La disponibilità affettiva è più vitale del cibo

«La psicanalisi ha scoperto che la dispo­nibilità affettiva è più vitale del cibo: ap­pena nato, il neonato si arrampica verso il seno e la madre lo accoglie, se lo la­sciasse cadere sarebbe preda degli ani­mali. Significa che prima scatta l’attac­camento, poi c’è il cibo. Portato ai giorni nostri, dagli atteggiamenti affettivi di­pende la sopravvivenza della specie. Da qui l’importanza della famiglia. 

La famiglia è un’entità naturale i cui co­dici affettivi materno e paterno sono pre­disposti biologicamente proprio per la sopravvivenza della specie. Rispetto le coppie omosessuali, ma non sono cop­pie fertili e questo qualcosa vuol dire. Il mio no è assoluto a tutto ciò che violen­ta la natura, in primo luogo l’utero in af­fitto, un business inaccettabile che cal­pesta la donna e il nascituro.
(…) è provato scientifica­mente che nell’utero il bimbo conosce il benessere assoluto, una felicità suprema dal concepimento alla nascita. Perché la natura gli ha dato questa felicità pre-vi­ta? Perché entrando nella vita la ricerchi, avendola conosciuta, e la funzione geni­toriale non è dirgli “è finita” ma “ti inse­gno come ritrovarla”. Migliorare la storia dell’uomo è il primo ruolo di ogni geni­tore e poi lo sarà di quel figlio, che incu­bato nell’amore restituirà la cura».

 Giuliana Mieli, psicoterapeuta, intervistata da Lucia Bellaspiga, in Avvenire del 4 febbraio 2014 

I bambini e il gioco. E’ meglio fuori casa

Dall’articolo “Dove giocano i bambini? Meglio se è fuori casa” di Umberto Folena.

Giocate, bambini, giocate. Con i vostri amici, inventandovi gio­chi sempre diversi. Lontano da­gli sguardi apprensivi degli adulti. Gio­cate all’aperto, perché soltanto quello là fuori è vero gioco. Parola di France­sco Tonucci, responsabile del progetto internazionale ‘La città dei bambini’ del Cnr. Da anni lui e l’Azione cattolica ragazzi (Acr) s’incontrano e collabora­no. Viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda. E così è nato il progetto ‘Dove andiamo a giocare?’, una grande inda­gine sul territorio per scoprire dove e come giocano bambini e ragazzi italia­ni. L’Acr distribuirà capillarmente un questionario, che comincia con questa domanda cruciale: «Ti capita durante il tuo tempo libero di giocare fuori casa?». Ma avercelo il «tempo libero», quando troppi genitori sembrano presi dalla fre­nesia di riempirglielo tutto, il tempo ai loro figli. E «fuori casa», dove sono in agguato i lupi… «Sa quanti bambini ita­liani tra i 6 e gli 11 anni vanno a scuola da soli? Il 7 per cento» scuote il capo To­nucci, padre e nonno. E negli altri pae­si? «In Germania il 75, in Norvegia il 90». I genitori italiani saranno pure partico­larmente apprensivi, ma i pericoli ci so­no davvero. La loro, quindi, è appren­sione patologica o saggia prudenza? «A Pesaro – racconta Tonucci – abbiamo avviato un progetto, in dieci scuole, per incoraggiare i bambini ad andare a scuola con gli amici, senza adulti. Do­po dieci anni ho interpellato la Polizia municipale. Quanti bambini soli erano stati vittime di incidenti? Zero. E quan­ti bambini in automobile con i genito­ri? Nove. Paradossalmente, è molto più pericoloso farsi accompagnare…». Giocare è dunque importante, ma non tutti i giochi sono uguali. «Le esperien­ze dei primi giorni, mesi e anni della propria vita sono decisive – spiega To­nucci – e si fanno giocando. ‘Gioca’ la mamma quando allatta e accarezza il suo bambino; si gioca per esplorare il mondo. Tramite il gioco, l’individuo po­ne le basi del suo futuro». Ma perché è così importante giocare fuori casa, con gli amici, senza lo sguar­do assillante degli adulti? «Il verbo gio­care non può accompagnarsi con i ver­bi accompagnare, controllare e sorve­gliare; va d’accordo solo con il verbo la­sciare. Il bambino che non esce di casa non incontra bambini sconosciuti e non elabora strategie per conoscerli; né po­trà stabilire se sono buoni compagni di giochi da cercare ancora, o al contrario da evitare». Oggi i bambini italiani gio­cano a giochi organizzati dai grandi… «Hanno amici ‘coatti’, i compagni di scuola e i figli degli amici dei genitori. Tutti coetanei. Invece dovrebbero fre­quentare anche bambini più grandi, che sanno di più, dai quali apprendere. Sa che cosa le dico? Se un bambino non ha vissuto queste esperienze, farà mol­ta fatica a scegliersi il compagno o la compagna giusti per la vita». Giocare fuori, infine, per scaricare le e­nergie fisiche. Per correre, sporcarsi, li­tigare… «Davanti alla tv – scuote il capo Tonucci – è facile che si rimpinzi di por­cherie. I pediatri sono convinti che l’o­besità infantile procuri danni peggiori perfino del fumo. E le cause sono due, scarso movimento e cibo cattivo». Il bambino a cui è impedito di ritagliar­si spazi di autonomia, fuori casa, rischia di maturare un forte bisogno di tra­sgressione che esploderà appena si ve­rificheranno le condizioni minime, da adolescente. «Bullismo, vandalismo, in­cidenti stradali, abuso di sostanze, ses­so scriteriato… non dipendono diretta­mente dagli errori educativi dell’infan­zia, ma di sicuro vi hanno a che fare». «Troppi genitori sembrano convinti di avere di figli tonti», sorride Tonucci. In­vece si sanno arrangiare, se gliene dia­mo la possibilità. Il progetto con l’Acr procurerà materiale utile per rendere più accessibile il diritto al gioco. Quello vero, quello ‘fuori’.
(Avvenire del 18 gennaio 2014)

Sul registro elettronico

Per quanto abbia un approccio positivo nei confronti della tecnologia, faccio mie le perplessità sollevate da Roberto Carnero su Avvenire del 18 gennaio 2014:
«Nel mio liceo da settembre è diventato ob­bligatorio l’utilizzo del registro elettroni­co di classe, mentre – quanto al registro personale di ogni docente – si è lasciato a ciascuno di noi la facoltà di scegliere se u­tilizzare, anche qui, il registro digitale, op­pure se continuare a usare quello cartaceo ancora per un anno (l’ultimo, perché dal prossimo anno scolastico sarà obbligato­rio per tutti quello elettronico). Confesso di aver scelto il registro cartaceo, come hanno fatto molti altri colleghi. Non tan­to per pigrizia o per misoneismo, quanto per una pratica ragione di prudenza: con la connessione Internet che va e viene, che un giorno si blocca e l’altro pure (nella mia scuola, ma, a quanto mi dicono, nella maggior parte degli istituti statali), mi preoccupava il fatto di potermi trovare qualche mattina a non poter accedere ai dati. Man mano che le settimane sono passate, mi sono convinto di aver fatto la scelta giusta. Perché sono molte le la­mentele dei colleghi che invece hanno a­derito alla sperimentazione: lamentele che non riguardano soltanto la mera questio­ne tecnica della connessione, ma una più ampia e più seria tematica pedagogica. Poiché con il registro elettronico i genito­ri degli studenti possono accedere, trami­te password, ai dati dei loro figli (assenze, voti ecc.), cioè a un’informazione in tem­po reale della situazione scolastica, si by­passa la mediazione dello studente, an­dando a creare un rapporto diretto tra do­cente e genitori. Si tratta però di un rap­porto solo apparente: l’informazione del registro è ‘grezza’, si riferisce solo ai dati quantitativi (i voti) e non può in alcun mo­do sostituire una vera relazione scuola­famiglia, che è data soltanto dall’incontro e dal confronto diretto e personale tra in­segnanti e genitori. C’è poi un altro problema, ancora più se­rio, rappresentato dal rischio di favorire una de-responsabilizzazione degli stu­denti rispetto alla condivisione delle si­tuazioni scolastiche con la famiglia. Que­ste informazioni in tempo reale costitui­scono un pericolo per l’autonomia della crescita degli studenti, concorrendo (in­sieme con il telefonino, che qualcuno non a torto ha definito «guinzaglio virtuale») a quel «controllo elettronico» a distanza, che spesso genera nei ragazzi una certa ansia e può avere un effetto regressivo nei rap­porti con i loro genitori».
Che ne pensate?


Tutto è grazia. Ma i ragazzi, lo sanno?

Andrea Monda in  Avvenire dell’8 gennaio 2014

Mi sto rendendo conto che l’episodio della ‘salvezza/salute’ era solo la punta dell’iceberg e vado sempre più confermandomi che non sono i valori che si sono persi, come tanti dicono stracciandosi anche le vesti, ma che piuttosto sono i significati ad essersi smarriti. C’è tutto un linguaggio, squisitamente religioso, che oggi ha abbandonato il campo, non è più usato nel discorso comune, un campo che deve essere dunque bonificato. Da dove partire? Dopo ‘salvezza’ mi è venuto spontaneo passare a ‘grazia’, ma il risultato non è cambiato. Grazia sembra non essere mai stata incontrata da nessuno dei miei studenti.
Almeno il verbo ‘salvare’ i ragazzi lo conoscono, non fosse altro che quando scrivono un testo sul computer il file lo devono appunto ‘salvare’. Spesso mi sono fatto aiutare dal linguaggio dell’informatica, che è pieno di riferimenti religiosi, per cui ad esempio quando si salva un file sul programma Word il titolo viene preso dalle prime parole del testo, proprio come generalmente avviene nella Bibbia e nelle encicliche del Papa e non è un caso che quando vogliamo dare un ordine grafico compatto al testo lo ‘giustifichiamo’, un ottimo aggancio per affrontare il tema impervio della ‘giustificazione per la fede’ in Paolo e Lutero passando magari per Agostino. Ma qui ora siamo in un campo limitrofo, quello della Grazia, un campo oscuro, dove non trovo alcun appiglio, nemmeno nella neolingua di Internet. Provo con il versante dello shopping e faccio scrivere a Cecilia queste parole, a mo’ di brain storming, in maniera disordinata sulla lavagna: grazia, grazie, gratis, gratuito, gratuità, grato, gratitudine… per vedere, come cantava Jannacci, l’effetto che fa. Effetto scarso.
«Di questa costellazione di parole – chiedo – quale vi colpisce maggiormente, quale stella brilla di più?». Gratis lo capiscono tutti, non sanno che è latino questi ragazzi di liceo classico, ma è una parola che hanno trovato spesso (non troppo spesso, qualcuno si lamenta) lungo la loro strada di adolescenti: «È quando nun se paga». Un altro ricorda che ‘gratuito’ è scritto a fianco alla parola ‘ingresso’, quando nelle discoteche le ragazze non pagano, non si sa perché solo le ragazze e qui si dovrebbe da parlare di cavalleria ma sarebbe una diramazione troppo lunga, ma in fondo le lezioni sono anche il risultato delle mille diramazioni in cui ti trasporta la discussione con gli studenti. È qualcosa da fare con ordine e rigore, una lezione di religione, ma anche con l’apertura all’imprevisto, perché Montale ci ricordava che «solo un imprevisto ci può salvare» e Bernanos, citando santa Teresina, rincarava la dose con il suo «Tutto è grazia».

I "NO" che fanno male a figli e alunni

Tratto da Guamodi  Scuola

Se è vero che un bambino che cresce senza freni e senza limiti apprenderà poco o per niente comportamenti adattivi nella vita sociale e relazionale, è vero anche che determinati “no”, formulati male, con un background emotivo e situazionale inadeguato, possono ferirlo seriamente e compromettere il successivo sviluppo.
Quali sono i “No”, per così dire, sbagliati?
Li elenchiamo di seguito:

1. Il NO come rifiuto emozionale
E’ il no del genitore che ha altro per la testa, che non lascia terminare al figlio nemmeno la richiesta e subito parte l’ “Adesso no!”. Questo NO sta a significare: “Adesso non posso prendermi cura di te, non voglio ascoltarti perché ho altro a cui pensare”. L’attenzione la disponibilità all’ascolto vanno sempre garantiti. E’ necessaria in ogni momento, anche quanto non si hanno sufficienti energie.
2. Il NO sottomesso
E’ un NO attivato dalla paura del conflitto con i figli: i genitori hanno paura di contrastare i figli e di perdere autorevolezza nei loro confronti.
Essere accettati dai figli è per loro molto importante, quindi non sono disposti a rischiare con NO perentori e decisi (assertivi è il termine migliore) in grado di solcare i recinti per i loro figli. I loro NO sono “a mezza bocca”, confusi, sussurrati. Alcuni adolescenti “ribelli” non vogliono altro che mettere alla prova i loro genitori, attraverso un atteggiamento di sfida con cui cercano di capire fin dove è possibile arrivare. Il NO sottomesso, a volte, è camuffato da frasi del tipo: “E’ vero che farai contenta la tua mamma e non farai questa cosa?”. Equivale a dire: “Anche se farai questa cosa non avrò la forza di metterti un argine”
3. Il NO ritardato
E’ il NO che tarda ad arrivare, quando ad esempio il figlio chiede: “Posso andare dal mio amico”. Il genitore è titubante, tergiversa, arriva al punto di non sapere più cosa rispondere e allora pronuncia il “NO”. Che porterà il ragazzino alla disubbidienza.
4. Il NO aggressivo
Spesso i genitori hanno paura dei loro figli, anche se in fondo sanno che così non dovrebbe essere. Allora il loro NO diventa una chiara manifestazione di aggressività, perché l’aggressività è la risposta fisiologica alla paura. “Ti ho detto no e te l’ho detto già altre volte!”
E’ necessario che il genitore faccia un lavoro serio su di sé, per trasformare quel sentimento di paura in coraggio e, via via, in serenità. E’ la base da cui partire per ponderare risposte e richieste.

La domanda, a questo punto, viene spontanea: “Com’è, dunque, che si risponde?”
Il modo giusto per rispondere ad un bambino potrebbe essere il seguente: “Questa cosa non la puoi fare per questo motivo”. Quindi, oltre al NO, che impedisce al bambino una certa azione, c’è anche la spiegazione di quel rifiuto, di quel diniego. Il ragazzino avrà così motivazioni, appigli cognitivi, con cui spiegarsi la risposta del genitore.
La spiegazione, naturalmente, deve essere ragionevole. Non serve a nulla spiegare qualcosa di irragionevole o immotivato! La spiegazione, in un intervento educativo, deve essere caratterizzata da semplicità e chiarezza.
I No, dunque, dovrebbero essere pochi, motivati, solidi, sempre gli stessi, coerenti quando le situazioni si somigliano (i bambini, già molto piccoli, sono bravissimi nel fare i loro paragoni tra circostanze e situazioni simili!).

Cinque regole sull’arte di fare la cosa giusta

Ecco alcuni consigli pratici per fare la cosa giusta:

1. Non fare male a nessuno
Il danno che si può causare non è solo fisico, ma anche emotivo: è importante non fare e dire cose che possono ferire gli altri. Certo non è così semplice. A volte, si può solo limitare la sofferenza altrui. Quando si vuole, per esempio, lasciare la propria ragazza, è molto meglio dire quello che serve e basta, senza elencare nei dettagli cosa non si sopporta più.

2. Lascia il mondo un po’ meglio di come l’hai trovato
Questo vuol dire tirare fuori il meglio di se stessi. Il punto non è solo non fare male a nessuno ma vivere al pieno delle proprie potenzialità di essere umano. Aiutare una compagna nei compiti, ricordare il compleanno della mamma o del papà, per esempio, o ascoltare un amico che ha dei problemi aggiunge qualcosa alla vita degli altri e di chi lo fa.

3. Rispetta il prossimo
Un concetto quello del rispetto che l’autore semplifica affermando che “significa trattare le persone come essere desiderano essere trattate”. E non è una questione di preferenze personali perché tutti, alla fine, vogliono le stesse cose. Occorre mantenere, per esempio, la riservatezza sui fatti degli altri: se uno fa male una verifica, si aspetta che il professore non lo urli con il megafono! Con casi chiari, ispirati alla vita quotidiana dei ragazzi di questa età, l’autore spiega anche che è necessario dire sempre la verità (anche quando non è bella) e mantenere le promesse.

4 Sii giusto
“Che cosa penseresti se tu e un tuo amico aveste risposto tutti e due correttamente a un test, ma il tuo amico avesse preso 10 e tu 6?
Scommetto che diresti: ‘Ma non è giusto!’…
Trattare le persone in maniera ingiusta non è una questione di maleducazione: “non è etico”. Con questo primo esempio, l’esperto di etica invita a riflettere su come sia importante comportarsi secondo questo principio.

5. Sii amorevole
Sembra banale ma non è lo è affatto: per l’autore è il principio più difficile da applicare ogni giorno ma è anche quello che dà più soddisfazioni.
E per chiarire l’idea offre alcuni spunti ai giovani lettori, tra cui, per esempio:
Chiedi a mamma e papà se c’è qualcosa da fare, senza aspettarti niente in cambio. Quando qualcuno ti aiuta anche solo un po’, guardalo negli occhi e digli ‘grazie’
Fai amicizia con un nuovo compagno di classe
Manda una mail a qualcuno che per te è speciale, solo per dirgli che lo stai pensando.

Regole tratte da Bruce Weinstein,  “E se nessuno mi becca?”, Il Castoro

Diventare adulti, nel senso più nobile del termine, non ammette scorciatoie!!!
Meditate gente, meditate.

immagine tratta dal blog http://www.esenessunomibecca.it
che si ispira al libro di Bruce Weinstein

Sconfiggere la cultura dei capricci

«Caro professore,
lei dovrà insegnare al mio ragazzo che non tutti gli uomini sono giusti, non tutti dicono la verità; ma la prego di dirgli pure che per ogni malvagio c’è un eroe, per ogni egoista c’è un leader generoso.
Gli insegni, per favore, che per ogni nemico ci sarà anche un amico e che vale molto più una moneta guadagnata con il lavoro che una moneta trovata.
Gli insegni a perdere, ma anche a saper godere della vittoria, lo allontani dall’invidia e gli faccia riconoscere l’allegria profonda di un sorriso silenzioso.
Lo lasci meravigliare del contenuto dei suoi libri, ma anche distrarsi con gli uccelli nel cielo, i fiori nei campi, le colline e le valli. Nel gioco con gli amici, gli spieghi che è meglio una sconfitta onorevole di una vergognosa vittoria, gli insegni a credere in se stesso, anche se si ritrova solo contro tutti.
Gli insegni ad essere gentile con i gentili e duro con i duri e a non accettare le cose solamente perché le hanno accettate anche gli altri.
Gli insegni ad ascoltare tutti ma, nel momento della verità, a decidere da solo.
Gli insegni a ridere quando è triste e gli spieghi che qualche volta anche i veri uomini piangono. Gli insegni ad ignorare le folle che chiedono sangue e a combattere anche da solo contro tutti, quando è convinto di aver ragione.
Lo tratti bene, ma non da bambino, perché solo con il fuoco si tempera l’acciaio.
Gli faccia conoscere il coraggio di essere impaziente e la pazienza di essere coraggioso.
Gli trasmetta una fede sublime nel Creatore ed anche in se stesso, perché solo così può avere fiducia negli uomini.
So che le chiedo molto, ma veda cosa può fare, caro maestro
».

Bella questa lettera, vero? D’altra parte è stata scritta da un grande uomo.
Come genitori siamo così disposti a chiedere per i nostri figli un po’ meno “comprensione” e più rigore?
Perché il compito di noi adulti è di aiutare i nostri ragazzi ad affrontare la vita superando i “capricci”.
Molte volte ce lo dimentichiamo e, sia come genitori che come insegnanti, non siamo proprio di aiuto.  Per non parlare poi delle incomprensioni tra la scuola e la famiglia, che non permettono certo quella sana alleanza educativa capace di far crescere bene bambini e ragazzi.
Per il nuovo anno vorrei rivolgere a tutti l’augurio che possa esserci più collaborazione tra genitori e docenti, che gli uni ascoltino gli altri senza preconcetti e principi (o pseudo-principi) da difendere.
Al centro dobbiamo mettere il ragazzo e la sua crescita positiva.


Il desiderio dei ragazzi? Un amore per sempre

Questa volta propongo una riflessione per noi genitori, tratta da Noi, Genitori & Figli, supplemento di Avvenire del 24 novembre 2013.

Il primo sabato c’erano circa quattrocento ragazzi delle scuole medie, il secondo i ragazzi delle scuole superiori erano, approssimativamente, duecentocinquanta. ll titolo dei due incontri: “I miei genitori sono degli Ufo”.
Sono arrivati preparati, i loro animatori mi avevano precedentemente inviato centinaia di domande – rigorosamente anonime- sull’argomento genitori-figli, domande scritte dai ragazzi direttamente, alle quali avrei dovuto dare una qualche “risposta”.
Quelli delle medie hanno chiesto di tutto, persino «perché il mio papà è un brontosauro?». Ma in modo particolare alcune domande ritornavano continuamente, riguardavano la loro identità di figli accolti, o accolti-con-riserva: «Se io facessi qualcosa di sbagliato, i miei genitori mi amerebbero lo stesso?»; «Come posso essere il figlio che desiderano?»; «Perché sono nervosi e se la prendono con me?» «Perché mi mandano a Messa se loro non vengono con me?».
Un filo rosso, mi pare, legava tra loro la maggior parte delle questioni: ansia da prestazione. La prestazione che questi figli sentivano di dover offrire ai loro genitori, era di rispondere alle loro aspettative. Mi tornavano in mente le parole del sociologo Zigmunt Bauman che parla dei figli che oggi, troppo spesso, sono una «risposta ai desideri emotivi dei genitori». Un processo, non cosciente di solito, che però riscontro essere il substrato, il presupposto non dichiarato, delle relazioni genitori-figli.
Le domande dei ragazzi delle scuole superiori erano delle vere e proprie bombe a mano. «Perché vi siete sposati se poi vi siete lasciati?»; «Perché la vostra felicità deve essere più importante della mia?»; «Perché litigate sempre?»; «Mamma, perché non ami più papà?»; «Perché vi dite le bugie?»; «Perché non potete continuare a stare insieme?»; «Perché siete sempre nervosi?»; «Vi amate ancora o fate solo finta per me?»; «Papà, perché mi telefoni solo una volta al mese?». Insieme anche a «Grazie per quello che fate per me»; «Vi voglio bene»; «Scusate se vi deludo» (ancora tanta ansia da prestazione); c’erano tante richieste di sapere «Come vi siete conosciuti?»; «Come é stato il vostro fidanzamento?». ll filo rosso delle domande era costituito, anche qui, dal timore di non essere all’altezza delle aspettative dei genitori, ma soprattutto dalla cosiddetta “domanda sull’amore”. Voglio dire che è emerso un bisogno primario da parte dei figli di sapere la “storia sacra” dell’amore dei genitori. Conoscerne l’inizio che, simbolicamente, è anche quello del loro esistere. lndipendentemente da come siano andate poi le cose, per i figli è essenziale sentirsi narrare del “principio’, sapersi confermati che, comunque, all’origine del loro esistere c’é stato il risvegliarsi dell’amore.
Ai genitori degli adolescenti che ho incontrato sempre a ottobre, per il ciclo di incontri non a caso chiamati “Genitori sull’orlo di una crisi di nervi”, ho consegnato, tra le altre cose, il dovere della narrazione, che è un tutt’uno con la sete di radici dei figli. L’altra consegna è stata la speranza. I figli, in relazione alla domanda sull’amore, chiedevano tutti la stessa cosa: datemi speranza. Speranza che, anche se per voi il rapporto si è rotto, non si è rotto però un modo umano di relazionarvi, di essere ancora, seppur differentemente, famiglia. E speranza che chi ha ancora i genitori insieme possa vedere, nella loro relazione, la tenerezza e le attenzioni di due che si amano ancora. Questa speranza è un tutt’uno con il progetto di vita: i figli lasciavano emergere la necessità di credere che per loro, come per i loro genitori, nonostante i loro genitori, ci sia la possibilità di credere all’amore per sempre.
Non togliamogli questa speranza che è, in fondo, l’unica necessaria.  
Roberta Vinerba

Mi costruisco da me!?

«Ho scelto di fare questo lavoro perché mi colpiva il fatto che i nostri ragazzi tossicodipendenti dicono di sé: “Mi faccio”. Quanto è drammatica un’espressione così! È come se intendesse dire: “Mi costruisco da me. Siccome non ho avuto, non ho ricevuto da altri, allora ci penso io, mi faccio io con le mie mani”. E invece no: la salvezza non viene da te, è un Imprevisto che ti viene incontro e ti cambia la vita».





Silvio Cattarina, psicologo e sociologo, fondatore della cooperativa sociale L’Imprevisto di Pesaro, che accoglie minorenni provenienti in larga parte dal mondo della droga, in Credere n. 20/2013.

Papa Francesco ai musulmani: formare i giovani al rispetto per l’altro


In occasione della fine del Ramadan (oggi è la festa solenne della rottura del digiuno), il Papa ha personalmente inviato un messaggio a tutti i musulmani.
Ecco il testo:
«Ai musulmani nel mondo intero. È per me un grande piacere rivol­gervi il mio saluto in occasione del­la celebrazione di «Id al-Fitr» che conclu­de il mese di Ramadan, dedicato princi­palmente al digiuno, alla preghiera e all’e­lemosina.
È ormai tradizione che, in questa occasio­ne, il Pontificio Consiglio per il dialo­go interreligioso vi mandi un messag­gio augurale, accompagnato da un te­ma offerto per la riflessione comune. Quest’anno, il primo del mio pontifi­cato, ho deciso di firmare io stesso que­sto tradizionale messaggio e di inviar­velo, cari amici, come espressione di stima e amicizia per tutti i musulma­ni, specialmente coloro che sono capi religiosi.
Come tutti sapete, quando i cardina­li mi hanno eletto come vescovo di Roma e pastore universale della Chiesa cattolica, ho scelto il nome di «Fran­cesco», un santo molto famoso, che ha a­mato profondamente Dio e ogni essere u­mano, al punto da essere chiamato «fra­tello universale». Egli ha amato, aiutato e servito i bisognosi, i malati e i poveri; si è pure preso grande cura della creazione. Sono consapevole che, in questo periodo, le dimensioni familiare e sociale sono par­ticolarmente importanti per i musulmani e vale la pena di notare che vi sono certi pa­ralleli in ciascuna di queste aree con la fe­de e la pratica cristiane.
Quest’anno, il tema su cui vorrei ri­flettere con voi e con tutti coloro che leggeranno questo messaggio, e che riguarda sia i musulmani sia i cristiani, è la promozione del mutuo ri­spetto attraverso l’educazione.
Il tema di quest’anno intende sottolinea­re l’importanza dell’educazione nel modo in cui ci compren­diamo gli uni gli altri, sulla base del mutuo rispetto. «Rispetto» signifi­ca un atteggia­mento di genti­lezza verso le per­sone per cui nu­triamo considera­zione e stima. «Mutuo» significa che questo non è un processo a senso unico, ma qualcosa che si condivide da en­trambe le parti.
Ciò che siamo chiamati a rispet­tare in ciascuna persona è innan­zitutto la sua vita, la sua integrità fisica, la sua dignità e i di­ritti che ne scaturiscono, la sua reputazio­ne, la sua proprietà, la sua identità etnica e culturale, le sue idee e le sue scelte poli­tiche. Siamo perciò chiamati a pensare, parlare e scrivere dell’altro in modo ri­spettoso, non solo in sua presenza, ma sempre e dovunque, evitando ingiuste critiche o diffamazione. Per ottenere questo scopo, hanno un ruolo da svol­gere le famiglie, le scuole, l’insegna­mento religioso e ogni genere di mezzi di comunicazione sociale. Venendo ora al mutuo rispetto nei rapporti interreligiosi, special­mente tra cristiani e musulmani, siamo chiamati a rispettare la religione dell’altro, i suoi insegnamenti, simboli e valori. Uno speciale rispetto è dovuto ai capi religiosi e ai luoghi di culto. Quan­to dolore arrecano gli attacchi all’uno o all’altro di questi! Chiaramente, nel manifestare rispetto per la religione degli altri o nel porgere loro gli auguri in occasione di una cele­brazione religiosa, cerchiamo sempli­cemente di condividerne la gioia, senza fare riferimento al contenuto delle loro convinzioni religiose. Riguardo all’educazione della gioventù musulmana e cristiana, dobbiamo for­mare i nostri giovani a pensare e parla­re in modo rispettoso delle altre religio­ni e dei loro seguaci, evitando di mette­re in ridicolo o denigrare le loro convin­zioni e pratiche. Sappiamo tutti che il mutuo rispet­to è fondamentale in ogni relazio­ne umana, specialmente tra perso­ne che professano una credenza reli­giosa. È così che può crescere un’amici­zia sincera e duratura.
Nel ricevere il corpo diplomatico ac­creditato presso la Santa Sede, il 22 marzo 2013, ho detto: «Non si possono vivere legami veri con Dio, ignorando gli altri. Per questo è importante inten­sificare il dialogo fra le varie religioni, penso anzitutto a quello con l’islam, e ho molto apprezzato la presenza, du­rante la Messa d’inizio del mio mini­stero, di tante autorità civili e religiose del mondo islamico». Con queste paro­le, ho voluto ribadire ancora una volta la grande importanza del dialogo e del­la cooperazione tra credenti, in parti­colare tra cristiani e musulmani, e la ne­cessità di rafforzarla.
Con tali sentimenti, rinnovo la mia speranza che tutti i cristiani e mu­sulmani possano essere veri pro­motori di mutuo rispetto e amicizia, in particolare attraverso l’educazione.
Vi porgo, infine, i miei migliori auguri e preghiere affinché le vostre vite possa­no glorificare l’Altissimo e arrecare gioia a coloro che vi circondano. Buona festa a tutti voi!»
Francesco