umano e lo stesso governo italiano ha messo a disposizione pc e tablets in comodato d’uso agli studenti bisognosi: tuttavia sono ancora tante le famiglie, anche nell’agiata Milano e nel suo hinterland, che non possiedono un dispositivo per la scuola digitale dei figli. «Ma è il Paese intero ad averne bisogno e ce ne siamo accorti dalle richieste che abbiamo ricevuto – conclude Jacopo Rangone –. Il dispositivo dato in comodato d’uso non risolve il problema poiché una volta terminata la didattica a distanza deve essere restituito. Al momento siamo concentrati su Milano ma non escludiamo di estendere il progetto in altre città».
Tratto da Monica Zornetta, Il progetto di quattro studenti per regalare i pc per la Dad, in Avvenire del 7 gennaio 2020  






Carlo Acutis

Domenica prossima, ad Assisi, verrà beatificato Carlo Acutis. Chi era? 
Nato nel 1991, è morto nel 2006 per una leucemia fulminante. Devoto in particolare alla Madonna, aveva creato vari siti web e una mostra sui miracoli eucaristici.
Ve lo presento attraverso le parole della mamma, Antonia Salzano. 
“Quando il 23 gennaio si eseguì la ricognizione canonica sulle spoglie mortali del giovanissimo servo di Dio, la sua salma fu trovata intatta. «Io stavo lì, mio marito non volle vedere. Era ancora il nostro ragazzone, alto 1,82, solo la pelle un po’ più scura, con tutti i suoi capelli neri e ricci. E lo stesso peso, quello che si era predetto da solo». 
«Pochi giorni dopo il funerale, all’alba fui svegliata da una voce: “Testamento”. Frugai in camera sua, pensavo di trovarvi uno scritto. Nulla. Accesi il pc, lo strumento che preferiva. Sul desktop c’era un filmato brevissimo che si era girato da solo ad Assisi tre mesi prima: “Quando peserò 70 chili, sono destinato a morire”. E guardava spensierato il cielo». Entrò in coma alle 14 dell’11 ottobre 2006, con il sorriso sulle labbra. Credevamo che si fosse addormentato. Alle 17 fu dichiarata la morte cerebrale, la mattina del 12 quella legale. Avremmo voluto donare i suoi organi, ma non fu possibile, ci dissero che erano compromessi dalla malattia. Un bel paradosso, perché il cuore, perfetto, ora sarà esposto in un ostensorio nella basilica papale di San Francesco ad Assisi». 
In che modo Carlo scoprì la fede? 
«Non certo per merito di noi genitori, lo scriva pure. In vita mia ero stata in chiesa solo tre volte: prima comunione, cresima, matrimonio. E quando conobbi il mio futuro marito, mentre studiava economia politica a Ginevra, non è che la domenica andasse a messa». 
«Un ruolo lo ebbe Beata, la bambinaia polacca, devota a papa Wojtyla. Ma c’era in lui una predisposizione naturale al sacro. A 3 anni e mezzo mi chiedeva di entrare nelle chiese per salutare Gesù. Nei parchi di Milano raccoglieva fiori da portare alla Madonna. Volle accostarsi all’eucaristia a 7 anni, anziché a 10». «Lo lasciammo libero. Ci pareva una cosa bella, perciò chiedemmo una deroga. Per me fu una “Dio-incidenza”. 
Carlo mi salvò. Ero un’analfabeta della fede. Mi riavvicinai grazie a padre Ilio Carrai, il padre Pio di Bologna, altrimenti mi sarei sentita screditata nella mia autorità genitoriale. È un percorso che dura tuttora. Spero almeno di finire in purgatorio». 
Carlo fu precoce in tutto. Era un mostro di bravura. A 6 anni già padroneggiava il computer, girava per casa con il camice bianco e il badge “Scienziato informatico”. A 9 scriveva programmi elettronici grazie ai testi acquistati nella libreria del Politecnico». 

«I promotori della causa di beatificazione hanno analizzato in profondità la memoria del suo computer con le tecniche dell’indagine forense, senza riscontrare la minima traccia di attività sconvenienti. Sognava di adoperare il pc e il web per diffondere il Vangelo. Papa Francesco nella “Christus vivit” cita Carlo come esempio per i giovani. “Sapeva molto bene”, spiega, “che questi meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati”, ma lui ha saputo uscirne “per comunicare valori e bellezza”. 
Il suo sguardo spaziava ben oltre Internet». «Fino alle mense dei poveri, quelle delle suore di Madre Teresa di Calcutta a Baggio e dei cappuccini in viale Piave, dove prestava servizio come volontario. La sera partiva da casa con recipienti pieni di cibo e bevande calde. Li portava ai clochard sotto l’Arco della Pace, per i quali con i risparmi delle sue mance comprava anche i sacchi a pelo. Lo accompagnava il nostro cameriere Rajesh Mohur, un bramino della casta sacerdotale indù, che si convertì al cattolicesimo vedendo come Carlo aiutava i diseredati».
Avrebbe mai detto che un giorno sarebbe salito all’onore degli altari? 
«Ero certa che fosse santo già in vita. Fece guarire una signora da un tumore, supplicando la Madonna di Pompei.Quello che lo farà proclamare beato accadde in Brasile nel settimo anniversario della morte, il 12 ottobre 2013, a Campo Grande. Matheus, 6 anni, era nato con il pancreas biforcuto e non riusciva a digerire alimenti solidi. Padre Marcelo Tenório invitò i parrocchiani a una novena e appoggiò un pezzo di una maglia di Carlo sul piccolo paziente, che l’indomani cominciò a mangiare. La Tac dimostrò che il suo pancreas era divenuto identico a quello degli individui sani, senza che i chirurghi lo avessero operato. Una guarigione istantanea, completa, duratura e inspiegabile alla luce delle attuali conoscenze mediche». 
Tratto da https://notizieh24.eu/antonia-salzano-il-miracolo-di-carlo-acutis-mio-figlio-morto-15enne-di-leucemia-un-santo-per-il-web/
Vi lascio anche un video con le sue immagini.
 

Agli alunni: auguri per il nuovo anno

Lo so. Sono provocatoria, perché le parole che seguiranno (che non sono le mie, ma di Enrico Galiano, un prof) non possono lasciare indifferenti.
Anzi, un moto di stizza o di disappunto potrebbe venirvi su spontaneo. Se avrete però la forza e il coraggio di leggere con attenzione questi auguri particolari, troverete che sono gli auguri più sinceri che potevate ricevere, rispetto alle tante “furbate” che vi vengono augurate.

Cari ragazzi, vi auguro che il 2020 sia difficile.
Sì, avete letto bene.
Non vi auguro di stare sempre bene, di essere sempre sereni, di vivere in totale tranquillità.
Alla vostra età, a sedici, diciassette anni, vivere sempre in tranquillità spesso vuol dire solo una cosa: non vivere. Al massimo, sopravvivere.
Per cui vi auguro tempeste, non sole battente.
Vi auguro vento contrario, non discese.
Vi auguro di andare a sbattere contro muri duri come non ne avete visti mai.
Vi auguro di beccarvi sul cammino ostacoli più alti di voi.
Vi auguro nemici, di quelli tosti, di quelli che non vanno al tappeto mai, perché solo con nemici così si impara a stare in piedi.
Vi auguro problemi da risolvere, notti da svegli, braccia a pezzi, sudore e lacrime.
Vi auguro di avere paura, anche. Perché non si dice spesso, in giro, ma la paura può essere buona. La paura può salvarti le chiappe: e di sicuro ti tiene vivo. Occhi aperti, cuore in ascolto.
Vi auguro di sentirvi piccoli in mezzo al mondo, perché solo così si desidera di diventar grandi.
Vi auguro sogni così giganteschi e irraggiungibili da far ridere tutti.
Vi auguro critiche da ogni parte, pioggia battente, fango sotto le scarpe. E lotta, tanta lotta. Battaglie quotidiane. Ferite da toccare fra vent’anni per dirsi “Incredibile, ce l’ho fatta!”.
Perché c’è solo un modo, uno solo, per diventare grandi, ma grandi davvero: avere qualcosa contro cui lottare. E, soprattutto, aver un motivo per cui farlo.


Khalif che voleva andare in Europa per studiare e lavorare

«Vado in Europa». Con questa pazzia nel cuore Khalif si è messo a camminare, da solo. Passo dopo passo, lasciandosi alle spalle madre e padre, facendosi inghiottire dal deserto, senza paura, senza voltarsi indietro. Ci vuole coraggio, per noi adulti occidentali che senza navigatore ci sentiamo sperduti anche nel mezzo di una metropoli affollata, ma il viaggio di Khalif, cittadino del Mali, iniziava un anno fa quando di anni ne aveva otto.
«Vado in Europa perché voglio studiare e lavorare», ha detto a se stesso prima che agli altri, ma cos’era questa Europa nemmeno lo sapeva. Come un Eldorado o l’America dei nostri nonni, l’Europa di Khalif doveva essere la fine di ogni tribolazione, il luogo in cui si mangia tutti i giorni, la gente non si uccide per strada, i piccoli vanno a scuola e non a fare il soldato, se stai male ti curano. «Studiare e lavorare». È questa la benzina che lo ha fatto marciare per un anno, tra gli stenti, il lavoro forzato per pagarsi il viaggio, le botte, i ricatti, la prigione. Gli ultimi mesi li ha passati in Libia, l’inferno sulla terra, finché una notte ha avuto il suo angolino su un gommone e ha affrontato il mare nero…
A salvarlo è stata la ‘Mare Jonio’, ormai nota come ‘la nave dei bambini’, tanti ne portava a bordo. «Quando sarò in Europa potrò mandare soldi ai miei genitori », ha spiegato sei giorni fa al giornalista di Avvenire, Nello Scavo, a bordo della Mare Jonio, prima di essere sbarcato dai soccorritori della Guardia Costiera sulla spiaggia di Lampedusa.
Hai qualcuno ad aspettarti in Italia o in altri Paesi? « Non ho nessuno. Farò tutto da solo». Che paura può fare un continente intero, pur sconosciuto e poco accogliente, quando a nove anni si è già traversato il Sahara e si ha vinto la sfida con il mare?


Adattato da Avvenire del 4 settembre 2019 

Khalif è originario del Mali. I capelli corti e una maglietta troppo grande per farlo sembrare davvero grande.
A chi lo ha intervistato non voleva raccontare quello che ha dovuto affrontare: gli insulti degli aguzzini libici; i capricci sporchi dei guardiani della prigione; i piedi che ti fanno male per quante volte ti hanno picchiato perché ti mettessi in riga e chiedessi altri soldi.

Voleva che si sapesse il perché del suo viaggio: «Vado in Europa perché voglio studiare e lavorare»