Rimanere umili 😉

Qualche giorno fa si parlava a scuola proprio di questo: l’umiltà di chi è consapevole dei propri limiti e di chi cerca sempre di migliorarsi. Se ne parlava rispetto alla scuola, che dovrebbe essere bella proprio per questo: mi dà modo di conoscere nuove cose, di sperimentarmi nel confronto con gli altri e con i miei punti di forza e di debolezza. 
Leggendo il mio solito quotidiano (Avvenire del 26/10/2023) mi imbatto in un articolo di MARCO VOLERI, che vi riporto, perché aggiunge altro a quanto ci siamo detti. So di non sapere e per questo resto disponibile ad aggiungere ulteriori tasselli al mio bagaglio culturale e umano.

Ammiro molto l’incoscienza di chi crede di sapere tutto o quasi. 
Avete presente il classico tipo col sorriso smagliante e la verità nel taschino della giacca blu? Quando mi trovo davanti a personaggi che credono di sapere tutto, e di saperne più di te, mi chiedo sempre: “ma questo ci è o ci fa?”. 
Scomodiamo Socrate e il suo famoso detto «so di non sapere», a lui attribuito attraverso Platone. Il filosofo racconta che la vera saggezza inizia con la consapevolezza della propria ignoranza. L’ignoranza qui non è da considerarsi come mancanza di conoscenza ma come il riconoscimento sincero delle nostre limitazioni nell’acquisizione di conoscenza assoluta. È il riconoscimento che il sapere umano è limitato, sempre in evoluzione, e che non possiamo mai pretendere di avere tutte le risposte. 
Questa presa di coscienza può essere vista come umiltà intellettuale, virtù che ci spinge a porci domande, a cercare, a esplorare le diverse prospettive. 
Credo però che il «so di non sapere» sia anche una chiamata all’empatia e alla comprensione. 
Quando riconosciamo la nostra ignoranza diventiamo più aperti alla possibilità di metterci nei panni degli altri. Socrate credeva che solo attraverso il dialogo e l’ascolto attento fosse possibile sperare di comprendere gli altri e noi stessi. 
Questo atto di mettersi nei panni degli altri non è solo un mezzo per apprendere dalle esperienze altrui ma anche per sviluppare una maggiore comprensione e compassione. Non so voi, ma per me il desiderio di conoscenza, che scaturisce dalla consapevolezza della mia ignoranza, è un motore pieno di cavalli per l’anima. 
Sto studiando un’opera che credevo di conoscere già bene: quante cose non avevo notato prima, nonostante avessi approfondito la partitura in tante occasioni. 
In un mondo spesso dominato da certezze inflessibili, «so di non sapere» ci invita a essere modesti nella nostra ricerca di conoscenza e ad abbracciare l’incertezza come una parte essenziale della vita.

La ragazza sempre in ritardo e la sua battaglia domestica

Una storia di scuola su cui riflettere. 

Carolina arriva in ritardo a scuola. La rimprovero: «Sei al liceo, è ora di diventare responsabile!». Niente, il giorno dopo è lo stesso: la campanella suona alle 8:00, ma lei entra in classe alle 8:09, giusto qualche istante prima che l’ingresso della scuola venga chiuso. Io, da prof inflessibile, guardiano delle regole, parto in quarta con un’altra filippica: « Essere puntuali significa rispettare tutti, in primis te stessa. Le regole sono importanti, non sono vuote imposizioni. Servono a una positiva convivenza civile, al benessere di tutti, all’efficace organizzazione del nostro lavoro ». E via così: una lezione di educazione civica in miniatura. Una lezione evidentemente inutile, visto che la mattina dopo Carolina è di nuovo in ritardo. O meglio, è puntualissima nel suo ritardo, come un orologio svizzero: continua a entrare a scuola alle 8:09 per giorni, per settimane. Carolina frequenta la seconda superiore. Ha lo sguardo duro, carico di sfida, messo in rilievo dal trucco marcato. Carolina è impermeabile: tutto le scivola addosso. Carolina sta in classe comunicandoti in qualunque forma non verbale che quello che tu, prof, stai proponendo, a lei non importa per nulla. Carolina, al cambio d’ora, parla solo di ubriacature, di pomeriggi al parco a spaccarsi e a spaccare, di fumo, di trasgressione così costante da diventare noiosa. Con Carolina non riesci a dialogare: se ci provi lei tace, ma non abbassa mai lo sguardo. Eppure Carolina è geniale: assorbe tutto, ha un’intelligenza vivacissima, un senso critico di raro acume. È una di quelle che quando discuti di un argomento ne coglie immediatamente il cuore e, le poche volte che ne ha voglia, ne parla in modo impeccabile. Ma Carolina gioca sempre al minimo. Anche quando prende un bel voto ti guarda dall’alto in basso, come se ti dicesse: « Hai visto? Sei contento adesso?» Come se si degnasse di farti un favore, così non le rompi più le scatole. Mi fa rabbia, Carolina.
Perché spreca così le sue doti? Da dove viene tutta quella voglia di provocare chiunque? Me lo chiedo per mesi senza trovare risposta. Poi arriva il momento dell’Eneide. A mo il capolavoro di Virgilio: in classe gli dedico diverse ore, leggendo molti brani insieme agli studenti. L’Eneide è sempre un’avventura, un grande viaggio. Ma quando il viaggio inizia, fin dal proemio con l’ira di Giunone, Carolina scivola sul banco, chiude gli occhi e si addormenta. Le pagine del libro, con i loro versi immortali, diventano un improvvisato cuscino. I brani successivi non hanno risultati migliori. I Greci hanno distrutto Troia, l’hanno saccheggiata e le hanno dato fuoco. Il troiano Enea fugge con suo padre in spalla e suo figlio per mano, salpa con un gruppo di suoi concittadini superstiti. Enea riesce a superare molte prove, ma non l’indifferenza di Carolina, che continua a sonnecchiare con rare accezioni.
Una volta, ad esempio, Carolina è stranamente seduta composta, apparentemente attenta, ma intanto mangia popcorn. Le faccio notare che l’Eneide sarà anche bella come un film, ma non siamo al cinema. Mi fissa flemmatica: mette il pacchetto aperto sotto il banco e continua a mangiare di nascosto un paio di popcorn alla volta, appena distolgo lo sguardo. Quando finisco di leggere l’Eneide, racconto cosa accadrà dopo: i discendenti di Enea fonderanno Roma; dalla distruzione nascerà nuova vita, una storia inattesa. Ma Carolina intanto è già tornata a dormire. Qualche giorno dopo assegno un tema alla classe. Provo a uscire un po’ dagli schemi, tento di provocare gli studenti. Chiedo loro di scrivere un elaborato con questo titolo: «Come l’Eneide ha parlato alla tua vita?».
Vedo alcune facce perplesse, provo a spiegarmi meglio: «La letteratura è sempre uno specchio. I classici sono immortali perché in essi possiamo trovare almeno un frammento della nostra vita. In quale frammento dell’Eneide vi siete rivisti?». I ragazzi cominciano a scrivere. 
Carolina parte a razzo, è la prima consegnare. In un’ora buca mi metto in un angolo del grande tavolo della sala prof e comincio a correggere. Cerco apposta il tema di Carolina: sono curioso di leggere ciò che ha scritto, dopo aver dormito per tutta la lettura. 
Il testo inizia così: «L’Eneide è il libro più bello che abbia mai letto». Sospiro: mi sta provocando una volta di più. Vado avanti: «Io Enea lo conosco di persona. Lo vedo tutti i giorni». «Ecco », penso tra me e me, «vedi l’effetto del consumo di cannabis di prima mattina? Entri a scuola sempre in ritardo e, al posto di vedere i compagni e i prof, ti sembra di vedere Enea». 
Preparo la penna rossa per scriverle una nota sotto il tema: basta prese in giro! 
Proseguo la lettura: «Lo conosco bene Enea, perché Enea è mia mamma». Mi viene quasi da ridere, non fosse per il fastidio. Poi leggo la frase dopo. E quella dopo ancora. Finisco il tema di Carolina senza fiato. Mi ritrovo a piangere come una fontana. Una collega mi affianca, mi chiede se va tutto bene. Le indico il tema. Lo legge, piange anche lei. 
Questo è il tema di Carolina:
«L’Eneide è il libro più bello che abbia mai letto. Io Enea lo conosco di persona. Lo vedo tutti i giorni.

Lo conosco bene Enea, perché Enea è mia mamma. Mio padre è alcolista. Con il suo vizio, ha distrutto la mia famiglia, la mia spensieratezza, la mia infanzia e quella di mio fratello, proprio come i Greci hanno distrutto Troia. Ma, come Enea ha preso per mano suo figlio e l’ha portato verso un futuro diverso, lasciandosi alle spalle le macerie della sua città, così mia mamma ha preso per mano me e mio fratello, ci ha portati via dalle macerie di quella casa, ci ha regalato un futuro di nuovo possibile. Per questo mia mamma è il mio Enea. Il mio eroe. E, se un giorno diventerò madre, spero di essere una madre come lei ». 
In un istante, la trasgressiva Carolina è diventata una maestra di vita. Mi ha ricordato che abbiamo tutti città distrutte alle spalle e futuri possibili davanti. Abbiamo tutti viaggi che ci aspettano, ripartenze necessarie. Mi sono chiesto, con dolore e con stupore, quante provocazioni degli adolescenti, che noi adulti vorremmo stroncare in nome della nostra presunta autorità, sono in realtà urla di dolore per ferite che non trovano voce. Quante volte tutti noi, adulti e ragazzi, ci barrichiamo dietro una finta durezza perché abbiamo paura di essere colpiti, di stare male? Quante volte chiudiamo le braccia per paura di essere pugnalati e perdiamo l’occasione di essere abbracciati? 
Carolina è una persona meravigliosa, sensibile, empatica: adesso lo so, grazie a un tema. 
Ripenso e auguro a me stesso e a tutti gli insegnanti, all’inizio di questo anno scolastico, di saper regalare ciò che ci appassiona a chi sta tra quei banchi; regalarlo, gratis, senza aspettarci niente, ma sempre col coraggio e con la speranza che spinge a guardare oltre, a quella città possibile da fondare oltre il mare. 

Marco Erba, in Avvenire del 12/09/2023

Il sorriso di Dio

Confesso che arrivata alla mia età sento il bisogno di mettere i remi in barca (o le scarpette al chiodo 😁). 
Non che non ami questo lavoro, ma è come se avessi la sensazione di aver dato tutto quel che potevo. 
Il brano che riporto (di G. Paolucci, tratto da Avvenire del 30 agosto) mi ricorda che c’è ancora tanto da ricevere dai ragazzi. 
Uno stimolo a continuare a fare del mio meglio (attendendo con santa pazienza la pensione 😉).

Debora ha sempre amato insegnare, per realizzare un sogno che coltivava fin da bambina. Poi un mostro chiamato anoressia l’aveva trascinata sull’orlo del baratro, privandola del sorriso che sempre l’accompagnava. E una notte infelice le aveva rubato un pezzo della vista, fino a una diagnosi che suonava come una condanna: ictus. «Se mi succede qualcosa, raccogliete le mie poesie», aveva detto agli amici: è lì che aveva fissato le gioie e i dolori di un’esistenza sempre tesa a cercare l’ebbrezza della felicità e a comunicarla ai giovani. In pochi mesi con l’aiuto dei medici era riuscita a risalire la china, fino al ritorno a scuola, all’istituto Gadda di Fornovo (Parma), dove ha deciso di rimettersi in gioco. Sarebbe stata capace di farlo?, si chiedeva con tremore quando in dicembre era entrata in una classe sconosciuta. Sono stati loro, gli studenti, la migliore medicina per guarire, hanno acceso nuovamente la passione di insegnare che nessun dolore aveva potuto cancellare. È stando in mezzo a loro che ha ritrovato il gusto per un mestiere bello e complicato, diventato per lei una ragione di vita. Ora non vede l’ora di ricominciare la scuola. «I ragazzi insegnano a me ogni giorno più di quanto io potrò mai insegnare loro. È nei loro sorrisi che l’ho ritrovato, il sorriso di Dio».

Il mio saluto ai ragazzi delle medie

Rivolgo il mio pensiero ai ragazzi con i quali ci stiamo per salutare, con la speranza di poterci rivedere a settembre tutti più riposati e fiduciosi per il futuro. Ho scelto alcune frasi di papa Francesco che saranno consegnate in modo casuale (ma al caso io non credo più di tanto) ad ognuno di loro. Ogni ragazzo farà girare la ruota e il numero che uscirà corrisponderà alla “sua” frase.
Volete provare anche voi? Girate la ruota e cercate la vostra frase.


e trovate la frase che corrisponde al numero uscito

 

La montagna fa scuola

Poiché sono sempre più convinta che dobbiamo educarci al bello e alla verità di ciò che siamo, vi riporto alcuni passi dell’articolo di PAOLO FERRARIO che ho letto su Avvenire del 17 febbraio e che racconta di una bella iniziativa attivata da una scuola.

La prima volta si sono persi nel bosco, tornando a casa, a sera inoltrata, stanchi, fradici e infangati, ma «felici come non li avevamo mai visti al rientro da scuola», hanno raccontato i genitori. Dai quali si aspettava magari un rimbrotto e non certo complimenti e, men che meno questa richiesta: «Lo farete ancora, vero? ». Quella prima volta, sul finire dell’autunno del 2007, rimarrà una pietra angolare del progetto “Le classi delle montagne”, promosso dal professor Stefano Piana: «Dovevamo imparare a orientarci nel bosco e abbiamo clamorosamente fallito. Ma abbiamo raggiunto un altro obiettivo, ancora più bello perché inaspettato: quel giorno abbiamo fatto nascere il gruppo classe».
A più di dieci anni di distanza, quando lo racconta si commuove ancora un poco, questo insegnante di Lettere della scuola media “Alice Noli” di Campomorone, alle porte di Genova, che è riuscito a tenere insieme le sue due grandi passioni, la montagna e la scuola, portando i suoi studenti a far lezione per vette e sentieri.
Avviato un po’ sottotraccia, il piano è diventato strutturale nell’anno scolastico 2013-2014, con tanto di Progetto educativo- didattico e la firma di un protocollo con il Club alpino italiano e il patrocinio della Regione Liguria e dei Comuni di Genova e territori limitrofi. Nei primi quattro anni, ha coinvolto quattro classi (prima, seconda e terza media) per un totale di 94 alunni, più altri 72 l’anno scorso. Quest’anno un ulteriore salto di qualità, con la firma di un protocollo d’intesa con la Croce Rossa e il Soccorso alpino, per favorire la partecipazione alle escursioni anche a cinque alunni disabili, facendo delle “Classi delle montagne” un potente fattore di integrazione e inclusione.
[…] Un lavoro, quello di comprendere, farsi prossimo e compagno di strada, di sostenersi l’un l’altro lungo il cammino, che la montagna, per certi versi facilita, ed è anche per questo che il professor Piana l’ha eletta a “classe”, senza pareti, né banchi o lavagna, ma non per questo meno adatta a formare la personalità degli adolescenti che gli sono affidati.
Così sono nate le escursioni delle “Classi delle montagne”, che dopo aver salito le cime sopra Genova, hanno visitato il Gran Paradiso e l’Adamello, il Renon e il Parco dello Stelvio […].

«Per i ragazzi la montagna è davvero maestra di vita, perché mette ciascuno e il gruppo di fronte a ciò che vuole diventare », sottolinea il professor Piana. Che, proprio perché queste escursioni non sono “gite” ma «scuola a tutti gli effetti», quando il sentiero spiana e il respiro si fa meno affannato, si affianca a qualche ragazzo e comincia anche a interrogare.
Al termine di ogni uscita, ciascuno compila il “Quaderno delle escursioni”, che gli studenti di terza porteranno anche all’esame. Su quello di Elisa, per esempio, si legge che in montagna si «impara a rispettare la natura e a sopportare la fatica di scalare una cima, crescendo insieme», mentre Tabitha annota entusiasta: «Mi piace camminare e mi piace ancora di più farlo insieme ai miei amici ». «La scuola si può farla anche fuori dalla scuola », aggiunge, quasi incredulo, Mirko e Marta conferma: «La montagna forma la classe e l’amicizia tra i compagni, migliora le relazioni con i professori».
E così anche la fatica dell’ascesa, che non è risparmiata ai ragazzi, si sopporta meglio, come osserva Marta: «Il percorso è ancora lungo, nuove avventure e nuove fatiche ci aspettano, ma non vediamo l’ora di camminare ancora insieme».

Il decalogo alla rovescia per fallire in questo anno scolastico

Un preside alcuni anni fa indirizzò questi consigli ai suoi studenti:

1 Considerate sempre i docenti vostri nemici
2 Durante le noiose ore di lezione, usate il vostro smartphone
3 Siccome la scuola è lunga, prendetevela con comodo, prendetevi pure qualche minuto in più al mattino, qualche minuto in più all’intervallo
4 Studiate solo il giorno prima delle verifiche, due se volete esagerare, e se poi non siete pronti, state a casa
5 Evitate di fare i compiti a casa, fior di pedagogisti vi dicono che sono inutili, tutt’al più copiateli la mattina stessa
6 Durante le verifiche copiate le risposte: è più semplice che rimettersi a studiare da capo tutte le volte
7 Non accettate voti e consegne, trattate fino allo sfinimento o vostro o dei prof
8 Cercate di evitare il più possibile i colloqui dei vostri genitori con i prof: tanto, si sa, non si capiscono
9 Fin da subito togliete valore al registro elettronico (non è aggiornato, non funziona, i prof non lo sanno usare…)
10 …e soprattutto, quando non sapete più cosa dire, urlate: “Adesso vado dal preside”

Bello, direte voi. Finalmente uno che ci capisce….
Però, ATTENZIONE! Ho dimenticato di dirvi che questo decalogo “alla rovescia” era accompagnato dalla seguente avvertenza:

«Se lo seguirete non farete fallire la scuola. Fallirete voi».

PS: il preside in questione si chiamava Maurizio Lazzarini (è morto alla fine di questo agosto).
Io spero che la sua provocazione possa pungolarvi e farvi riflettere su ciò che  vale la pena fare per riuscire a scuola e nella vita.
Meditate gente, meditate!

Anime viaggianti

Eccoci. Inizia un nuovo anno scolastico.
Come ogni settembre, da trenta anni a questa parte, incontrerò classi nuove e rivedrò “vecchi” alunni. Come ad inizio di ogni anno, mi troverò a ricordare agli studenti il perché staremo insieme e cercherò di far percepire quanto ognuno di loro sia importante, perché questo nostro incontrarci non è a caso e dovrebbe diventare occasione di crescita umana per tutti noi.
Crescere umanamente: questo è il compito che abbiamo, ed il mondo oggi come ieri ha bisogno di uomini e donne che siano espressione di un’umanità bella e vera.
Siamo, come dice una canzone, anime viaggianti in cerca di ideali, perché, come scriveva Dante, siamo nati per la virtù e la conoscenza.
Certamente questo viaggio verso la riuscita umana è faticoso perché (ricordo ancora i versi di questa canzone) i nostri cuori non sono pienamente liberi, ma prigionieri. Di che? Qui la canzone rimane sul vago, ma posso immaginare, come lo immaginate senz’altro anche voi, quali siano le catene che ci imprigionano, che ci portano a non essere liberi veramente ma ad assumere comportamenti spesso ridicoli e disarmanti.
Un altro mondo è possibile, sentiamo dire in questa misteriosa canzone. E di questo mondo “altro” noi tutti sentiamo il desiderio. Pensate: niente più guerre, odio, povertà.
Siamo anime viaggianti perché sentiamo che la vita è un cammino verso una pienezza che ancora non ci appartiene ma che può diventare nostra. Per questo dobbiamo interrogarci ed evitare di incamminarci in avventure che non portano da nessuna parte.
Questo viaggio alla ricerca di noi stessi e del senso da dare alla vita lo faremo anche attraverso tante testimonianze di coloro che, prendendo spunto da un libro che ho letto questa estate, definirei “avventurieri dell’eterno”.
Un altro mondo possibile c’è e lo sto cercando insieme a te, anzi insieme a voi.
Buon principio a tutti noi.
 Ah, dimenticavo. Se volete ascoltare la canzone a cui ho fatto riferimento, cliccate sull’immagine.